Una cesura, una iato, quasi una crepa è all’origine dell’ultimo libro di Roberto Esposito, I volti dell’Avversario (Einaudi 2024). Come si legge nella Prefazione, una certa discontinuità segna le riflessioni che muovono questo lavoro rispetto alle sue ricerche precedenti. Si tratta di un saggio differente, che inserisce un passaggio eterogeneo nella produzione del filosofo napoletano, uno scarto tematico, lessicale, persino un mutamento di tono, come a rendere esplicita la deviazione che espone il suo autore alla prova dell’alterità, dell’alterazione. In gioco è un nuovo percorso di ricerca, che prende distanza critica da se stesso, fin quasi ad aprire un conflitto con i propri presupposti. Ma i ponti con l’ispirazione originaria non vengono semplicemente infranti. Anzi, vista da questa prospettiva, tutta la sua riflessione sembra quasi acquisire un significato più ampio.
Per ammissione dello stesso autore, il libro nasce dalla contemplazione – ripetuta, come un appuntamento segreto, per quasi trent’anni – del celebre affresco Lotta di Giacobbe con l’Angelo di Eugène Delacroix, del 1853-1861, che si trova su una parete della Chapelle des Saints-Anges, nella chiesa di Saint-Sulpice a Parigi. Più che all’imponenza dell’immagine, l’osservazione e la meditazione sembrano rivolte al cuore della trasfigurazione, a cui appaiono sottoposti entrambi i personaggi avvinti nella lotta – soprattutto l’avversario di Giacobbe, rappresentato, da Delacroix, come un angelo. Il libro si dedica allora a seguire un filo tra le infinite interpretazioni teologiche, letterarie, artistiche cui, nel corso del tempo, è stato sottoposto il racconto biblico, a cui Delacroix si è ispirato. Si scopre così come differenti risultino i connotati di quello che a tutti gli effetti risulta l’oppositore di Giacobbe, tanto da assumere talvolta quelli di un uomo, talaltra della sua ombra, di Dio, di Satana, del nemico, dell’amante, fino a dissolversi nel profilo impersonale e imperscrutabile di un’Avversità dai contorni indefiniti e tuttavia incombenti. La decina di versetti del libro di Genesi (32,23-33) risultano essere quindi l’inizio di un percorso che si snoda tra esegesi biblica e letteratura, teologia e psicanalisi, filosofia e storia dell’arte. La riproduzione di otto raffigurazioni dell’evento impreziosiscono il volume: oltre a quella di Delacroix, ci sono quella di Rembrand van Rijn (del 1659-1660), di Paul Gaugin (del 1888), di Léon-Joseph-Florentin Bonnat (del 1876), di Gustave Moreau (del 1878), di Odilon Redon (del 1907 circa), di Jacob Epstein (del 1940-1941) e di Marc Chagalle (del 1960-1966). Immagini che scuotono chi potrebbe pensare di essere convocato unicamente per un confronto con il testo e con le sue stratificazioni ermeneutiche.
I versi biblici raccontano della lotta notturna del patriarca Giacobbe con un essere non meglio identificato sulla riva del fiume Iabbòq, durante il suo ritorno a Canaan voluto da Dio. Ma, dentro e al di là di un singolo episodio, in gioco risulta essere ogni lotta, anzi la Lotta stessa come forma ineluttabile della vita umana. Immettendo nello scontro anche il divino, il testo apre a una dimensione che persino oltrepassa quella umana, allargando i confini a un dominio che quasi non è possibile delimitare. In gioco allora, per Esposito, non è solo lo scontro con un avversario, ma l’Avversità stessa da cui proveniamo e che ci avvolge come un involucro, da cui sembra impossibile uscire. Mai come in questo caso, pur nella insuperabile distanza che separa la tradizione ebraico-cristiana da quella greca, si può individuare un tratto che collega il racconto di Giacobbe con la definizione eraclitea del polemos come padre di tutte le cose. La lotta, intesa come forma dell’esistenza, mette in rapporto la violenza umana con qualcosa di più originario che la trattiene ma insieme la rivela nel suo carattere essenziale. Tale rivelazione, tuttavia, invece che risolvere l’enigma dello scontro, lo infittisce, ponendolo al centro stesso del testo.
Alcuni tratti distintivi di questa lotta riportano a temi già trattati da Esposito in passato, quasi a contraddire l’iniziale intenzione di segnare una scarto rispetto alla sua riflessione precedente, in realtà approfondendo forse il distacco. Tenendo conto della gemellarità da cui è segnata la vicenda di Giacobbe – in lotta col suo gemello Esaù prima ancora di nascere e prescelto dalla madre Rebecca rispetto al suo fratello gemello –, non si può non notare, sostiene Esposito, come la narrazione dei fatti cominci dal Due, abbia per oggetto il Due e termini nel Due. Non però il “Due” che Esposito aveva indagato come presupposto della macchina teologico-politica alla base delle categorie filosofico-politiche occidentali, che tende a farsi Uno, riconducendo all’unità sovrana attraverso la subordinazione di una parte al dominio dell’altra (cfr. Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Einaudi 2013). In gioco qui è una dualità per cui decisivo, per mantenersi in vita, è il permanere nella differenza, anche a costo di una lotta che non si placa. Di qui allora la necessità di fare i conti con il negativo che è implicito in questa lotta.
Un negativo abissale, che sembra persino mettere a repentaglio la possibilità di un pensiero affermativo, a cui, pure, Esposito non ha mai rinunciato (cfr. Politica e negazione. Per una filosofia affermativa, Einaudi 2018). Il punto è che questa lotta non mette in gioco solo la figura del nemico pubblico. Non c’è dubbio che in questione è il ruolo di Israele in un orizzonte di predestinazione, che fa di Giacobbe il patriarca che assume su di sé il nome della nazione eletta, in un paradossale e violento rapporto di erranza e radicamento, che sconvolge per la sua ostinata ripetizione. Ma l’Avversario qui in questione non appartiene solo alla sfera pubblica. Anzi, chiunque sia l’oppositore di Giacobbe – uomo, angelo, demonio o Dio – è il sintomo di un nemico più profondo, il nemico esistenziale per antonomasia, quello che mette in crisi non soltanto le strutture politiche, ma l’identità stessa di Israele, la sua autorappresentazione come nazione eletta.
È l’archetipo di un Due, più intimo, che risulta essere un Uno incapace di riconoscere la propria differenza interna e portato perciò a spaccarsi a metà. Ma questa scissione immaginaria delle due parti non le rende autonome: ciascuna non esiste senza l’altra, cosicché, non potendo convivere, non fanno che scontrarsi. Una volta ontologizzata la diversità in avversità, non resta che un conflitto perenne, per Giacobbe iniziato già prima della nascita e giunto al suo culmine al momento della Lotta. A questo proposito Esposito fa riferimento all’idea junghiana dell’archetipo collettivo non come parte sommersa di una psiche individuale, ma risorsa comune di processi di individuazione, che non risulta dall’unificazione di componenti diverse, quanto piuttosto dall’articolazione di elementi contrapposti e dall’assunzione della vitalità che è propria del conflitto. Ma se nella Lotta è in gioco un archetipo, per quanto collettivo, nessuna vitale assunzione del conflitto sembra possibile, se non attraverso una radicale storicizzazione di ciò che appare sempre uguale, aprendo così alla possibilità di dare di volta in volta inizio a qualcosa di nuovo.
Roberto Esposito, I volti dell’Avversario. L’enigma della lotta con l’Angelo, Einaudi, Torino 2024.