Gli sbandati
Gli sbandati (Maselli, 1955)

Uno dei paradossi dello strano destino toccato in sorte a Goliarda Sapienza è quello di avere ottenuto la fama e il consenso in larga parte per le sue opere postume. L’arte della gioia, un autentico capolavoro del Novecento, rappresenta un caso davvero eccezionale: è probabilmente il romanzo che ha ricevuto il più alto numero di rifiuti editoriali e, allo stesso tempo, dalla sua riscoperta in Francia nei primi anni Duemila ha conosciuto negli ultimi quindici anni un successo inarrestabile. Ultimo arrivato dei tanti libri curati dal marito Angelo Pellegrino (custode e promotore instancabile dell’opera di Sapienza), è il corposo volume che consegna al pubblico dei lettori e delle lettrici una scelta consistente della sua corrispondenza: Lettere e biglietti (La Nave di Teseo).

Completando la pubblicazione delle migliaia di pagine inedite rimaste nei cassetti dell’archivio Sapienza-Pellegrino, questo volume aggiunge un tassello significativo alla multiforme costellazione di scritture dell’io esplorate da Sapienza, che costituiscono un unicum nel panorama del secondo Novecento. Dopo le prime prove memoriali –  Lettera aperta (1967) e Il filo di mezzogiorno (1969) – l’autrice giunge infatti ai memoirs della maturità – L’università di Rebibbia (1987), Le certezze del dubbio (1987), Io, Jean Gabin (2010) e Appuntamento a Positano  (2015) –, per proseguire poi attraverso la stesura dell’originale romanzo autobiografico L’arte della gioia (di cui Sapienza riesce a veder pubblicata soltanto la prima parte nel 1994 da Stampa Alternativa). I cimenti letterari sono sempre accompagnati da notazioni febbrili, quotidiane, restituite alla comunità di lettori e lettrici solo di recente, ma con grande merito, nelle due sillogi Il vizio di parlare a me stessa (2011) e La mia parte di gioia (2013).

Come nel caso della sperimentazione delle altre forme autobiografiche, anche per la scrittura epistolare Sapienza mostra di maneggiare le regole del genere con grande originalità, riducendo al minimo la dimensione informativa e strumentale della corrispondenza privata e consegnando invece alle missive la più autentica espressione di quella ricerca di interlocuzione che pervade ogni sua pagina.

Le lettere e biglietti scelti e ordinati da Pellegrino percorrono, infatti, un ampio arco della biografia della scrittrice: le prime sono inviate a Citto Maselli nel 1950 mentre l’ultima, datata 17 aprile 1996 (si ricorda che l’autrice muore il 30 agosto dello stesso anno), viene spedita alla scrittrice Jamila Očkayová e reca con sé una cruciale dichiarazione di intenti: «Per me scrivere è questo: richiesta di comprensione e d’amicizia» (Sapienza 2021, p. 423). Il corpus ricompone e celebra la storia dei suoi rapporti umani, indugiando sulla relazione con Maselli, sullo scambio con le amiche degli anni cinquanta e sessanta (che fanno spesso capolino in Lettera aperta e nel Filo di mezzogiorno), senza tralasciare la corrispondenza con registi ed editori, a cui si aggiunge da ultimo il piccolo nucleo epistolare con la nuova comunità amicale scoperta dopo la breve ma importantissima esperienza carceraria dei primi anni ottanta.

La scelta e la disposizione privilegia un criterio non esclusivamente temporale (molte pagine sono prive di date e la cronologia si può solo dedurre dai riferimenti contestuali); in altri termini, quel che sembra interessare al curatore (che in questo caso, più che per tutti gli altri testi, ha un ruolo fondamentale) è il disegno della cartografia di affetti e amicizie che è stata la vita di Goliarda Sapienza. La raccolta epistolare è infatti ordinata in base ai nomi dei destinatari, quasi a voler suggerire la mappa delle sue relazioni, il dialogo intenso e appassionato con le donne e gli uomini che ha incontrato nel corso della inquieta e avventurosa «passeggiata che chiamiamo vita» (Sapienza 2008, p. 131). I testimoni di questa comunicazione frammentata e al tempo stesso ininterrotta si possono leggere in controluce con il macrotesto dell’opera narrativa, si possono accostare sinotticamente ai taccuini per provare a colmare i vuoti dell’autobiografia, ma il valore documentale e referenziale di queste pagine non costituisce certamente l’intento primario di questa operazione editoriale.

Del resto, quel che interessa sempre a Goliarda Sapienza nel confronto con la pagina bianca non è mai il racconto di fatti o la descrizione degli avvenimenti e dei personaggi, quanto piuttosto la risonanza emotiva che l’impatto con il reale abitato da corpi e voci che hanno sfiorato la sua esistenza ha su di lei. Anche alla prova della stesura di lettere e messaggi, l’attrice-scrittrice (per la quale il connubio delle due vocazioni artistiche appare imprescindibile) si trova a “mettere in scena” un’altra delle infinite recite di un io esposto sul palcoscenico della vita e pronto a reinventarsi raccontandosi alle tante e diverse maschere, di cui reclama ascolto e attenzione. L’intero ciclo autobiografico, che Sapienza definisce nei taccuini L’autobiografia delle contraddizioni, si offre come una serie “epistolare” nella quale il lettore è convocato più o meno esplicitamente e chiamato in causa in più occasioni, per collaborare al processo terapeutico e rigenerativo che la scrittura e il recupero della memoria consentono. Ogni opera in fin dei conti è concepita come una Lettera aperta, in analogon alla prima.

Nelle lettere e nei biglietti appena pubblicati i destinatari di quegli appelli hanno un nome (e a volte un cognome) e ad essi Sapienza si rivolge, appunto, per celebrare la gioia degli affetti («Munevver cara, ieri sono tornata a Roma e ho trovato una pioggia di foglietti leggeri e affettuosi che mi hanno riempita di gioia», p. 45); per prendersi cura della relazione più o meno forte che ha con loro («Ma questo amaro che ho in bocca dovevo capirlo e cercare di spiegartelo», p. 143); per provare a definire i termini di tale rapporto. Le lettere a Titina Maselli, ad Attilio Bertolucci o a Piera degli Esposti, sono certamente le più intense e profonde. A quest’ultima scrive, per esempio:

Piera mia, scusa la durezza di questa lettera, ma come noi due sappiamo la nostra amicizia non è mai stata un divano comodo di complicità e mollezza, ma una palestra lucida di scontro e volontà di “cercare”, “conoscere”, “sperimentare”. So di responsabilizzarti con queste parole egoistiche, ma come dicemmo una volta l’amore è egoismo, necessità dell’altro, volontà di rubare all’altro, nutrirsi, mangiare ed essere mangiati e io senza la tua intelligenza e la tua forza di vita e di passione vengo mutilata – ormai è chiaro – nell’arto dell’affettività e della fiducia. In quelle condizioni non posso che – da mutilata – non rispondere a tutti che con monosillabi e indifferenza (ivi, p. 71).

Dentro questa «fenomenologia residuale» (così Petrucci definisce gli scambi epistolari su carta stampata del ventunesimo secolo), Sapienza immette il suo personale posizionamento tecnofobico rispetto ai dispositivi della comunicazione interpersonale, non mancando di ribadire in ogni occasione la propria opzione a favore della pagina scritta, che consente di chiarire e approfondire le ragioni degli affetti, e condannando altresì – ogni volta che ne ha la possibilità – quel «mezzo osceno che sotto l’apparenza di avvicinare le persone non fa che confortare le pigre solitudini onaniste di tutti questi figli del cinema e della televisione» (ivi, p. 270), ovvero «quel gelido filo alienante che chiamano telefono» (ivi, p. 413). A Marta Marzotto confessa: «Per me scrivere (deviazione professionale?) è come parlare… e, mentre ti parlo, vedo il tuo viso grande, generoso, proteso verso gli altri» (ibidem).

La scrittura epistolare di Sapienza, come spesso accade nei carteggi dei grandi autori, si distende entro un’inquieta e appassionata dialettica fra distanza e vicinanza (Kauffman 1990): mentre reclama la necessità della prossimità dell’interlocutore («Citto caro, […] ho voglia di vederti, di parlarti, e non di scriverti», p. 15), trova però nella lontananza dal medesimo la giusta postura per far decantare le passioni, per mettere in dialogo i moti del suo animo e di quello altrui, in una costruzione dei rapporti umani che si alimenta della funzione mediale della scrittura («Lu cara, […] ho voluto rivederti su questo foglio bianco, prima di riabbracciarti», p. 405).

Lo schermo della pagina nella quale intravede il volto di un preciso destinatario si offre, dunque, anche come spazio in cui proiettare le ragioni dell’arte letteraria o cinematografica, ora per parlare del proprio lavoro (dei romanzi come delle esperienze sul set), ora invece per regalare il proprio sguardo empatico e acuto rivolto alle opere altrui. Sapienza riconosce la fecondità del confronto con alcuni interlocutori speciali come Titina Maselli («da questa tua comprensione ho avuto l’idea per il terzo romanzo», p. 167) e Attilio Bertolucci («tu sei per me il padre dello scrivere», p. 243), tanto che, con un vertiginoso ribaltamento delle contraintes del genere, vorrebbe fare di loro creature della sua penna. Scrive infatti a Cesare Garboli:

Peccato non avere la penna atta a maneggiare questo pezzo di natura: gli amici che la vita ci ha messo a disposizione. È sempre questo il mio cruccio, mentre il tempo corre, come dare agli altri una Titina, una Rosetta, un Tonello… (ivi, p. 397).

Sapienza è però anche capace di guardare con generosa partecipazione, con quella sua speciale prospettiva che le deriva dal doppio talento attoriale e letterario, al lavoro altrui, regalando preziosi consigli a Maselli per rendere più efficace e credibile la sceneggiatura dei Delfini oppure esprimendo il suo commosso ringraziamento a Luce d’Eramo per il suo romanzo Deviazioni, provando a spiegare perché le appare come un «libro di quei pochi che resterà vivo sempre» (ivi, p. 266). E fra le non frequenti lettere che disegnano la trama delle affinità elettive e ci offrono un frammento del suo ritratto della “spettatrice da adulta”, la più intensa è certamente quella scritta a caldo a Visconti dopo la visione di Rocco e i suoi fratelli:

Luchino,
[…] scusami ma non posso non dirti subito quanto l’aver guardato in faccia il tuo Rocco mi ha stravolta: quanto il suo sguardo mi ha rovesciata come una seppia facendomi sentire il sapore del sangue che tanto falso, accorto pudore e raffinato gusto prudente cerca di soffocare con deodoranti e saponette profumate.
Dirti […] se mi ha commosso più o meno di La terra trema mi sembrano […] ragionamenti “a freddo” che lo sguardo di “Rocco” non ammette per questa tua fatica che mi appare come il lavoro atroce e pieno d’amore di un grande chirurgo che, scovato il nodo di una verità, lo seziona tenacemente, senza timore, fino al suo fondo più doloroso e misterioso per portarlo alla luce, rivelato in quell’esplosione abbandonata di pianto liberatore su un letto squassato da due corpi di fratelli abbracciati in una vita […] (ivi, p. 123).

È bene ricordare che la metafora chirurgica ricorre spesso nelle pagine metadiscorsive del Filo di mezzogiorno, dell’Arte della gioia, come delle pièce, a conferma della tenuta complessiva e della circolazione di temi e motivi dentro l’accidentato e pur coeso macrotesto dell’autrice. Ma il gioco di rimandi, gli echi e le risonanze fra una pagina e l’altra, fra un personaggio e il suo doppio è assai complesso. Quel che si può dire complessivamente, a partire dal rapido sondaggio di questo carteggio, è ciò che Sapienza stessa scrive di una pagina perduta che avrebbe spedito, quando sarebbe saltata fuori, ad Attilio Bertolucci: si tratta di lettere «senza tempo», «piccole novelle che si possono spedire e ricevere senza data», eppure i fantasmi che evocano, i volti che reclamano accanto a sé fanno «toccare con mano tutte le “vite” fantastiche che viviamo parallelamente a quella quotidiana e tangibile» (ivi, pp. 236 e 238) e che hanno alimentato gli intrecci dei racconti di ogni sua opera.

Riferimenti bibliografici
V. Kauffman, L’equivoque epistolaire, Les Éditions de Minuit, Paris 1990.
A. Petrucci, Scrivere lettere. Una storia plurimillenaria, Laterza, Roma-Bari 2008.
G. Sapienza, L’arte della gioia, Einaudi, Torino 2008.

Goliarda Sapienza, Lettere e biglietti, a cura di Angelo Pellegrino, La nave di Teseo, Milano 2021.

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