“Le mie città” è la grande mostra retrospettiva di Gabriele Basilico aperta al pubblico negli spazi della Triennale e di Palazzo Reale a Milano. A dieci anni dalla morte del fotografo, questa imponente mostra, co-curata da Giovanna Calvenzi e Matteo Balduzzi alla Triennale, e dalla stessa Calvenzi e Filippo Maggia a Palazzo Reale, offre uno sguardo d’insieme sull’opera di uno degli autori più importanti del panorama milanese, italiano e più generalmente europeo. Al di là dei chiari e importanti obiettivi di storicizzazione e valorizzazione culturale, però, le immagini di Basilico sono ancora pienamente attuali e hanno il merito di tracciare una lucidissima genealogia del presente che abitiamo.
È in effetti proprio allo spazio, e in particolare allo spazio urbano in cui viviamo, che il fotografo rivolge la sua attenzione. Lo spazio costituisce l’asse tematico portante della mostra: lo spazio della Triennale è interamente consacrato al lavoro incentrato su Milano; la sede di Palazzo Reale apre invece ad alcune serie realizzate in altre città d’Italia e a una selezione di immagini forse meno note al grande pubblico – spesso a colori – realizzate nelle grandi metropoli del mondo.
Unitaria e rigorosa, l’opera di Basilico è, con le parole di Roberta Valtorta, innanzitutto una «fotografia dei luoghi» (Valtorta 2008, p. 189). Lontane dallo sguardo del flâneur, queste immagini non sono il frutto di un vagabondaggio nell’ambiente urbano, in cui il perdersi nella città farebbe emergere geografie e configurazioni del sensibile finora inavvertite. Al contrario, le prise de vue di Basilico sezionano la città con uno sguardo analitico che a un’occhiata frettolosa rischierebbe di apparire asettico. Alla fotografia di reportage umanista di scuola francese, spesso volta a cogliere l’istante decisivo che suggella una combinazione sfuggente di coincidenze episodiche, Basilico risponde praticando ciò che egli stesso ha definito come una «lentezza dello sguardo»: e in effetti, più che istantanee, le sue immagini appaiono come autentiche vedute. Si tratta di un dato evidente fin dalla scelta degli strumenti di lavoro: non la macchina analogica con rullino 35mm, piccola, maneggevole e facilmente ricaricabile, bensì la pesantezza del banco ottico con pellicole di grande formato che costringe a scegliere con accuratezza il punto di vista, ma ricambia con una grande nitidezza e una capacità unica di correggere le deformazioni prospettiche dell’immagine.
La conseguenza di questa scelta di metodologie di sguardo e di pratiche è che lo spazio ritratto da Basilico appare geometrico e perfettamente lineare, quasi come la raffigurazione di un modello ideale in cui ogni dettaglio è sempre a fuoco e in cui il limite della visibilità si riduce quasi a una “semplice” questione di ingrandimento della stampa. Una variabile che certamente non sfugge ai curatori, che nella sede di Palazzo Reale scelgono stampe di grande formato di fronte alle quali è irresistibile avvicinarsi per cogliere i dettagli più minuziosi, immergendosi in un’immagine che si fa letteralmente finestra – albertiana – sul mondo, per restituirci l’illusione di uno spazio abitabile in cui sembra quasi di poter entrare.
Da Shanghai a Istanbul, passando per la frontiera costiera tra Francia e Belgio, sopra una brulicante Rio de Janeiro o tra le macerie di una Beirut in via di ricostruzione, Basilico seziona la città con lo sguardo strutturale di un architetto – quale era lui stesso, di formazione – che del paesaggio urbano vuole distillare la quintessenza. Dove finisce la città, se le case si confondono all’orizzonte di Amman? Di fronte al mare, dove sta il limite tra un porto e una frontiera? Dove piazzare il confine tra edificio e rovina, se le mura bombardate di Beirut sono ancora raffigurate come case? Dall’idea di mappare non soltanto i centri delle città (ma anche i loro non-luoghi), all’intrecciare architetture “alte” e case popolari – fino alla maniera in cui nel campo lunghissimo che raffigura una ex fabbrica convertita in un museo come la Tate Modern di Londra si inscrivono le vicende di alcuni passanti – si svela a poco a poco, profondamente partecipante, il metodo di osservazione di Basilico. E così, la ricerca di un punto di vista dal quale “spalancare” una finestra sul mondo si tinge anche di una precisa connotazione politica che pone l’attenzione sugli elementi tensivi del tessuto urbano, come il suo rapporto con le periferie e gli spazi di confine o le condizioni abitative delle classi popolari.
È però a Milano, la città d’origine di Basilico, che quest’opera di analisi ha trovato la sua forma più compiuta. Nei suoi quarant’anni di attività, raccolti per la prima volta in un percorso organico in occasione della mostra, Basilico ha visto Milano attraversare i suoi cambiamenti più radicali, documentando il divenire della città che conosciamo oggi. È impossibile non citare in questo senso il suo lavoro sulla fase di post-industrializzazione, di cui Basilico documenta l’abbandono degli stabilimenti cittadini (nella fondamentale serie Ritratti di Fabbriche, 1978-1980 o in altri lavori successivi, come Sesto Falck, 1999) così come le ricadute sulla popolazione, anche giovanile (Ambiente Urbano, 1975-1980, Proletariato Giovanile, 1976).
Osservatore esperto, Basilico immortala le architetture del Novecento milanese realizzate prima della Seconda Guerra Mondiale nell’intento di valorizzarne l’importanza (Immagini del Novecento, 1985), mette in questione la dimensione urbanistica di Milano nel suo rapporto tra quartieri residenziali e lavorativi, tra centro e periferia (La città interrotta, 1995-1996) e si confronta persino con i suoi monumenti più iconici (Dal tetto del Duomo, 2012). Un lavoro instancabile di osservazione della città e dei sintomi più emblematici dei suoi cambiamenti, anche di quelli più recenti, come testimonia il lavoro sul quartiere di Porta Nuova e sulla costruzione dei suoi grattacieli (Porta Nuova, 2006-2012). Da fotografo indipendente o all’interno di prestigiose cornici istituzionali, come il grande progetto di committenza pubblica Archivio dello Spazio, curato da Roberta Valtorta e Achille Sacconi in collaborazione con la Provincia di Milano, Basilico si approccia alla città con l’occhio non indifferente di chi, prima di tutto, è un suo cittadino.
In uno dei testi che corredano il catalogo della mostra scrive: «Questa città mi appartiene e io le appartengo, quasi fossi un frammento fluttuante nel suo immenso corpo» (Basilico 1999). E in effetti nel dedito e appassionato lavoro su Milano la città emerge come un autentico corpo vivente, in trasformazione ed evoluzione. Il ritratto che si figura nelle immagini è quello di una metropoli irrequieta, protesa verso la ricerca perenne di un progresso a tutti i costi, una città «da usare, più che da sognare» (Valtorta 2023, p. 200), e in cui, se è facile transitare, è sempre più difficile rimanere. Un luogo fatto di snodi che facilitano il traffico, di piazze che sono sempre più simili a incroci “casuali” di vie – come direbbe Alberto Savino – nelle quali si incede sulla base di un itinerario scandito dal tempo economico del lavoro. Anche se è spesso spopolata, la Milano di Basilico ricalca profondamente le trasformazioni dei suoi abitanti, in tutti i loro conflitti e contraddizioni.
Dal cuore del suo rigore documentario, lo spazio perfettamente geometrico di Basilico dischiude una sensibilità poetica e appassionata, che tradisce un profondo senso di appartenenza. «La città mi investe e mi abita», scrive sempre Basilico. E in effetti, le città in cui viviamo ci abitano a loro volta.
Riferimenti bibliografici
G. Basilico,The Interrupted City/La ciudad interrumpida, Actar, Barcelona 1999.
R. Valtorta, Il pensiero dei fotografi, Mondadori, Milano 2008.
R. Valtorta, “Gabriele Basilico e Milano. Un legame particolare”, in Gabriele Basilico. Le mie città, a cura di G. Calvenzi, F. Maggia, Electa, Milano 2023.
Le mie città, a cura di G. Calvenzi, F. Maggia, M. Balduzzi, Palazzo Reale e Triennale, Milano, 13 ottobre 2023 − 11 febbraio 2024.