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«Quanta sofferenza in un mare così freddo / dalle spiagge strappate alla natura / cosparse di ogni resto // quanto piegarsi invano, quanto sforzo / e ora ci teniamo stretti / per il tempo delle notti aspre». Acuti, nitidi e rinnovati rispetto alle precedenti raccolte, emergono i versi di Evelina De Signoribus riuniti nell’ultima silloge, Le notti aspre che esce a otto anni di distanza dalla precedente Pronuncia d’invernoLe notti aspre include testi scritti tra il 2010 e il 2016, come esplicitato nella Nota introduttiva, quasi una risoluta dichiarazione d’intenti e al tempo stesso un avvicinamento al lettore, una dolce ma chiara presa per mano nei territori impervi, profondi e complessi dell’atto poetico. Il titolo «deriva da una suggestione di un mito nordico»; le notti aspre:

sono quelle notti comprese tra Natale e Epifania, che abbracciano l’arco di tempo in cui cade il solstizio e si compie il volgere dell’anno. Secondo una leggenda tradizionale […] precisamente a San Silvestro, si apriva la grande Caccia Selvaggia che liberava le anime dei morti dall’oltretomba, mentre i mortali, i vivi, usavano per conforto restare chiusi in casa, riunirsi davanti al fuoco.

 

Il nitido rigore nell’ordinamento delle poesie, la puntuale divisione in sezioni e la motivazione a sorreggerle, dichiarate nella Nota, rendono evidente quanta e quale consapevolezza di ragionamento prenda forma in queste pagine. Il serio rispetto verso la riflessione poetica appare una cifra della poesia di Evelina De Signoribus, una poesia che sia riflessione costante e responsabile sull’esistenza. Da qui, forse, l’equilibrio formale, il candore misurato dei suoi versi, l’assenza assoluta di sperimentalismo e di metrica codificata, la scelta di una poesia che non sia scarna ma pura.

La silloge è divisa in cinque sezioni per altrettanti «argomenti (se così in poesia si possono chiamare) a me cari»; ogni sezione è preceduta da un’epigrafe ̶ rispettivamente tratte, nell’ordine, da Franz Kafka per Conciliazione, Anna Maria Ortese per Trattenere, Ingeborg Bachmann per La lingua della terra, Paolo Volponi per Le notti aspre e Confluenze – e soltanto la prima poesia per ogni sezione è in corsivo, quasi una sorta di epigrafe all’epigrafe. La costruzione della raccolta dimostra la struttura solida della poesia che racchiude e la costellazione di numi tutelari è un puntello, l’argine concettuale di una meditazione che vuole essere rigorosa e strutturata perché di rigore ha bisogno un’impresa ardua, immaginare una conciliazione tra l’uomo e la natura, tra una presenza e un’assenza, tra i vivi e i morti: «ho immaginato così una storia di uomini, anime e animali, di una loro possibile riconciliazione». Il nucleo poetico di Le notti aspre è questo.

Il punto di partenza è la natura o, meglio, gli animali, ai quali sono dedicate le poesie della prima sezione, Conciliazione. De Signoribus è nata e vive nelle Marche, ma più che la natura natia, protettiva, placida od ombrosa che sia, qui sono gli animali a essere la tematica centrale perché «gli animali rappresentano un mondo dove il peccato non esiste, un punto di simbolica partenza»: «che sia gatta o cagna o donna non cambia / che maledica la pioggia o la implori / che sotto la pioggia pianga / non parleranno le nostre anime imprigionate / nelle cave della terra, immobilizzate / con una notizia sulla bocca / o un’espressione sconosciuta».

Gli animali come exempla, spiraglio luminoso verso un agire che paradossalmente mostra maggiore umanità di quanta l’uomo ne possieda. Il peccato dell’uomo non è quello che siamo soliti credere, quel peccato non esiste; ne esiste un altro, però, gravido di conseguenze, ed è quello che deriva dall’ignoranza delle propria statutaria, imprescindibile non-innocenza che, se ignorata, genera dolore: «L’uomo penetra il sottobosco / e le foglie hanno un brivido / di voce: // non rovinare nessuna trama / del tessuto degli alberi // che sia tuo il percorso o di altri / seguine con cura la salvezza // della tua non innocenza sii consapevole / che di pena è già colmo il mondo».

Dal peccato, la riflessione si accosta al nucleo concettuale della perdita: la seconda sezione, «Trattenere, cerca di ricostruire le tracce di una perdita, un sentimento di umanità» e, a epigrafe, la domanda – non retorica – nelle parole di Anna Maria Ortese “chi potrebbe affermare che i morti siano veramente sotterra?” (A. M. Ortese, L’infanta sepolta). Qui la poesia di Evelina De Signoribus s’inoltra non nel territorio di una malinconica nostalgia quanto nell’atteggiamento contrario di uno sforzo, una sfida di Sisifo, ovvero riconciliarsi con una perdita ricostruendone le tracce per trattenere un’assenza: «Ho trovato la strada / ed era come l’avevi descritta. / Non c’erano tracce né segnali / non c’erano auto né uomini, / forte era la luce naturale, / la pece d’asfalto brillava. / Spogliata dai panni di sempre / ho segnato con un gesso il punto / in cui ero in vita.»

La ricerca letteraria di Evelina De Signoribus s’iscrive in un percorso di purezza raro per la sua generazione – che è poi la stessa di chi scrive –, un percorso di dedizione alla voce poetica come scelta assoluta. Eppure, la relazione e le incursioni nei territori della prosa non le sono estranei. Basti ricordare la raccolta di prose poetiche con cui ha esordito (La capitale straniera) che paiono voler piegare la poesia alla prosa o rendere prosa la poesia, come a voler mettere alla prova la poesia stessa, mai rinunciando alla sua cifra. La commistione di prosa e poesia emerge anche qui, nella terza sezione, La lingua della terra, che «si svolge come un racconto in una striscia di terra-di-guerra (Gaza è nel mio immaginario ma è, in generale, ogni luogo dove si alzano muri e barriere di filo spinato) in cui hanno voce i personaggi che la abitano».

Soltanto in questa sezione ogni poesia ha un titolo che titolo non è, ogni poesia è singola voce di un coro tragico di morti e di vivi, di riconciliazione o ricongiungimento attraverso le soglie del dolore, una tragedia classica che parte da una Premessa, continua con un’Origine e prosegue con Sposi, Padre, Figlio, Figlia, Madre, Anziana madre, Bambini, Amanti, Combattenti, Eroi, una Tregua e si conclude con Rinascite. Una narrazione della sofferenza in forma di poesia, narrazione del sentimento dell’uomo e delle sue sfaccettature di fronte alla violenza: «Non esiste il tempo di restare – disse – / perché quando un corpo è uscito / sfigurato dopo l’ennesima lotta / anche la mente se ne vuole andare».

Le sezioni conclusive, Le notti aspre e Confluenze, sanciscono che Evelina De Signoribus ha bene in mente che poesia desidera scrivere, alla poesia vuole accedere, alla poesia chiede di farsi strumento di una conciliazione esistenziale che è, forse, la voce stessa della poesia, come Giorgio Agamben chiosa al termine della silloge: «ho riconosciuto la voce di Evelina – con un suono mutato rispetto alla prima raccolta –, la voce alta e solitaria della poesia, dove l’uomo cerca l’uomo che non c’è più e la lingua che non c’è più».

Riferimenti bibliografici
D. Azzalin, a cura di,  Dodici poetesse italiane, Nuova Editrice Magenta, Varese 2008.
E. De Signoribus, La capitale straniera, Quodlibet, Macerata 2008.
Id., Le notti aspre, Il canneto editore, Genova 2017.
Id., Pronuncia d’inverno, Canolini e Santoni, Ancona 2009.

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