La tache aveugle de la vision coïncide
avec un noyau alogos au cœur de la visibilité
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Raoul Kirchmayr

Bisognerebbe, esortava Jacques Derrida in una nota del quinto capitolo di Spettri di Marx, ricostruire una tradizione o una genealogia della tematica del fantasma nel XIX secolo, a partire da Max Stirner (il cacciatore di fantasmi di L’unico e la sua proprietà), Immanuel Kant (includendo sì, ma non solo, le visioni di Emanuel Swedenborg) fino a Schopenhauer (e il suo Saggio sui fantasmi), senza tralasciare Nietzsche e Mallarmé. È da questa sospensione che prende le mosse il libro di Kirchmayr adempiendo al compito che Derrida consegnava ai posteri.

Il “fantasma”, superando qualsiasi divisione tra cultura alta o bassa, diviene oggi un’ indiscutibile “presenza” nella letteratura, nella filosofia, nella sociologia, nel teatro, nella musica e nel cinema. L’autore difatti sceglie il momento migliore per procedere alla decostruzione di un topos, di un concetto inconcettuale – direbbe Hans Blumenberg, già richiamato da Ezio Puglia (2018) – di una «figura senza figura» (Kirchmayr 2024, p. 316) come quella del fantasma. Gli innumerabili testi dedicatigli, sovente secondo confuse modalità interdisciplinari, hanno “verniciato di nuovo” il campo della spettralità, cercando talvolta, indebitamente, di appropriarsi in modo indifferenziato del suo lessico.   

Tranne poche eccezioni, la concettualizzazione della spettralità non ha ancora raggiunto una rigorosità soddisfacente. È diventata uno strumento pronto all’uso per affrontare argomenti di ricerca piuttosto distanti, grazie a una nuova retorica che mescola letteratura neogotica, decostruzione, psicoanalisi e storia dell'arte, producendo discorsi dai contorni sfocati (ivi, p. 15).

L’introduzione al testo intitolata Le “tournant spectral” et le goût actuel pour les fantômes evoca, con l’aggettivo “attuale”, un rinnovato interesse per il fantasma, una vera e propria “svolta spettrale”, precisando immediatamente come ciò che viene fatto passare come “nuovo” e alla “moda” in realtà si costituisca, spesso riciclandosi, sopra una complessa storia silenziosa e dimenticata. La svolta spettrale può essere attuale sì, ma non nuova: essa si ridesta, di volta in volta, nelle medesime condizioni di vita del suo oggetto, lo spettro appunto che, oltrepassando spazi e tempi, aziona una forza scardinante capace di inclinare ogni ordine rappresentazionale attivo.

In questo senso, sarebbe meglio descrivere lo spettro come una forma vuota «che non cessa di restare allo stato virtuale» (ivi, p. 212): l’«effetto sistematico di un’articolazione archi-originale del pensiero» (ivi, p. 259) che, rigenerandosi, «implica sempre una possibilità impossibile di un ordine completamente diverso, secondo i principi di un’altra economia» (ivi, p. 258). La rinnovata attualizzazione del “gusto spettrale”, secondo Kirchmayr, dovrebbe essere supportata da ciò che ancora resta dell’originario discorso filosofico sulla spettralità, ragion per cui, dopo aver chiarito nell’introduzione le premesse metodologiche, prende le redini della genealogia fantasmatica auspicata da Jacques Derrida.

I primi fantasmi a manifestarsi sono quelli di Winckelmann: lo storico dell’arte assume la postura dell’amante che brama il ritorno del suo oggetto di desiderio e, in mancanza di questo, si accontenta della sua ombra, della sua immagine, della contemplazione della copia in assenza dell’originale. Tutta la storia dell’arte acquista lo statuto spettrale di una “storia” fondata su «un culto dell’assenza» (ivi, p. 25), sulla inacessibilità all’oggetto perduto, sulla differenza temporale che intercorre tra il modello e la sua immagine.

L’immagine, l’altro, la Cosa restano al di là delle possibilità di ogni regime discorsivo, resistono all’appropriazione del logos, perché eccedenti, invisibili, indicibili. In questo si ritrova la motivazione della negazione da parte di Kant delle visioni del mistico svedese Emanuel Swedenborg: «Se non siamo in grado […] di analizzare che cosa sia questa Cosa, non ci resta che un’unica soluzione piuttosto netta: non parlarne, decretare la vacuità di ogni visione […]» (ivi, p. 85). Nonostante la filosofia abbia il dovere di intercettare e fissare i limiti costitutivi delle sue possibilità di conoscenza (e degli spiriti non si avrà mai conoscenza sensibile), bisogna sottolineare come il discorso di Kant si indirizzi, trascinato da una irreprimibile tensione speculativa, verso il limite della ragione: più che andare contro l’alogos, gli va incontro ed è a proposito di ciò che Kirchmayr rileva una radice spettrale e fantasmagorica della Critica del giudizio (ivi, p. 91).

D’altronde, in Kant come in Hegel, il tema della fantasmagoria, introduce immediatamente il rapporto tra ragione e irragionevolezza, tra salute e malattia – Kirchmayr dedica l’undicesimo capitolo, La Folie et la spectralitè du temps. Analytique du visionnaire, a questo legame. A parere di Kant la formazione d’immagini spettrali, con la loro aura doppia e ingannevole, è sintomo di una malattia mentale (ivi, p. 66); secondo Hegel, similarmente, il diabolico, l’impurità assoluta, lo spettrale e il folle sono potenze negative che, opponendosi dialetticamente alla chiarezza e alla trasparenza dell’arte, ai suoi poteri figurativi, sono da essa banditi come visioni malate della mente (ivi, p. 113).

Con Schopenhauer, che ricordiamo fu un grande seguace di Kant, la visione “spiritualistica” kantiana, secondo la quale la sopravvivenza dopo la morte è individuale, è messa in discussione. Schopenhauer supporta invece una spiegazione “idealistica”, per cui tutti gli esseri, organici e inorganici, sono animati da una Volontà singolare che si configura come la manifestazione parziale di una Volontà unica. A questo punto, penetrando il principium individuationis, si squarcia l’illusione ontologica dell’essere singolo e differenziato per cucire piuttosto una Volontà universale.

Tali sono le premesse che conducono Schopenhauer ad affermare che è più che ammissibile sostenere una comunicazione a distanza tra i viventi e le anime, perché è eliminando l’isolamento individuale della Volontà che l’umanità, in un’actio in distans, si connette energeticamente. I fenomeni considerati inspiegabili dalla scienza (dalla magia alle visioni di spiriti fino al magnetismo animale e ai sogni) sono allora la pura «forma di organizzazione spontanea del vivente» (ivi, p. 173), «la dimostrazione dell’esistenza di una sola energia che si manifesta nella pluralità di forme» (ivi, p. 176).

Quando nel 1913, Henri Bergson, l’allora presidente della Società per la Ricerca Psichica, proclama un discorso che razionalmente slega dal paranormale fenomeni come il sonnambulismo, la telepatia e il sogno, riconducendoli a eventi endosmotici di intercomunicazione tra le coscienze, la “spettralità” si lega sempre di più al mondo psichico e, infatti, nel pensiero di Schopenhauer e di Bergson, si ritrovano più spunti teorici (dalla Volontà inconscia ed universale al processo di sublimazione; dal concetto di durata a quello di slancio vitale) che nella psicoanalisi troveranno, sia dal punto di vista teorico che, ovviamente clinico, una più ampia articolazione. 

Ritornando a Schopenhauer, accedere al flusso energetico, allo slancio vitale, è possibile solo grazie all’arte che è un dispositivo, una tecnica ottica in grado di ingrandirlo, cristallizzarlo e completarlo: l’arte è paragonata dal filosofo a una camera obscura che catturando forze invisibili, e conferendo loro fenomenicità, le rende immagine. È l’arte, perciò, ad innescare la funzione fondamentale dell’immagine «cioè la corrispondenza tra il razionale e l’irrazionale, il logos e l’alogos, la vita e la scienza» (ivi, p. 241). 

Così, le produzioni e le proiezioni di immagini (dalla fotografia al cinema) sono fondamentalmente una produzione tecnica di spettralità, di alogos. I primi dispositivi ottici – e i primi dispositivi tecnologici, tutti quelli in tele (dal telegrafo, al telefono, alla televisione) fissano l’invisibile e tracciano, come argomenta Mireille Berton, lo sviluppo di una medialità medianica (2018): agli albori, ad esempio, «il dispositivo ottico della fantasmagoria (Robertson), non farebbe altro che rendere visibile la proiezione, rappresentando così in immagini le forze dell’invisibile e dell’inconscio» (Kirchmayr 2024, p. 293).

Di fatto, Freud riconosce alla dimensione estetica il compito di tener conto dei “resti” del discorso analitico, quei resti esclusi dal discorso della ragione che la psicoanalisi, operando un rovesciamento del discorso rappresentazionale della filosofia, raccoglie e mette in discussione. Procedendo avanti nel tempo, con le riflessioni di Gilles Deleuze, Félix Guattari, Jacques Lacan e Jean-François Lyotard, la spettralità si articola mobilitando più ostinatamente la dimensione estetica. I filosofi de L’Anti-Edipo, ad esempio, contravvenendo alla dimensione fantasmatica individuale della psicoanalisi freudiana, elaborano un fantasma sociale: si riconosce in questo modo «la portata sovra-individuale e collettiva» (ivi, p. 314) della produzione inconscia che intende il fantasma individuale come l’articolazione di un atlante spettrale definito storicamente e culturalmente.
 
Concludiamo che il sogno, la follia, l’oblio, l’inconscio in generale, ruotano tutti intorno al vuoto rappresentato da una macchia cieca della visione, sostenendo l’idea secondo cui è nella cecità che si esperisce la visione più acuta. Questa macchia cieca coincide con il nucleo dell’alogos: è lì che si scorge il cuore della visibilità.  

Riferimenti bibliografici
M. Berton, Le médium (au) cinéma. Le spiritisme à l’écran, Georg Editeur, Genève 2018.
E. Puglia, Residui spettrali: archeologia e critica di un non-concetto, in “RITORNI SPETTRALI. Storie e teorie della spettralità senza fantasmi”, cura di E. Puglia, M. Fusillo, S. Lazzarin e A. M. Mangini,  Società editrice il Mulino, Bologna 2018.  

Raoul Kirchmayr, Le royaume des ombres. Esthétique de la spectralité, Éditions Mimésis, Sesto San Giovanni 2024.

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