Quanti erano, in Unione Sovietica, i monumenti a Lenin, grandi o piccoli, a figura intera o a mezzo busto, in bronzo o in pietra, in bella vista al centro di una rinomata piazza, oppure nascosti nel cortile di una fabbrica o di una scuola?
Le stime più attendibili – in assenza di conteggi ufficiali effettuati prima del 1991 – danno conto di 14.290 monumenti. Di questi una metà era in Russia e una metà nelle altre repubbliche: circa 5.500 in Ucraina, 600 in Bielorussia, 500 in Kazakistan, 80 in Moldavia, 300 nelle repubbliche dell’Asia centrale e della Transcaucasia, 160 nei paesi baltici, 150 in altri paesi esteri. Nel gennaio 2021, ne risultavano ancora in piedi 6.000 in Russia. In Ucraina erano 350, in Bielorussia 400, in Kazakistan 159, in Moldavia 60, nelle repubbliche dell’Asia centrale e della Transcaucasia 200, e 25 in altri paesi esteri, per un totale di almeno 7.194. Solo i paesi baltici sembravano in quel momento averne eliminato ogni traccia. Oggi, in Ucraina, il processo di demolizione è giunto pressoché a compimento. Comprende non solo statue e busti, ma anche bassorilievi, mosaici, murali, targhe, iscrizioni e immagini di vario genere raffiguranti Lenin.

L’impulso a distruggere i manufatti pubblici commemorativi di un regime percepito come oppressivo e dal quale si vuole prendere commiato il più rapidamente possibile, ha segnato in modo profondo il processo di decomunistizzazione delle democrazie popolari nell’Europa orientale dissolte dopo il 1989 e dei nuovi Stati formatisi per effetto del disfacimento dell’URSS nel 1991. La folla, come già sovente in passato, si è gettata su statue e sculture come se fossero persone in carne ed ossa, rivolgendovi contro (a colpi di mazza o con l’impiego di martelli pneumatici e bulldozer) quell’energia eccedente che può sì indirizzarsi verso il corpo che l’ha accumulata, ma può anche rivolgersi a un ambiente pieno di segni che richiamano alla mente il passato: «Nella vita di ogni essere (specie, individuo o gruppo) ci sono dei momenti in cui l’energia disponibile, sovrabbondante, tende ad esplodere. Essa può rivolgersi contro se stessa, oppure verso l’esterno, in modo gratuito e gratificante» (Lefebvre 1974, p. 209).

Il caso d’iconoclastia più esteso e radicale è stato sicuramente il Leninopad (Lenin + pad, letteralmente “Lenin a terra”, oppure, reso con una costruzione causativa, “fatto cadere a terra”) in Ucraina, un’azione collettiva sviluppatasi nel quadro della crisi politica di Euromaidan. Generata dal rifiuto del presidente Viktor F. Janukovyč di sottoscrivere un accordo di associazione con l’Unione Europea, la crisi provocò, a partire dalla notte del 21-22 novembre 2013, proteste diffuse a Kyïv e in altre città, per poi sfociare nella rivoluzione del 18-23 febbraio 2014, contribuendo a trasformare singoli gesti iconoclastici in una vera e propria demolizione di massa del patrimonio memoriale sovietico, la cui principale incarnazione o concretizzazione fu vista nei monumenti in onore di Lenin. Potremmo considerare il Leninopad come un esempio maggiore di quella «paura del corpo nell’immagine, del corpo in qualche modo annidato nella rappresentazione» (Freedberg 2021, p. 195), che sembra contraddistinguere – pur nella varietà delle azioni e nella disparità delle motivazioni – tutta la storia dell’iconoclastia.

L’esperienza di liberazione dello spazio comunista invita a riflettere sulla complessità e la polisemia dei fenomeni di cancellazione della cultura e impone di misurarne frequenza e radicalità, così come di discernere tra rimozione, distruzione, vandalismo, modificazione, reinterpretazione, decadimento per negligenza e, persino, sovraiscrizione, come dimostra ancora oggi la presenza diffusa di piedistalli vuoti, specifica forma di oggetti sous rature – secondo l’espressione di Jacques Derrida: vecchi segni fatti sopravvivere in attesa dei nuovi, testimonianza di una scrittura che scompare pur rimanendo leggibile, né veramente presente né del tutto assente, marcatore di una memoria allusiva e, al tempo stesso, trasparente (Derrida 1967, p. 38). È anche una esperienza che impone di valutare le differenze tra paesi, nel quadro di disomogenee transizioni verso la democrazia; di distinguere tra campagne coordinate a livello centrale, promosse per iniziativa di autorità locali o nate su pressione di folla; di valutare con attenzione la tipologia dei manufatti (in particolare, statue o memoriali di guerra), a volte simili nello stile ma il cui destino dipende molto da visioni contestate o concorrenziali della storia e, al tempo stesso, le orienta; di determinare il peso delle specificità nazionali su iconoclastia, vandalismo o distruzione sporadica.

Il processo messo in moto all’inizio degli anni ‘90, una volta concluso il ciclo della decomunistizzazione formale, si è posto obiettivi nuovi e di significato globale. Lo testimonia la campagna di decolonizzazione dei territori e, soprattutto, delle conoscenze della storia intrapresa in Ucraina nell’alveo dell’Istituto della memoria nazionale, indirizzata ad una più risolutiva emancipazione dall’eredità imperiale russa e sovietica. D’altro canto, gli interventi nella topografia simbolica residua del socialismo reale hanno sempre visto esplicite pressioni e forzature nel modellamento delle identità da parte delle istituzioni politiche, che sono sistematicamente intervenute per orientare le manifestazioni.

L’esperienza dell’Europa orientale ci fa comprendere che gli atti di iconoclastia sono spesso esercizi di compromesso, che sfociano in risultati ibridi capaci di trasformare l’oggetto contestato in un medium per introdurre significati del tutto diversi da quelli originari. Poche immagini riuscirebbero a sostituire la bellezza frantumata e l’eloquenza senza parole del Lenin di Theodoros Angelopoulos in Lo sguardo di Ulisse (1995). Pochi racconti riuscirebbero a definire il sentimento dell’ostalgie narrato da Wolfgang Becker in Good Bye, Lenin! (2003) o, al contrario, un territorio della mente completamente chiuso nella sua anteriorità come quello rappresentato da Askold Kurov in Leninlend (2013). Artisti e movimenti d’avanguardia hanno tratto ispirazione dalle reliquie, creando un imponente archivio di reperti, sperimentazioni e riflessioni solo parzialmente esaminato nelle sue potenzialità documentarie. Il ripensamento performativo ha compreso sia azioni e performance reali, sia pratiche che non rivendicavano l’arte, ma vi erano molte vicine, così come forme artistiche sovversive. L’obiettivo è stato di favorire una nuova percezione degli eroi del passato, desacralizzandoli e facendo loro parlare la lingua del presente: i monumenti, più che essere distrutti o conservati, andrebbero dunque alterati e risignificati in modo da rendere visibile una cesura.

Si possono ricordare, tra i primi innovativi progetti, la serie Monumental Propaganda, avviata nel 1992 da Vitaly Komar e Alexander Melamid in risposta alla campagna di distruzione delle opere del realismo socialista in Russia, che vide oltre duecento artisti internazionali invitati a presentare le loro elaborazioni, e il video Once in the XX Century (2004) di Deimantas Narkevičius, che esplorava la storia a ritroso, reinstallando nella piazza Lukiškių di Vilnius la statua-fantasma di Lenin rimossa nel 1991. Opere di diversa intensità sovversiva sono state concepite nello spazio pubblico in diretta relazione con vestigia del deposto potere: Leninplatz-Projektion (1990) di Krzysztof Wodiczko, a Berlino Est, che trasformava una figura di culto in un antieroe travestito da turista polacco, avvalendosi della procedura della proiezione memoriale (la statua di Lenin sarà rimossa e smembrata l’anno successivo); A Szabadság Lelkének Szobra (Il Fantasma della Statua della Libertà, 1992) di Tamás Szentjóby, a Budapest, modello d’installazione d’avanguardia che presentò la Statua della libertà – memoriale della liberazione sovietica nel 1945 – coperta per cinque giorni da un drappeggio bianco a significare la transizione democratica.

Né sono mancate realizzazioni di carattere quasi situazionista per le loro caratteristiche di provvisorietà, provocazione e propagazione – che hanno avuto l’ambizioso obiettivo di dimostrare che pratiche di memoria performativa possono offrire nuove opportunità nei processi di negoziazione della memoria di un passato traumatico. È il caso, ad esempio, del Project 1990, curato a Bucarest tra il 2010 e il 2014 da Ioana Ciocan a partire dall’idea di anti-monumento e costruito intorno a venti provocatori interventi artistici, di tipo temporaneo, esposti sul piedistallo vuoto della statua divelta di Lenin; o dell’installazione Fontanna przyszłości (Fontana del futuro), realizzata a Cracovia il 7 giugno 2014 da Małgorzata Szydłowska e Bartosz Szydłowski, che raffigurava un Lenin in miniatura, verde brillante, nell’atto di orinare nella vasca sottostante, prendendo a modello il Manneken Pis (puer mingens), simbolo della città di Bruxelles.

Il rapporto tra iconoclastia e creatività è così diventato una delle principali questioni dopo il 1989, quando i cambiamenti di regime susseguitisi a livello globale, accompagnati da una massiccia cancellazione, distruzione o alterazione d’immagini, hanno acquisito una dimensione propositiva in campo artistico. La strategia principale di simili azioni – come già anticipava Krzysztof Wodiczko nelle sue note sulle procedure di «proiezione» (Wodiczko 1986, p. 11) – è stata quella di «attaccare il memoriale di sorpresa»: nessun proposito di rianimarlo o di promuovere una sua socializzazione acritica e burocratica, ma piuttosto di pervertirne la funzione ed esporne al pubblico la caducità. Quale più efficace gesto iconoclasta, se non quello d’intervenire contro la vita immaginaria del memoriale stesso e contro l’idea di una coesistenza col memoriale in forma di abbandono passivo?

Riferimenti bibliografici
J. Derrida, De la grammatologie, Les Éditions de Minuit, Paris 1967.
D. Freedberg, Iconoclasm, The University of Chicago Press, Chicago-London 2021.
H. Lefebvre, La production de l’espace, Anthropos, Paris 1974.
K. Wodiczko, Public Projections, in “October”, n. 38, 1986.

Antonella Salomoni, Lenin a pezzi. Distruggere e trasformare il passato, il Mulino, Bologna 2024.

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