Appena dopo aver saputo di esser stata controllata dal suo amato Tristan Badiola (Simon Rérolle) grazie ad un software spia inserito nel suo smartphone, Célène Riva (Paola Locatelli) immediatamente esce dal teatro, dove stava interpretando la principessa di Montpensier, e si dirige a piedi verso il mare di Biarritz. Vestita con un abito da sposa, Célène corre verso l’acqua per suicidarsi: prima viene inquadrata in plongée poi con la macchina da presa libera in piano medio. Ma prima di tuffarsi, la sua immagine si alterna a quella di Tristan: grazie al montaggio parallelo, che sottolinea la connivenza delle due dimensioni spazio-temporali, assistiamo anche alla rappresentazione in slow motion di Tristan, il quale, con lo smartphone collegato su Instagram, si ripete in focalizzazione interna a cosa corrisponda nel ventunesimo secolo il potere, mentre la sua amata Célène si immerge nel mare cercando di fuggire dalla propria immagine. Ma cosa vuol dire, precisamente, fuggire dalla propria immagine per Les liaisons dangereuses (Le relazioni pericolose, 2022) di Suissa – altro adattamento dell’omonimo romanzo del 1782 di Choderlos de Laclos?
Innanzitutto, per Suissa «il tempo diviene umano solo nel momento in cui viene raccontato» (Maiello 2020, p. 11), poiché nel suo film le Stories di Instagram create dai personaggi si impongono come «efficace modello di autonarrazione» (ivi, p. 37): attraverso una continua correlazione percettiva tra immagine filmica e schermo dello smartphone collegato ad Instagram, grazie ad un continuo cambio di formato dell’immagine (tramite soprattutto l’utilizzo di split screen), la narrazione diviene la continua rappresentazione di brevissimi video, video-selfie, testi, foto, emoticon, grazie ai quali si sviluppano gli intrighi d’amore dei protagonisti. Nel film non esiste evento che non venga raccontato tramite la rappresentazione in live-action di Stories sul social network e sono proprio questi contenuti audiovisivi su Instagram che, benché frammentino la dimensione spazio-temporale, non ne mettono in discussione la linearità, ma anzi la alimentano dall’interno rispettando la consequenzialità del mythos di cui fa parte.
Logica di causa-effetto che investe anche la protagonista Célène, la quale, benché preferisca leggere Proust piuttosto che postare su Instagram e che crede nell’amore assoluto, almeno all’inizio non riesce a sfuggire agli intrighi, alle scommesse, alle maschere create da Tristan, quindi alla pervasività e alla malia della sua immagine. Senza la pervasività, la condivisione e quindi la popolarità delle proprie immagini fatte di sfarzo e successo, i due influencer Tristan e Vanessa Merteuil (Ella Pellegrini) non potrebbero simulare una storia d’amore tra di loro, solo per “far schizzare i follower” in maniera tale da ottenere ancor più pubblicità e quindi controllo sulle persone che li circondano. Dunque, controllo sulla massa che si promuove attraverso uno «sguardo verso il basso, esercizio di una sorveglianza e di un controllo» (De Gaetano 2012, p. 169), ossia orientamento e condizionamento del comportamento attraverso la seduzione dell’immagine.
L’immagine, quindi, nelle relazioni pericolose si promuove sia come ciò che subordina, che sorveglia l’altro nei suoi habitus quotidiani, incapace di sottrarvisi, quindi immagine di Instagram come controllo. Ma in un mondo dominato dalla necessità di narrare, a manifestarsi è anche la necessità «di un narcisismo sempre più diffuso» (Maiello 2020, p. 34), che non è altro che la modalità espressiva con cui si manifesta il melodramma, “il destino tragico di una giovane donna divisa tra il potere e la passione amorosa, in un mondo codificato dalle regole del decoro”, afferma Célène al suo professore di filosofia in merito alla principessa di Montpensier, figura tratta dal romanzo della Mme de La Fayette del 1662. Attraverso una complessa mise en abyme metalinguistica, impura potrebbe dire Bazin, dove intertestualmente vanno ad integrarsi la messa in scena dello spettacolo teatrale tratto dal romanzo de La Fayette, il romanzo di Choderlos de Laclos da cui è tratto il film e il dispositivo Instagram che crea contenuti audiovisisi, le relazioni pericolose permette di riflettere sull’ontologia dell’immagine cinematografica, sull’indiscernibilità tra dato e senso, o tra soggettivo e oggettivo che la abita.
Ma ciò su cui dobbiamo soffermarci è un’altra cosa. La doppia configurazione testuale che Suissa destina all’immagine cinematografica, di cui abbiamo appena parlato, le serve per riflettere sulle varie modalità espressive che nel corso della storia del cinema hanno contraddistinto il melodramma. Ossia, un’immagine a cui dobbiamo aderire sia perché per noi rappresenta icasticamente la bellezza e quindi ci affascina, sia perché corrispondere alle caratteristiche di quell’immagine vuol dire subordinare il nostro comportamento a un certo costume, a delle regole codificate dalla classe sociale a cui apparteniamo, sennò non ne potremmo far parte. E che cos’è il melodramma se non lo scontro tra un’immagine sia come ciò che ci incanta fantasmaticamente sia come ciò a cui doverci continuamente confrontare, un’immagine, quindi, da cui siamo perennemente sorvegliati? In poche parole, attraverso le Stories di Instagram Suissa ci propone un’immagine come «imago, sospesa tra il soggetto e l’oggetto, la bellezza di quest’ultimo e il carattere proiettivo del primo» (De Gaetano 2022, p. 27).
Ogni personaggio nelle relazioni pericolose è perennemente spinto dal bisogno, dal fascino di creare Stories sia per apparire, così da ovviare a certi canoni di bellezza che strutturano il costume e il proprio io, che per proiettarsi verso l’altro, verso l’amato, Tristan per Célène, la quale decide anche lei di iniziare a postare su Instagram, così da creare «una condizione “unaria”, in cui amante e amato si riflettono, o addirittura coincidono come in Narciso, perdendosi nel senza scarto» (ivi, p. 28). In questo continuo corto circuito tra soggettivo e oggettivo, l’amore tra Célène e Tristan abita solamente l’immagine (soprattutto i contenuti audiovisivi del social network), così come l’amore di Célène per il suo primo fidanzato Pierre (Aymeric Fougeron), quando lei gli dice: “Ti ho detto di sì perché eri stato approvato da mia madre. Stare con te era conservare il mio legame con lei”. Stare con Pierre per Célène significava conservare un legame fantasmatico con la madre, contraddistinto da un’immagine sia seducente (l’immagine della madre felice) sia sorvegliante, cioè adempiere agli habitus imposti dalla madre.
In questi modi, però, l’amore abita solo l’immagine, il primo stadio dell’amore, l’idealizzazione dell’amato tramite la creazione di un’immagine, ma per far sì che l’amore sia veramente felice, i personaggi devono riuscire ad alienarsi da sé, a fuggire dall’imago. Ma in che modo? Questa complessa rappresentazione del melodramma ci viene offerta partendo dalla concezione della forma generica filmica non come genere inteso negli anni dello studio system, bensì come «transgenere» (Cervini 2020, pp. 42-46). Cioè, genere sia come sedimento di memoria per riflettere sulle diverse e stratificate modalità espressive e configurazioni testuali che lo hanno contraddistinto storicamente, sia come altro da sé, ossia sulle continue frammistioni che ancora oggi continuano ad abitarlo, «come ciò che sopravvive nei contesti più disparati» (ivi, p. 42).
Così come il melodramma come transgenere, che deve estraniarsi da sé, anche l’esperienza dell’amore tra Célène e Tristan deve riuscire a fuggire dall’imago di Instagram. «Mi sono posto la domanda, la risposta è sì, credo nell’amore assoluto», dichiara Tristan a Célène dopo aver dichiarato in live-action le sue diverse maschere create appositamente per la notorietà. A quel punto la ragazza gli risponde: “Ma io no!”. “Cosa?”, ribatte sbalordito Tristan, e Célène a chiudere il film, sempre in diretta Instagram: “Scherzo!”. Dopo che nella sequenza del salvataggio di Célène da parte di Pierre la drammaturgia della forma ha raggiunto il proprio acme, il climax, ed il melodramma si è manifestato in una delle sue forme più alte, la tragedia, improvvisamente si viene a creare un in-visibile, un invisibile nel visibile stesso.
Nel finale è la forma della commedia che estrania il melodramma da sé, così come sono le immagini dell’amore adesso che liberano i protagonisti dall’amore per le immagini, dall’imago. Per la prima volta Célène riesce ad espropriarsi da sé, ad ironizzare la propria maschera: «Amarsi significa saper prendere le distanze da se stessi. E lo si fa giocando con se stessi. […] L’amore al fondo è un tema da commedia, anche se il racconto dominante è quello tragico» (De Gaetano 2022, p. 13). Grazie al gioco, un’azione senza scopo che mette in questione il progresso della storia del mythos della narrazione, l’amore si rivela come lo spazio tra-due, tra l’amante e l’amato, l’intervallo che divide Célène da se stessa e da Tristan. Cosicché non ci sia completa adesione tra di loro, ma consistenza nell’inconsistenza, appartenenza senza negarsi nell’immagine del proprio io o dell’altro. È solo con il gioco che l’amore si esprime come libertà, come scelta di espropriarsi da sé, dalla propria immagine, per renderci pari con l’altro nel gioco stesso.
Riferimenti bibliografici
A. Cervini (a cura di), Il cinema del nuovo millennio. Geografie, forme, autori, Carocci, Roma 2020.
A. Maiello, Mondi in serie. L’epoca postmediale delle serie tv, Pellegrini, Cosenza 2020.
R. De Gaetano, La potenza delle immagini. Il cinema, la forma e le forze, ETS, Pisa 2012.
R. De Gaetano, Le immagini dell’amore, Marsilio, Venezia 2022.
Le relazioni pericolose. Regia: Rachel Suissa; sceneggiatura: Rachel Suissa, Slimane-Baptiste Berhoun; interpreti: Paola Locatelli, Ella Pellegrini, Simone Rérolle, Oscar Lesage, Héloïse Janjaud; produzione: Netflix; distribuzione: Netflix; origine: Francia; anno: 2022; durata: 109’.