On the whole, the images of refugees taken by German photographers
[…] tended […] to emphasize the migrants’ general vulnerability,
desolation, separateness and, perhaps, most disturbing, anonimity. […].
None of the people they photographed and thereby “redeemed”
from the anonymity and oblivion of that huge, chaotic migration
seemed to deserve that fate.
Dagmar Barnouw
Un filo rosso attraversa tutta l’opera di Silvio Soldini, dagli esordi nei primi anni ottanta a oggi: la prospettiva femminile. Dalla protagonista di Giulia in ottobre (1984) a un’esordiente Sonia Bergamasco nel cortometraggio D’estate (1994), dalla trionfante Licia Maglietta di Pane e tulipani (2000) all’inquieta Margherita Buy di Giorni e nuvole (2007), il cineasta milanese ha sempre prediletto decentrare il racconto e l’angolazione, scartare di lato rispetto ai binari consueti di una rappresentazione imperniata su protagonisti maschili più o meno in crisi. Prima e dopo l’incontro con Doriana Leondeff, storica sceneggiatrice dei suoi film, da Le acrobate (1997) in avanti, è lo sguardo femminile a orientare le narrazioni di Silvio Soldini. Le assaggiatrici magnifica questa scelta di campo, come il titolo stesso indica.
Il soggetto del film si basa su una storia realmente accaduta, nella Prussia Orientale tra 1943 e 1944, quando la Wehrmacht vede fallire l’Operazione Barbarossa. Esso è infatti tratto dall’omonimo romanzo di Rosella Postorino (2018) insignito del Premio Campiello, a sua volta basato sulla testimonianza di Margot Wölk (Berlino, 1917-2014). La donna, sfollata dai suoceri a Gross-Partsch (oggi Parcz) dalla capitale tedesca, venne cooptata dal Bürgermeister del villaggio, insieme ad altre quattordici donne, per far parte di una squadra di assaggiatrici del cibo quotidianamente preparato per il Führer. Infatti, nei pressi del villaggio Adolf Hitler aveva fatto edificare un proprio quartier generale, costituito dal sistema di bunker noto come Tana del lupo (Wolfsschanze), per la natura stessa del territorio, ricco di bacini lacustri, paludi e foreste, che ne facilitavano la mimetizzazione e ne ostacolavano l’attacco via terra. Nelle caserme vicine al sistema fortificato le donne venivano coercitivamente condotte, per verificare a proprio rischio che il cibo destinato a Hitler non fosse stato avvelenato. Questa vicenda è emersa quando la sola sopravvissuta, Margot Wölk, ne rese testimonianza al “Berliner Zeitung”, compiuti 95 anni. Il romanzo trae ispirazione da questa vicenda, mutando il nome della protagonista in Rosa Sauer e riducendo il numero delle donne a dieci. A sua volta, la sceneggiatura scritta a più mani assottiglia il gruppo a sette.
Le assaggiatrici comincia in medias res, quando Rosa (Elisa Schlott) arriva a Gross-Partsch, dai suoceri; e si conclude quando, con la rotta del fronte orientale, riesce a salire su un treno destinata a ricondurla verso la capitale. In questo microsistema ambientale si concentra tutta la vicenda, assunta dalla sola visione della protagonista. Infatti, è lei che istituisce il racconto, a portarne il peso e proiettarlo oltre gli angusti limiti in cui è costretta, insieme alle sue compagne di sventura. È lei la sola, in poche, icastiche e straordinariamente efficaci inquadrature a levare lo sguardo oltre i confini limitati della routine fatta di lavoro nei campi, stanze di caserma e degustazioni indesiderate. Aperture sul cielo, che fanno tanto più risaltare il clima claustrale della condizione.
La protagonista ha tre ulteriori caratterizzazioni che la qualificano, oltre alla libertà di sguardo. Solo a Rosa è concesso il beneficio di una coscienza politica capace di travalicare la sottomissione a Hitler, alla catena di comando, alla morale tradizionale e all’ideologia dominante. In questo, per molti versi, la sceneggiatura di Soldini costruisce una posizione confortevole per lo spettatore: aliena alla brutale virilità delle SS come alla ottusità o semplicità delle compagne, Rosa è un termine di identificazione ideale, ben sostenuta in questo dall’intensità dell’interprete. Unica tra le assaggiatrici, Rosa costruisce un legame affettivo con l’aberrazione patriarcale incarnata dal tenente delle SS Albert Ziegler (Max Riemelt). E successivamente, con una scelta fondata sulla morale degli affetti e umanitaria, lo rigetta, mettendo sé stessa a repentaglio. Infine, solo Rosa ha il senso ugualmente morale della colpa, di vivere ogni giorno la contraddizione tra la coercizione subita, per garantire la sicurezza di un tiranno, e l’esigenza di sopravvivere. Nelle parole di Soldini,
queste donne che tutti i giorni dovevano recarsi ad assaggiare, costrette tutti i giorni a una precisa condizione psicologica, sia come vittime ma, in un certo senso, anche colpevoli, perché lo facevano senza dire ‘no’; c’è tanta gente che ha detto ‘no’, ma è molto difficile, soprattutto quando si è in guerra, c’è la fame, c’è la povertà, mentre loro infine mangiavano, e anche bene, e dopo un po’ ci si adatta a tutto; siamo esseri adattabili a qualsiasi cosa e loro si sono adattate a questo.
A questo privilegio della prospettiva femminile il film aggiunge un elemento inedito, per il cinema di Silvio Soldini, verosimilmente ereditato dal romanzo e dal soggetto, predisposto da Cristina Comencini, Giulia Calenda e Ilaria Macchia: il coro femminile e il legame di sororanza che, progressivamente, si intesse tra le sette donne. Se la coralità non è mai stata la cifra delle messinscene di Soldini, la collaborazione virtuosa con gli attori sicuramente ne ha caratterizzato pure le opere meno convincenti. Le assaggiatrici ha davvero un’apprezzabile capacità di modulare la molteplicità delle condizioni femminili attraverso le sette attrici di lingua tedesca e la varietà delle performance. A ciò si aggiunge una lucidità nel comporre la messinscena e una puntualità del découpage che poche altre personalità nazionali possono vantare.
Sul piano della messinscena il regista, il direttore della fotografia Renato Berta e la scenografa Paola Bizzarri sono partiti dalle immagini d’epoca tedesca per ricostruire le tonalità cromatiche livide della caserma, abbigliamenti e acconciature, le peculiarità della pianura della Prussia Orientale, ricreata in Belgio, dato che l’attuale area del Voivodato della Varmia-Masuria (Polonia) è considerata area non-sicura per il conflitto russo-ucraino in corso. Ne scaturisce una giustezza di toni capace di sottrarre la ricostruzione storica alla sensazione posticcia. Ma è soprattutto nell’orchestrazione dei pasti, confinati nello spazio di una sala all’interno di una caserma, che le qualità di Soldini si esaltano, come metteur-en-scène e nella cooperazione con le attrici:
c’era un’idea di regia molto precisa, doveva essere tale soprattutto nella sala assaggi, perché volevo che anche la simmetricità le inscatolasse in qualche modo, mantenendo però all’interno della simmetricità la vita, volevo che loro fossero delle persone, tenendo sempre presente che gli attori siano l’unica vita che c’è in un film, per cui devono vivere sullo schermo.
Come rendere vive, dunque, queste presenze? Attraverso il contributo delle attrici alla costruzione dei propri personaggi, la varietà della recitazione e la vivacità dei corpi. Perché, al fondo, Le assaggiatrici racconta di corpi femminili imprigionati da un ordine patriarcale, indotti a ingerire un cibo potenzialmente velenoso, impiegati come carne sacrificabile, anziché valorizzati come un’alternativa alla militarizzazione maschile. Questo diversa natura dei corpi e del loro possibile impiego si esalta al meglio nell’ultimo incontro clandestino tra Rosa e Albert: nello sguardo reciproco tra i due si misura l’ingiustificabilità della violenza esercitata sui corpi femminili. Si tratta di corpi obbligati nell’ordine della Storia – una narrazione patriarcale e fallimentare, inadeguata a includere liberamente la diversità di genere, razziale, ideologica. Tutte le protagoniste di Soldini si sottraggono al tempo e alla funzionalità sociale e politica e decidono di costruirsi il proprio destino: Pabe (Maria Bakò) in Un’anima divisa in due (1993), Elena (Licia Maglietta) in Le acrobate, Rosalba (Licia Maglietta) in Pane e tulipani o Anna (Alba Rohrwacher) in Cosa voglio di più (2014). In questo tempo sospeso della Tana del lupo sono obbligate e si scoprono, in un luogo alternativo all’evolversi mostruoso della Storia sedicentemente millenaria del Terzo Reich.
La storia è infatti confinata in un ampio, opprimente fuori campo; essa penetra nello spazio della protagonista e delle compagne solo per lacerti angosciosi. Una lettera dal fronte, un ritratto del Führer, un discorso radiofonico, un incubo che aggredisce il sonno di Albert, ricordandogli le fucilazioni di massa perpetrate nel genocidio delle comunità ebraiche in Unione Sovietica. Non è la grande Storia patriarcale a essere messa in scena, ma i suoi riverberi sui corpi femminili, in una determinata congiuntura, mentre il Reich millenario si va sgretolando. La stessa atroce conclusione di quella singolare vicenda e dell’esistenza delle comunità di lingua tedesca in Europa orientale è esclusa dalla rappresentazione: l’arrivo dell’Armata Rossa spazzò via la presenza germanica plurisecolare dalla Prussia Orientale, come dalla Transilvania, dai Sudeti, dai Paesi baltici. Una pulizia etnica condotta in un’orgia di violenza quasi pari a quella perpetrata dalla Germania hitleriana in Polonia e Unione Sovietica. Vittime di essa caddero le quattordici compagne di Margot Wölk, come le sei del personaggio finzionale di Rosa. Ma perché mostrare simili azioni, definitive, condotte dalla ineluttabile brutalità virile, quando si è desiderato dare corpo a una prospettiva alternativa, in un tempo e luogo sospesi?
Riferimenti bibliografici
D. Barnouw, Germany 1945. Views of War and Violence, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 1996.
R. Postorino, Le assaggiatrici, Feltrinelli, Milano 2018.
Le assaggiatrici. Regia: Silvio Soldini; sceneggiatura: Doriana Leondeff, Silvio Soldini, Cristina Comencini, Giulia Calenda, Ilaria Macchia, Lucio Ricca, dal romanzo omonimo di Rosella Postorino; fotografia: Renato Berta; montaggio: Carlotta Cristiani, Giorgio Garini; interpreti: Elisa Schlott, Max Riemelt, Alma Hasun, Emma Falck, Olga Von Luckwald, Thea Rasche, Berit Vander, Kriemhild Hamann; produzione: Lumière & Co., Tarantula, Tellfilm, Vision Distribution, IDM Film Commission Südtirol; origine: Italia, Belgio, Svizzera; durata: 123′; anno: 2025.