La filosofia ha sempre avuto un rapporto difficile con il tema dell’immaginario. È questa la diagnosi a cui pone d’innanzi lo sguardo storico-critico di Cornelius Castoriadis. I vari saggi che compongono L’elemento immaginario (Ferrarin, ETS 2021) invitano al riconoscimento di un fatto cruciale: la filosofia, anche a causa dell’indole raziocinante che la anima, ha sottostimato a lungo l’importanza del tema, sovrapponendo spesso il mondo delle immagini psichiche alla fantasticheria, al sogno o all’illusione, nonché a quegli ambiti dell’esperienza che essa ha per molto tempo ritenuto irrilevanti o secondari per la comprensione dell’umano. Anche quando, con l’avvento dello strutturalismo, vi vide il nucleo dei discorsi e delle pratiche – riabilitandolo così fra i propri oggetti di studio – non seppe coglierne a pieno gli aspetti distintivi, limitandosi a ritrovarvi, sotto le spoglie del “simbolico”, i tratti stessi della ragione ordinatrice. L’importanza dell’immaginario è da allora legata, per le scienze umane, al fatto che l’immagine psichica può e deve rinviare a serie significanti, e da qui (anche) a un significato. Le questioni inerenti alla creazione e allo statuto delle immagini – indispensabili per comprendere, ad esempio, in che senso queste si differenzino dalle parole – rimangono per lo più impensate. Quel che conta non è, in quest’ottica, l’immagine in sé, ma il suo stesso rinviare ad altro, e così ciò che essa può suggerire di singoli individui o collettivi che ne sono il veicolo.
La parabola intellettuale di Castoriadis fu una sorta di controcorrente interna allo strutturalismo, una voce che fin dalla metà degli anni ’60, pur vivendo appieno e con grande autorevolezza i dibattiti del tempo, rimase per lo più inascoltata. Voce che torna oggi, nel centenario dalla nascita, a farsi sentire in svariati contributi e iniziative. Fra queste, oltre alla recente riedizione – nella tanto attesa veste integrale – de L’istituzione immaginaria della società (Profumi, Mimesis, 2022, ed. or. 1975), la pubblicazione de L’elemento immaginario getta ora una nuova luce sul progetto di riforma del discorso filosofico che Castoriadis avviò in quegli anni. Tale discorso, viziato dal pregiudizio logicista dell’ontologia ereditata, non saprebbe pensare un oggetto se non presupponendo, più o meno velatamente, qualcosa che lo spiega (causa, legge, significato ecc.). Lo stesso strutturalismo non sarebbe che un sintomo di tale ontologia, «una riedizione dello scientismo e del razionalismo […] che si permette il lusso di denunciare la Ragione», malgrado questa sia in esso presente «nella sua forma più povera e più piatta: la combinatoria» (Castoriadis 1988, p. 118).
L’immaginazione radicale e l’immaginario sociale istituente sono, agli occhi di Castoriadis, gli elementi chiave nell’economia del progetto, campi entro cui mostrare un’ulteriore dinamica del vivente e del sociale-storico, irriducibile alla logica delle combinazioni significanti e alla riproduzione dei significati che essa implica. Pur specificando di voler dedicare «un altro libro» (ma che di fatto rimarrà incompiuto) agli «aspetti filosofici dell’immaginario e dell’immaginazione», di tale dinamica Castoriadis illustrerà i punti focali già ne L’istituzione, motivando fin da quel momento la sua avversione per le “rappresentazioni correnti” dell’immaginario: «Coloro che parlano di “immaginario”, intendendo lo “speculare”, il riflesso o il “fittizio”, non fanno che ripetere, spesso senza saperlo, l’affermazione che li ha per sempre incatenati a qualche sotterraneo della famosa caverna: è necessario che questo mondo sia immagine di qualche cosa. L’immaginario di cui parlo non è immagine di. È creazione incessante ed essenzialmente indeterminata (sociale-storica e psichica) di figure/forme/immagini, a partire da cui solo si può parlare di “qualche cosa”. Quelle che noi chiamiamo “realtà” e “razionalità” sono le opere di questo immaginario» (Castoriadis 2022, p. 34).
Sebbene il libro non assumerà mai, negli anni a venire, una forma compiuta, la pubblicazione de L’elemento immaginario offre oggi, al lettore italiano, una sua postuma ma fedele ricostruzione. Fra i testi ivi raccolti, La scoperta dell’immaginazione (‘78) e Merleau-Ponty e il peso dell’eredità ontologica (‘76-‘77) furono destinati dallo stesso Castoriadis a comporre due capitoli dell’opera – che si sarebbe dovuta ultimare, nelle sue intenzioni, di lì a breve, con una prima parte di carattere storico. Gli altri testi, per quanto nulla provi l’intenzione dell’autore di comprendere anch’essi nel progetto, riflettono comunque, nel loro insieme, l’intento del ‘75, vertendo ognuno a suo modo sui succitati elementi chiave. Un ulteriore criterio di selezione dei testi è, come traspare dalla prefazione del curatore, il tema della creazione, vera e propria pietra angolare per comprendere la misura della distanza fra le concezioni tradizionali dell’immaginario e quella di Castoriadis. A questo riguardo l’impiego da parte del filosofo di aggettivi come “radicale” e “istituente” è alquanto emblematico. Associati rispettivamente all’immaginazione (dimensione psichica delle immagini) e all’immaginario (dimensione sociale-storica dei significati) indicano entrambi come al fondo di queste ne vada della continua creazione di forme di vita, sensibili o intelligibili che siano.
La scoperta dell’immaginazione viene attribuita da Castoriadis ad Aristotele. Prima di lui era solo, platonicamente, «insieme di sensazione e opinione», «imitazione a cui si aggiunge una falsa credenza» (Castoriadis 2021, p. 34). Lo Stagirita sarebbe così il primo a riconoscerle uno statuto autonomo. Ma nella definizione che di essa si potrebbe ricavare da un’attenta lettura del De anima – luogo per eccellenza della scoperta – l’idea che questa dunamis sia anche creazione presenta luci e ombre. Tale idea, infatti, «non è esplicitata né tematizzata in quanto tale» (ivi, p. 26). Appare al lettore per un breve istante, come un lampo a ciel sereno, nel bel mezzo della trattazione di quella che rimane, per Castoriadis, niente di più che un’immaginazione seconda, la quale fisserà «le convenzioni secondo cui in seguito sarà pensata – cioè non verrà pensata – l’immaginazione» (ivi, p. 33). La scoperta dell’immaginazione prima, o radicale, sarebbe così il frutto dell’intuizione – subito già abbandonata da Aristotele (e non più ripresa, almeno fino a Kant) – di alcuni aspetti problematici dell’immaginazione seconda. Questa non renderebbe conto, a detta di Castoriadis, dell’immaginazione nel suo complesso, restituendone semplicemente un moto che produce, ricombinando residui di sensazioni, stimoli all’azione, al desiderio e all’opinione.
Aristotele lascerebbe così anche intendere – nei passaggi fra De anima III,7 e III,11 – che l’immaginazione non può ridursi a questo. Essa non può essere, in particolare, una mera combinatoria di sensazioni, dal momento che i suoi prodotti (phantasmata) «sono come delle sensazioni, ma senza materia» (Aristotele, 432a 9-10). «L’immaginazione che ha qui in mente Aristotele è dunque astrazione sensibile, astrazione nel sensibile che fornisce l’intelligibile» (Castoriadis 2021, p. 39), capacità originaria dell’anima di tracciare una figura (phantasma), e da qui – in base a ciò – di affermare qualcosa di vero o falso (noēta) nel sensibile, così come è solo tracciando la figura di un triangolo (sia che ciò avvenga su un supporto esterno o nella psiche) che è possibile riconoscere in generale la triangolarità o un insieme di angoli la cui somma è 180°. Senza l’immaginazione – ed è questo il suo tratto più distintivo, oltre che radicale – non vi è nulla di tracciato/separato, e così nulla in generale, poiché per Aristotele nessuna cosa è se non «essendo-stata-separata e accanto alle grandezze sensibili» (Aristotele, 432a 4-5).
La teoria dell’immaginazione come condizione d’esistenza degli enti dell’anima non sarà però esplicitata nel trattato, così come non lo sarà, per Castoriadis, lungo l’intero arco del pensiero occidentale, con le sole eccezioni di Kant e di Freud, nei quali essa è come riscoperta, ma non senza essere ricoperta, ancora una volta, da un’immaginazione seconda. In Kant è a livello della prima Critica, e in particolare nei capitoli sullo schematismo trascendentale, che l’immaginazione creatrice appare come «un’arte celata nel profondo dell’anima umana, il cui vero maneggio noi difficilmente strapperemo mai alla natura per esporlo scopertamente innanzi agli occhi» (Kant 2017, p. 138). I suoi prodotti, gli «schemi», similmente ai fantasmi di Aristotele, sono condizioni di possibilità sia delle «immagini» che dell’applicazione a esse, e più in generale al sensibile, dei «concetti puri dell’intelletto». Ciononostante – afferma Castoriadis – non appena Kant si ritrova a dover giustificare l’identità di una cosa nella riproduzione seriale delle sue rappresentazioni, egli reintroduce, come dato a priori, il concetto di essa, anziché approfondire l’arte di creare all’occasione «l’immagine o la rappresentazione in quanto generica», e cioè «di vedere il medesimo in questa rappresentazione mutevole all’interno del flusso eracliteo del dato» (Castoriadis 2021, p. 99).
Per quanto riguarda Freud, l’idea di un’immaginazione creatrice appare una prima volta in Progetto di una psicologia (1895), nel contesto di un’interrogazione della capacità dell’apparato psichico di trasformare «ciò che per la scienza è semplice quantità – “masse” e “movimenti” dice Freud – in qualità» (ivi, p. 108). Tale ricerca verrà poi implementata, negli scritti metapsicologici del 1915, con l’introduzione di un termine medio, le «pulsioni»: stimoli somatici che inventano rappresentazioni (Vorstellungsrepräsentatz des Triebes – “delegazioni della pulsione”) per rendersi riconoscibili alla psiche e assicurare la soddisfazione del piacere. Malgrado tali affondi, insoddisfatto dalla mancanza di un nesso stabile fra pulsioni e immagini psichiche (perché lo stivaletto a punta del feticista, anziché il corpo femminile in quanto tale, dovrebbe guidare la soddisfazione del piacere?) Freud ricercherà l’origine di queste in scene a cui si sarebbe “realmente” assistito – cioè non solamente immaginate, ma percepite in senso stretto –, per poi concludere, vedendosi obbligato, alla luce di casi come quello de L’uomo dei lupi, ad abbandonare tale stessa pista, che la questione dell’origine «è meglio lasciarla perdere», limitandosi così ad avanzare, in una nota a piè di pagina, una spiegazione filogenetica delle immagini correlate al piacere (Freud 2017, p. 639). Egli fa di tutto, insomma, pur di non riconoscere la capacità della psiche di creare da sé delle immagini. Evidentemente, afferma Castoriadis, «prendere in considerazione l’immaginazione pare a Freud incompatibile con il “progetto di una psicologia scientifica” o, più tardi, con una psicoanalisi “scientifica”, come, per Aristotele forse, per Kant certamente, l’immaginazione doveva alla fine essere messa al suo posto, un posto subordinato a quello della Ragione» (Castoriadis 2021, p. 103).
In tutti questi casi, per quanto diversi fra loro, nel bel mezzo della scoperta dell’immaginazione radicale, l’interesse che alla fine prevale è sempre quello di garantire un fondamento stabile al sapere. «Fintantoché si resta confinati in questo orizzonte, riconoscere l’immaginazione radicale come creazione potrebbe condurre solo allo sconvolgimento universale» (ivi, p. 52). Se essa si mettesse a creare qualsiasi cosa, infatti, l’ideale del mondo come riflesso di ciò che si conosce – a cui difficilmente l’umano sarà mai disposto a rinunciare – crollerebbe all’istante. Così, «un pieno riconoscimento dell’immaginazione radicale è possibile solo se esso va di pari passo con la scoperta dell’altra dimensione dell’immaginario radicale, l’immaginario sociale-storico, la società istituente come fonte di creazione ontologica che si dispiega come storia» (ibidem). Tale dimensione aprirebbe all’idea che i concetti entro cui si ricomprendono le forme dell’esperienza siano a loro volta il frutto di relazioni signitive che le società istituiscono tra forme eterogenee. Così, non esiste per un individuo il concetto del “cane” se non in quanto si è istituito un nesso tra due o più forme empiriche e un significante comune, sia esso una “figura generica”, un “ideogramma” o un’“immagine acustica”, nonché la traccia mnestica della parola “cane”. Relazioni come queste sono del tutto arbitrarie, cioè non a loro volta comprensibili in un concetto ma, al limite, analizzabili a partire dal contesto storico e sociale per cui valgono. Esse implicano, accanto alla creazione da parte della psiche di una figura (immaginazione radicale), la capacità di vedere in essa, per mezzo di un segno, il calco di altre (immaginario sociale istituente).
Al di là dei modi immaginari con cui si ricomprende il sensibile in forme intelligibili (concetti e significati), ciò che di tale dinamica a Castoriadis preme sottolineare è dunque la capacità della società di creare da sé queste forme. Esiste certamente, in ogni società, un movimento di ricomprensione dell’esperienza in forme già date, che condizionerebbe l’immaginazione dei suoi membri, ma tale movimento non sarebbe possibile se la società non sapesse anche far essere queste forme dall’esperienza. Il problema è che essa, una volta tracciate le sue forme, nasconde a se stessa tale capacità e imputa la creazione di queste a una «istanza extra-sociale, o, in ogni caso, ad una autorità che sfugge al potere e all’agire degli umani viventi» (ivi, p. 168), come se fosse il prezzo da pagare per assicurare nel tempo, una volta creato, il proprio ordine interno. La ricerca delle condizioni di possibilità della creazione sociale-storica implica allora, per Castoriadis, lo studio di quelle società che nella storia sono riuscite a riconoscersi in quanto cause delle proprie significazioni e a mettere così in discussione la perennità e l’intangibilità di quelle vigenti.
Questo tema costituisce, nel quadro complessivo del progetto castoriadisiano, il tratto in cui l’obiettivo teoretico diventa un tutt’uno con il compito politico di ripensare la società contemporanea sull’esempio di quelle più virtuose. La Grecia antica è così chiamata in causa come quell’accidente locale entro cui emerge per la prima volta l’autoriflessività in quanto tratto costitutivo dell’immaginario sociale. Tale evento, che «instaura in un sol colpo la democrazia e la filosofia» (ivi, p. 169), è ciò che il pensiero a venire dovrà saper riprodurre in nuovi contesti sociali-storici, al fine di assicurare che la messa in discussione delle concezioni vigenti della libertà, della giustizia e dell’equità rimanga possibile «nel contesto del funzionamento “normale” della società» (ibidem). Ciò non implicherà una mera applicazione del modello greco alle società a venire, bensì il risveglio di una potenza universale, latente al fondo di ogni immaginario individuale e collettivo, che in quell’epoca trovò, forse, il suo momento aurorale.
Riferimenti bibliografici
C. Castoriadis, L’istituzione immaginaria della società, Mimesis, Milano-Udine 2022.
Id., Gli incroci del labirinto, Hopeful Monster, Firenze 1998.
S. Freud, Dalla storia di una nevrosi infantile (Caso clinico dell’uomo dei lupi), in Casi Clinici, Bollati Boringhieri, Torino 2017.
Id., Progetto di una psicologia, in Opere, Vol. 2. 1892-1899, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
Id., Pulsioni e loro destini, in Opere, Vol. 8. 1915-1917, Bollati Boringhieri, Torino 2000.
I. Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari 2017.
Cornelius Castoriadis, L’elemento immaginario, ETS, Pisa 2021.