“Léaud esiste davvero fuori dallo schermo?”: è questa la domanda intorno alla quale Cyril Leuthy medita nei sessanta minuti di Le cinéma de Jean-Pierre Léaud, presentato nella sezione Venezia Classici all’ 81° Festival di Venezia. Il documentario che il regista dedica a Jean-Pierre Léaud non tenta di ricostruire la vita dell’attore francese, quanto la relazione travolgente e totalizzante che l’attore ebbe col cinema fin dai primi anni della sua adolescenza.

La vita dell’attore feticcio della Nouvelle Vague potrebbe essere scandita da due immagini che Leuthy cita e commenta: da un lato un ragazzino di tredici anni che corre verso il mare nella sequenza finale de Les Quatre Cents Coups (Truffaut, 1959); dall’altro un volto iconograficamente eterno, mitizzato e sacralizzato di un uomo ormai anziano come in La mort de Louis XIV (Serra, 2016). Questi sembrano segnare, con una radicale incursione dal mondo finzionale del cinema verso il mondo reale, un tragitto di una vita vissuta, o meglio, di una cine-vita rappresentata.

Leuthy, come già fatto precedentemente con i documentari su Melville e Godard (Melville, le dernier samouraï, 2020; Godard seul le cinéma, 2022), ricostruisce la cine-vita dell’attore e icona del cinema francese Jean-Pierre Léaud alternando interviste a celebri personaggi (Olivier Assayas, Chantal Goya, Aki Kaurismäki, Macha Méril ecc.) con raro materiale d’archivio e estratti di pellicole. 

Lo stile della Nouvelle Vague influenza evidentemente la struttura formale e narrativa del suo lungometraggio. Nel Secondo dopoguerra, l’irrefrenabile spirito collettivo dei critici dei “Cahiers du cinéma”, rivoltandosi contro il cinema francese della “tradition de la qualité” – verso il quale Truffaut si scagliava nel suo famoso articolo Una certa tendenza del cinema francese, pubblicato sui “Cahiers du cinéma” nel 1954 teorizzava e metteva in pratica un nuovo linguaggio, in cui l’estetica e la morale si influenzassero fino a coincidere in un cinema fortemente personale. Un cinema sì personale, ma mai condannato alla mera ricostruzione della vita dell’autore, perché capace di trascendere il dato biografico, scivolando, mediante una rielaborazione immaginaria, verso il racconto dell’esperienza umana nella sua totalità. Intraprendendo proprio questa via, Leuthy dirige un documentario “personale” (descrive certamente lo sviluppo dell’attività artistica di Léaud), ma allo stesso tempo capace di travalicare il riferimento biografico e protenderlo verso un’ulteriore narrazione costruita sempre ai margini della finzione.

Nonostante Léaud nella sua lunga carriera sia stato diretto da molteplici e importanti registi  da Jean-Luc Godard, Jean Eustache, Oliver Assayas fino a Bertrand Bonello, Tsai Ming-liang e Albert Serra – Leuthy dedica ampio spazio soprattutto alle sequenze tratte dal ciclo di Antoine Doinel (da Les Quatre Cents Coups a L’amour en fuite), ponendo al centro del suo racconto l’intreccio indissolubile tra realtà e finzione che ha caratterizzato l’intero percorso di vita di Jean Pierre Léaud fin dal primo incontro con François Truffaut.

Jean Pierre Léaud, dopo aver risposto a un annuncio su “France Soir”, viene ingaggiato da Truffaut e scelto per incarnare il personaggio del celebre alter ego del regista, Antoine Doinel. Tra le vite del giovane regista e del piccolo promettente attore si genera una fusione indefinita che permette a Truffaut di raccontarsi nel ciclo di Doinel servendosi del corpo e della mente di Léaud, un ragazzino che gli somiglia come un fratello minore e che gli somiglierà sempre di più. Mescolando il vissuto di Léaud al proprio, Truffaut riesce a dar forma di fiction alle sue memorie d’infanzia: «Antoine Doinel è un personaggio immaginario che deriva dalla sintesi di due persone reali, Jean-Pierre Léaud e io» (Truffaut 1988, p. 23). 

Leuthy sembra affermare come, però, pian piano, anche Léaud divenga un personaggio, provocando lo svanimento dell’attore. Come rintracciare e cogliere la vera identità di Léaud attore? L’espediente che Leuthy utilizza ha ancora a che fare col mondo della rappresentazione: il regista invita alcuni attori ad interpretare Léaud in diversi anni della sua vita, montando così, ancora una volta, una storia, un ciclo, simile a quello di Doinel.  L’attore che interpreta Léaud adulto recita: “Il mio solo partner, il mio grande Altro, come diceva Lacan, è la macchina da presa”.

In questo senso, Leuthy documenta la vita di Léaud quasi come se tentasse di ridar vita ad Antoine, alla coincidenza tra la vita di Jean-Pierre e quella dell’alter ego di Truffaut: come nel ciclo di Doinel, in cui ogni pellicola lo fissa in uno stadio diverso del suo sviluppo fisico e psichico, anche Leuthy fissa ogni momento di vita dell’attore in una messa in scena.

Ecco come documentare la vita di Léaud: attraverso un documentario anti-documentario che distrugge ogni pretesa di ricostruzione “realistica”, evitando di catapultare Léaud fuori dall’universo narrativo che lo ha visto nascere e crescere. Leuthy fa dunque fede a una delle affermazioni più emblematiche che Truffaut fece riferendosi a Jean Pierre Léaud: «Jean-Pierre Léaud è un attore anti-documentario: anche quando dice buongiorno precipitiamo nella finzione, per non dire nella fantascienza» (ivi, p. 221). Jean-Pierre, attore allucinato e funambulo, un antieroe capace di un unico realismo: quello dei sogni.

Riferimenti bibliografici
F. Truffaut, Il piacere degli occhi, a cura di J. Narboni e S. Toubiana, Marsilio, Venezia 1988.

Le cinéma de Jean-Pierre Léaud. Regia: Cyril Leuthy; sceneggiatura: Cyril Leuthy;  fotografia: Gertrude Baillot, Chen Hong Cheng, Yann Moreau; montaggio: Florence Jacquet; musiche: Thomas Dappelo; interpreti: Michel Fau, Jean-Baptiste Le Vaillant, Enzo Tinebra, Antonio Lanciano;  produzione: Kepler22 Productions, ARTE France, INA, Cine+; origine: Francia; durata: 64’; anno: 2024.

Tags     Léaud, Truffaut, Venezia 81
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