Pochi mesi prima della sua morte, avvenuta a Parigi vent’anni fa, il 9 ottobre 2004, Jacques Derrida rilasciava una lunga intervista a Jean Birnbaum su Le Monde in cui confessava la doppia sensazione che, da una parte, per dirla con un sorriso e immodestamente, non si è ancora cominciato a leggermi e se ci sono, certamente, molti buoni lettori (alcune decine nel mondo, forse), in fondo è solo più tardi che ciò potrà manifestarsi; ma, dall’altra parte, ho anche la sensazione che quindici giorni o un mese dopo la mia morte, non resterà più nulla. […] Glielo giuro, credo sinceramente e simultaneamente a queste due ipotesi (2005, p. 34).

La «doppia sensazione», raccolta nella simultaneità di un «non ancora» e di un «non più», emblematizza la vicenda intellettuale del filosofo franco-algerino che da El-Biar, piccolo sobborgo vicino Algeri dove era nato nel 1930, attraverserà come una freccia infuocata la seconda metà del XX secolo nei quattro angoli del mondo. Oggi, nella proteiforme e complessa comunità filosofica (non esclusivamente accademica) e a dispetto dei tanti (forse troppi) corifei della fine, prevale – rispetto a quanto dichiarato da Derrida – la prima «sensazione», e anche la sua monumentale opera (più di ottanta volumi), che prosegue a ritmo serrato con la pubblicazione dei seminari che per oltre un quarantennio sono stati tenuti presso la Sorbona, l’École normale supérieure e infine l’École des hautes études en sciences sociales, sembra dichiarare che tutto rimane ancora da scoprire. 

Non è certo impresa semplice svincolarsi dalla tentazione della celebrazione, come pure, sul versante opposto, prodursi nello sterile esercizio di “cosa è vivo e cosa è morto” della cosiddetta «decostruzione», termine globalmente attribuito all’opera di Derrida che lo stesso autore, in una famosa lettera al collega Toshihiko Izutsu che gli chiedeva lumi su come tradurre la parola in giapponese, invitava a maneggiare con estrema cura perché

[essa] appartiene al fatto che tutti i predicati, tutti i concetti definitori, tutti i significati lessicali e anche le articolazioni sintattiche che sembrano adattarsi momentaneamente alla definizione e traduzione sono anche decostruiti o decostruibili, direttamente o no (2009, pp. 7-13). 

Parlare di «decostruzione» significa, dunque, parlare non tanto di un metodo o di un’analisi oppure di uno dei versanti dell’ermeneutica cara a tanto pensiero filosofico dei nostri giorni, ma di un atteggiamento, una postura, un gesto che si insinua nel cuore di quelle “costituzioni di senso” che alimentano i saperi per mostrarne i punti di resistenza interni o, per usare altri termini, i residui non sussumibili e magari censurati o relegati ai “margini” delle ipotesi teoriche su cui si è costruita la tradizione filosofica. Non si tratta, ovviamente, di demolire o perfino di porsi al di fuori di tale tradizione (come alcune letture del cammino di pensiero derridiano hanno voluto – ingenuamente o maliziosamente – fare), ma, al contrario, di accogliere e ascoltare quanto è stato prodotto per verificarne la tenuta interna. Si tratta forse di un gesto impossibile e Derrida è stato chiaro anche in questo senso:

la decostruzione non perde niente a confessarsi impossibile, e quanti se ne rallegrassero troppo in fretta non perdono nulla nell'attendere. Il pericolo per un compito di decostruzione sarebbe piuttosto la possibilità, e diventare un insieme disponibile di procedure regolate, di pratiche metodiche, di cammini accessibili. L’interesse della decostruzione, della sua forza e del suo desiderio, se ne ha, è una certa esperienza dell’impossibile: vale a dire l’esperienza dell’altro come invenzione dell’impossibile, in altri termini come la sola invenzione possibile (2009, p. 28). 

L’esperienza dell’altro, ovvero l’esperienza dell’impossibile attrae come un irresistibile magnete la decostruzione che, dunque, non consisterà in nessuna forma di letterale addomesticamento o trasformazione in possibilità (magari di un senso definitivamente acquisito), ma si raccoglierà nell’interminabile approssimazione a quanto, in ogni caso, continuerà a sfuggire: l’alterità non si trova al di fuori, non è al di là dei confini più o meno protetti dei saperi, della storia, dello stesso uomo, ma è l’inafferrabile intimità più intima all’uomo di se stesso. 

È forse anche in questa direzione che si devono comprendere le parole di Derrida nell’intervista sopra citata: il non aver ancora cominciato a leggere la sua opera significa anche che – come chiunque si sia accostato alle pagine del filosofo ha sperimentato – si deve ogni volta cominciare daccapo, vale a dire che si deve (la decostruzione è più un’ingiunzione che una serie di contenuti o proposizioni) rimettere in moto quanto sembra acquisito per scovare o scavare ulteriori tracciati o punti di fuga, nuove prospettive o inediti percorsi che per rendersi praticabili devono necessariamente abbandonare o, meglio, mettere in discussione ogni presupposto, ogni movente, ogni idea precostituita di verità.

Si tratta indubbiamente di un compito inesauribile perché, come testimoniano volumi e seminari, la radicalità delle indagini non si lascia confinare (anche nel senso “politico” del termine) solo nel discorso filosofico, ma convoca campi del sapere come la letteratura, la psicoanalisi, la politica e finanche la teologia, l’antropologia o la sociologia che vengono interrogati sulle ragioni del loro essersi affermati magari dotandosi di impianti o dispositivi autonomi o, ancora, sulle strutture (anche operative) che hanno generato.

Questa ampiezza di sguardo, unitamente a una non meno sorprendente profondità, è quanto permette a Derrida di parlare di «metafisica» e, più ancora di «metafisica della presenza» come del carattere principale che, almeno in Occidente, ha assunto il pensiero filosofico: pur nella considerazione di una selva di varianti e di modulazioni, la riconduzione all’essere o, in ogni caso, la considerazione di un’identità costituita per se stessa e a se stessa presente (si pensi alle concezioni filosofiche del termine «coscienza»), ha sempre dovuto disporre gerarchicamente, subordinandola, l’alterità, ed ha, per così dire, censurato l’idea che le opposizioni su cui il discorso metafisico si regge (intelligibile-sensibile, natura-cultura, e così via) non sono ipostatizzazioni ma relazioni differenziali in cui ogni termine ha strutturalmente bisogno dell’altro per essere o significare.

La dinamica generativa dei concetti che, a differenza di quanto accade, per esempio, con la filosofia hegeliana, non può risolversi in una sintesi dialettica, movimenta dal di dentro ogni sistema filosofico come pure ogni costituzione di senso e, da ultimo, la possibilità della vita che, allora, non sarà più in opposizione alla morte e non sarà più da questa minacciata ma, al contrario, sarà possibile solo se intrecciata con quanto sembra negarla: nell’economia dello scambio, del rinvio, di un differimento non riconducibile alla semplice “differenza” (Derrida, infatti, sentirà il bisogno di coniare il termine différance) si rivela l’insieme di condizioni della vita del vivente.

E, certamente, sono innumerevoli gli autori che hanno accompagnato Derrida nel suo percorso: Platone, Hegel, Freud, Nietzsche, ma anche Nancy, Levinas, Lacan sono stati “compagni” (anche turbolenti) di un’avventura intellettuale che non ha mai cercato di istituire barriere e che, anzi, ha provato a sminarne le basi ovunque le abbia incontrate, in nome di un’esigenza e di un rigore del pensiero sempre più alti di quegli steccati disciplinari o metodologici di cui i detrattori hanno denunciato il mancato rispetto. Oggi, a vent’anni dalla scomparsa di Jacques Derrida e di fronte al suo ancora non del tutto scandagliato lascito, all’eredità  a venire delle sue indagini, risuona ancora, come una promessa per la filosofia quanto Derrida dichiarava poco prima di morire: «Continuamente la decostruzione sta dalla parte del , dell’affermazione della vita».

Riferimenti bibliografici
J. Derrida, Apprendre à vivre enfin. Entretien avec Jean Birnbaum, Galilée, Paris 2005.
Id., Psyché. Invenzioni dell’altro, vol. I, Jaca Book, Milano 2008.
Id., Lettera a un amico giapponese, in Psyché. Invenzioni dell’altro, vol. II, Jaca Book, Milano 2009.

Jacques Derrida, El-Biar, 15 luglio 1930 – Parigi, 9 ottobre 2004.

Tags     decostruzione, Derrida
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