«Per quale ragione le donne hanno meno possibilità degli uomini di sopravvivere alla traversata? Ciò ha a che fare con la loro posizione nelle barche o con le violenze che possono subire a bordo? Con la loro minor capacità di sopravvivere all’acqua, dovuta al fatto che non sanno nuotare? O con la loro vulnerabilità a monte, alla partenza, a causa delle violenze subite sul cammino?» A partire da questi interrogativi Camille Schmoll si fa strada nelle vite delle donne che ha incontrato sul campo, tra Malta e l’Italia, e che con il tempo sono diventate le protagoniste del suo libro, Le dannate del mare, recentemente pubblicato dalla casa editrice AstArte.

Prima di consegnare la parola alle “dannate del mare” – locuzione che provocatoriamente riprende il fortunato titolo dell’opera di Frantz Fanon (2000) con la precisa intenzione di causare uno sdoppiamento nello sguardo degli analisti e degli esperti di migrazioni, pervaso, il più delle volte, da una «prospettiva maschilista” (Schmoll 2022, p.35) – Camille Schmoll si procura gli strumenti necessari per raccontare le donne che non ce l’hanno fatta, facendo risalire dalle profondità del mare i loro corpi, le loro storie e i loro nomi. Un gesto che fa trapelare la volontà di riscattare le donne migranti a partire dall’assegnazione del genere femminile a quelle morti che le statistiche ufficiali e le rappresentazioni mediatiche hanno l’abitudine di ritrarre sempre e solo come neutrali. Ma, soprattutto, un gesto che, letto alla luce del lavoro complessivo dell’autrice, sembrerebbe voler bilanciare criticamente quelle tendenze che le donne migranti sperimentano una volta giunte a destinazione. Nei luoghi di destinazione le migranti, infatti, non si misurano unicamente con la crudeltà del dispositivo umanitario dell’accoglienza (Agier 2005), per mezzo del quale esse vengono identificate, schedate, smistate e promiscuamente collocate all’interno dei centri per persone richiedenti asilo e rifugiati, ma sono altresì impegnate a fronteggiare e a fare i conti con gli effetti  di un “umanitarismo sessuale” (Mai 2018), ossia con «una modalità di governo delle migrazioni che articola la sessualità e il genere per costruire, gerarchizzare e ordinare le vulnerabilità» (Schmoll 2022, pp. 163-164).

Mettendosi sulle tracce delle donne che hanno esercitato e portato a termine il proprio diritto di fuga (Mezzadra 2001), Schmoll ricostruisce le trame delle migrazioni femminili, ri-politicizzandone le traiettorie e i percorsi di mobilità. Il modo in cui essa sceglie di farlo consiste nel mostrare come le etichette (Zetter 1988) che i regolamenti e le direttive europee assegnano a queste donne sulla base di criteri squisitamente geografici e spaziali, non tengono conto dell’unicità delle aspirazioni e dei desideri che ciascuna di queste donne tende segretamente a coltivare fintantoché la forza disciplinatrice del confine non interviene a modificarne le sorti.

Anche in questa circostanza, la volontà dell’autrice si definisce a partire dall’adozione strumentale di categorie che, astraendo i vissuti delle donne, fanno da incentivo alla loro classificazione, ma la cui insufficienza viene portata allo scoperto dal confronto che la geografa ingaggia etnograficamente nel campo dei racconti e delle esperienze reali. “Rimpatriate”, “ricollocate, dublinate sono gli attributi selezionati da Schmoll per documentare alcune delle tappe e dei passaggi obbligati della migrazione. Ma prima ancora, essi sono la prova più tangibile della violenza istituzionale che il «governo della mobilità» (ivi, p. 128) dispiega nel tentativo di neutralizzare le istanze di movimento e di libertà delle donne e, più in generale, di tutte le persone che migrano.

A queste tecniche di governo, esercitate prima di tutto mediante l’immobilizzazione fisica e spaziale delle persone migranti, l’autrice contrappone la mobilità di quelle donne che, sfidando il continuum di violenze a cui generalmente vengono esposti tutti coloro i quali lasciano il proprio paese in condizioni di estrema vulnerabilità, decidono comunque di mettersi in cammino, malgrado tutto. Ma non si tratta, come erroneamente saremmo portati a ritenere, di contemplare l’estrema ratio della vulnerabilità per riuscire ad assegnare a queste donne il ruolo di “vittima” o, banalmente, di affermare il carattere più meritorio di alcune migrazioni; al contrario, l’ambizione che anima il lavoro etnografico di Schmoll consiste nello smascheramento di un sistema di rappresentazioni che distingue, gerarchizzandole, le cosiddette migrazioni volontarie (o economiche) dalle migrazioni forzate, e che assegna alle seconde una indiscussa superiorità morale.

Una moralità che i radar della geografia sociale rilevano anche nell’ambito delle procedure di selezione e di regolazione dei flussi migratori. Questa «inquietudine morale», particolarmente presente nelle rappresentazioni politiche e mediatiche, scrive Schmoll, «contribuisce a mettere ordine nelle forme di mobilità e di sedentarietà definendo e orientando il diritto e la legittimità di alcuni a essere lì dove sono» (ivi, p. 151).  Assumendo la nozione di moralscape, l’autrice compie un salto in avanti rispetto alle formule tradizionalmente impiegate per descrivere la quotidianità all’interno dei centri per persone richiedenti asilo e rifugiate. In particolare, l’approccio spaziale impiegato dalla geografa, secondo la quale ciò che conta mettere in luce è il lavoro di frontierizzazione operato dal dispositivo dell’accoglienza, consente di prendere realmente coscienza di una moralità che viene esercitata a tutto tondo, rendendo materialmente possibili quei meccanismi di infantilizzazione e di genderdizzazione che caratterizzano gli spazi destinati all’accoglienza istituzionale e che naturalmente scandiscono la quotidianità di chi vive al loro interno.

Sulla scia del lavoro dell’antropologa Barbara Pinelli (2019), il volume di Camille Schmoll illumina, a più riprese, il volto paternalista e patriarcale del sistema di accoglienza, le cui ambizioni si definiscono a partire dalla necessità di fabbricare soggettività docili e capaci di performare l’affettività, la sessualità e l’esperienza delle genitorialità secondo un copione che viene loro assegnato al momento dell’ingresso in Europa. L’elemento della maternità costituisce uno dei tasselli centrali del lavoro di frontierizzazione esercitato dal dispositivo umanitario dell’accoglienza: laddove intorno a questo processo tendono, di volta in volta, a coagularsi tutte le forme di distinzione e di gerarchizzazione messe a punto dal sistema. Lungi dal rappresentare un momento di scambio e di confronto, le attività di educazione alla sessualità e alla genitorialità praticate all’interno dei centri di accoglienza sono principalmente tese a ribadire (e a riprodurre) uno scarto irriducibile: tra una sessualità moralmente accettabile e una “sessualità selvaggia”; tra una maternità irreprensibile e una maternità messa in discussione dall’egemonia di modelli educativi fortemente etnocentrici. A ciò si aggiunge il carattere intersezionale del “paesaggio morale” dell’accoglienza, all’interno del quale l’elemento della “razza” viene agito dagli attori istituzionali per incoraggiare la produzione di ulteriori differenze e gerarchie. Come rammenta Schmoll: «Nel caso delle donne africane, il meccanismo di razzializzazione è particolarmente articolato quando si tratta di far riferimento ai loro atteggiamenti e comportamenti sessuali» (ivi, p. 153).

Ma a essere messe in luce dall’autrice non sono unicamente le pratiche di assoggettamento e di disciplinamento esercitate sulle donne migranti; al contrario, ciò che caratterizza l’impresa etnografica di Schmoll sono soprattutto le tattiche di “fuga” e di “resistenza” a cui si «dedicano quotidianamente queste donne, dai limbi dell’attesa» (ivi, p. 177). É qui, in queste pagine dedicate a ciò che l’autrice definisce nei termini di «un’autonomia in tensione», che il lavoro di Schmoll prende definitamente congedo dai tradizionali schemi di lettura delle migrazioni forzate e dell’universo dell’accoglienza istituzionale, spingendo l’analisi politica oltre i confini delimitati delle descrizioni e dei resoconti etnografici che da un decennio a questa parte sono entrati, di diritto, a far parte dei cosiddetti Refugee studies. Mettendo a valore l’imprescindibile apporto teorico che le femministe hanno contribuito a dare al dibattito sull’autonomia delle migrazioni, superando quella «separazione rigida e netta tra affetti e desideri, da una parte, e volontà morale, dall’altra» (ivi, p. 179) di matrice kantiana, la geografa propone una lettura relazionale dell’autonomia, che si colloca cioè «nel campo delle relazioni sociali e dell’affermazione di una soggettività fatta ugualmente di desideri, di sentimenti, di passioni e di legami» (ibidem).

Lasciarsi alle spalle questa dicotomia significa prendere in prestito da Foucault – come lascia intendere la stessa autrice –  gli strumenti necessari per comprendere in che cosa realmente consistano quelle pratiche di “fuga” e di “resistenza” a cui si dedicano le donne dai margini delle società di destinazione. Significa, cioè, prendere coscienza del fatto che ciò a cui possiamo assistere non si configura come un affrancamento reale, ma semmai ciò di cui possiamo essere testimoni è il fatto che «a un certo punto, si sovverte qualcosa, ci si sposta un pochettino, ci si distanzia, si fa un passo di lato» (Eribon 2010 in Schmoll 2022, p. 180). Il gradiente di autonomia delle donne migranti è perciò misurabile in passi (di lato): una pratica che ricorda quella mossa a lato che Maria Nadotti (2018) attribuisce all’apparente inconciliabilità tra l’attività militante e quella scientifica dell’intellettuale e attivista per i diritti delle donne nere: bell hooks.

Cosa vuole dirci, allora, Schmoll prendendo in consegna dalle femministe questa visione dell’autonomia e delle pratiche di resistenza? Che non esiste un modo, per le donne migranti, di metterle in pratica? Niente affatto. Ciò da cui l’autrice intende metterci in guardia ha a che vedere con le rappresentazioni delle migranti “vittime” e, non meno importante, con le aspettative che tendono a fare di queste donne delle romantiche “eroine”. A questo scopo, la geografa propone l’adozione di un “geometodo”, un salto di scala, per verificare e documentare l’autonomia esercitata dalle donne dentro e fuori i contesti di accoglienza. «Nella loro ricerca di autonomia», ribadisce Schmoll, «le donne incontrate agiscono in particolare su tre scale: la scala del corpo, dello spazio domestico e dello spazio digitale» (Schmoll 2022, p. 185).  Interpretati come luoghi eminentemente politici ed «espressione di una soggettività in movimento» (ivi, p. 186), essi hanno, infatti, la capacità di sprigionare un’agency che solitamente viene tralasciata.

Ma se affermare l’agentività dei corpi rappresenta un’operazione, tutto sommato, consueta per gli studiosi e le studiose di migrazione, al contrario intravedere le pratiche di resistenza all’interno dello spazio domestico e dello spazio digitale non è altrettanto usuale. Solo una lettura femminista delle migrazioni, come quella di Schmoll, può aiutarci a comprendere come le oppressioni che generalmente vengono attribuite allo spazio domestico e l’alienazione che quasi sempre viene ricondotta all’utilizzo di Internet e dei social network, per le donne in migrazione, si configurano, invece, come degli spazi di autonomia e di massima espressione del Sé. E dopotutto, è proprio al registro delle ambivalenze che Camille Schmoll consacra il suo libro, al superamento delle dicotomie tra migranti volontarie e migranti forzate, tra migranti vittime e migranti eroine, poiché, come scrive, la migrazione «deriva da – e produce – una ridefinizione delle femminilità: diventando migrante si diventa un’altra» (ivi, p. 219).

Riferimenti bibliografici
M. Agier, Ordine e disordini dell’umanitario: Dalla vittima al soggetto politico, in Annuario di Antropologia n.5, pp. 49-65, 2005.
D. Eribon, Retour à Reims, Champs Essais, pp. 229-230, Parigi 2010.
F. Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2000.
S. Mezzadra, Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, Ombre Corte, Verona 2001.
M. Nadotti, Introduzione, in Elogio del margine, Tamu, pp. 18-27, Napoli 2010.
B. Pinelli, Migranti e rifugiate. Antropologia, genere e politica, Cortina, Milano 2019.
R. Zetter, Refugees and Refugee Studies: a Label and an Agenda, in Journal of Refugee Studies, pp. 1-6, 1988.

Camille Schmoll, Le dannate del mare. Donne e frontiere nel Mediterraneo, AstArte Edizioni, Pisa 2022.

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