Corpi che appaiono, attraversano l’inquadratura e scompaiono fuori campo, susseguendosi in un cammino instancabile al confine tra la Grecia e la Macedonia; corpi che pazientemente lavorano nella terra o danzano ripetendo antichi gesti dimenticati, sopravviventi. Sono alcune delle immagini che involontariamente si presentano alla memoria leggendo il testo L’avanguardia dei nostri popoli. Per una filosofia della migrazione, volume collettaneo sorto da un intenso ciclo di seminari tenutosi dal febbraio al giugno 2019 presso l’Università di Verona, pubblicato da Cronopio. Immagini di celluloide, di archivi recuperati e rimontati, di un’archeologia di immagini attorno a cui diviene possibile ripensare la migrazione, scriverne e reinventarne la filosofia. Un’immagine infatti sembra assediare il testo, tornando prepotentemente nei diversi interventi degli autori (in particolare nei contributi di Nicola Turrini e Gianluca Solla) o rimanendo come una presenza a un tempo assente e più che presente tra le pieghe della scrittura: quella dei migranti fermi al confine di Idomeini nel 2016, giunti alla frontiera proprio nel momento della sua chiusura, consegnataci dall’opera cinematografica Spectres are haunting Europe (2016) di Niki Giannari e Maria Kourkouta.
Questi corpi, avvolti in grigie mantelline impermeabili, appaiono al confine come spettri, fantasmi che si aggirano per l’Europa, venuti a turbare il tranquillo sonno della fortezza della civiltà. Fantasmatici eppure estremamente vitali, carnali e abitati da un desiderio ostinato – il desiderio di passare – essi rimangono sospesi sulla soglia come abitanti di una dimensione limbale: dai Regni della fame si arrestano alle porte d’Europa come davanti alla kafkiana porta della legge. Lo stato di arresto in cui i migranti sono catturati rivela il confine come dispositivo statuale che opera misteriosamente: a volte impermeabile, altre volte insuperabile, imperscrutabilmente esso lavora come una linea magica, un tracciato mitico in grado di separare il dentro dal fuori, di generare le identità e i regimi di realtà che riproducono le categorie concettuali classiche della politica occidentale.
Se l’obiettivo degli autori del testo è di dare vita a una filosofia della migrazione, questa scommessa teorica implica dunque un duplice compito: è necessario da un lato esporre il funzionamento della macchina che sembra regolare – nell’epoca del neoliberismo securitario – ogni pensiero sulla migrazione, dall’altro – ed è questo il compito della potenza memoriale delle immagini – mostrare gli impensati, le inedite prospettive politiche che i popoli che non smettono di venire e sopra-venire alla frontiera inaugurano. La macchina identitaria (come quella antropologica teorizzata da Giorgio Agamben che divide l’umano dal non umano e quella mitologica analizzata da Furio Jesi e discussa nel saggio “Pericolo: diversi!” Furio Jesi e le mitologie del sangue e della razza da Andrea Cavalletti) si articola intorno a un vuoto, un ipotetico fondamento indicibile, a partire dal quale si costituisce la sua mitologia. Ripensare la migrazione dunque significherà destituire questa mitologia, interrompere l’incessante moto della macchina rendendone inoperosi i prodotti, scovare quella potenza in grado di svuotare di senso l’immagine mitica dell’etnos (fondamento di ogni presunta omogeneità ontologica e biologica del popolo), della comunità nazionale, del popolo-sovrano attraverso cui viene ricomposto lo scarto irriducibile che i senza-nome del mondo incarnano.
Dunque a partire dalla questione migrante la domanda centrale del testo si rivela essere un’altra: cos’è un popolo? E soprattutto: cosa queste esistenze anonime, semplicemente in movimento, in fuga – in altre parole, desideranti – ci dicono dell’immagine di popolo a cui partecipiamo? È la straordinaria potenza destituente dell’intervallo ad aprire lo spazio di questa nuova interrogazione. Se è vero che nei campi – luoghi interstiziali che costituiscono il paradigma bio-politico della modernità – «basta poco perché prenda piede l’ingiustizia» (Didi-Huberman, Giannari 2019, p. 43), è proprio qui, dove i corpi di passaggio dei paria del mondo sono costretti, che appare in tutta la sua evidenza un’intuizione che ha nel profugo Walter Benjamin la propria genealogia: la violenza della legge – quella per cui come direbbe Pier Paolo Pasolini “ogni potere è cattivo”– è la sua stessa vigenza.
In questi spazi intervallari il dispositivo etico-normativo democratico tenta di disciplinare i corpi attraverso l’immagine onirica e asintoticamente irraggiungibile di una cittadinanza che vede, nell’epoca del capitalismo avanzato, ampliarsi il suo orizzonte di discrezionalità: l’inesausta produzione di meriti richiesta a chi tenti di ottenerla perpetua la macchina politico-teologica moderna e fa ancora della relazione coloniale l’unica possibile forma di integrazione, come fa notare Fabio Raimondi nel contributo Migranti e integrazione nella riflessione di Abdelmalek Sayad.
È tuttavia proprio sul confine, sulla soglia tra un passato che non smette di ritornare e una vita a venire, che si aprono gli spazi di nuove alleanze. La migrazione rivela il suo carattere politico – che il potere statale deve denegare per poter meglio amministrare – e i corpi migranti rinascono come corpi affettivi, vitali, come divenire inesauribile di relazioni, gesti di rivolta, nuovi legami senza fondamento. È dunque questa forza clandestina quell’avanguardia che, come suggeriva Hannah Arendt nel suo testo Noi Profughi (1943), continua a riconsegnarci alla «nostra genealogia dimenticata» (Didi-Huberman, Giannari 2019, p. 12). I popoli che insistono ai confini e dentro le nostre città (i Persiani della profezia pasoliniana commentata nel volume da Gianluca Solla nel suo intervento I Persiani a Roma. Sul divenire migrante dei popoli), con le loro voci barbariche – incomprensibili per l’interdetto che da sempre grava su chi sfugge ad ogni computazione – suscitano una reazione immunitaria paranoide proprio perché ci espongono a ciò che la civiltà occidentale non ha mai smesso di rimuovere: la potenza spettrale e anonima dell’assenza che abita ogni popolo, la cavità che ne smantella la presunta unità sottraendosi a qualunque legame di appartenenza.
Quella che Pierandrea Amato delinea (nella sua Nota sulle disavventure del demos in Pasolini) con il termine populace – il divenire–plebe del popolo – alberga infatti in ogni popolo come un vuoto che ingorga l’immagine del popolo-sovrano e del popolo-classe verso quel demos che sopravvive ad ogni rimozione disertando con la propria carica anarchica ed eversiva ogni rappresentabilità ed ogni possibile iscrizione nella struttura molare del discorso politico occidentale. Questi corpi in movimento che si coagulano per poi sparire, magari nella notte, come lucciole nel buio, continuano ad apparire come fantasmi (re-venants) a inquietare il presente, a frantumare la granitica veste che abbiamo attribuito alla nostra storia per restituircene i frammenti, gli scarti: ciò che abbiamo dimenticato, a cui abbiamo rinunciato, che ci è stato sottratto.
Svuotando ogni codificazione, essi ci mostrano che l’ipoteca abissale che grava sulle loro esistenze è il rimosso delle nostre: la promessa di esistenza a cui abbiamo sacrificato il desiderio, per cui abbiamo imposto alla vita una forma mortifera, è una domanda che rimarrà insoluta. Il dolore e l’avventura iscritti nei loro corpi ci parlano – al di là di qualunque rappresentazione vittimistica – di quella capacità di far esperienza che il capitalismo ci ha strappato. E tuttavia, se il demos è proprio quel popolo senza fondamento che esiste nella dimensione politica dell’abitare, è possibile scorgere, nel bagliore fugace di queste singolarità qualunque, un nuovo ethos.
I senza-parte della storia – che oltrepassano i confini, continuano senza posa a scavalcarli negandone, con la semplice immanenza delle loro vite minori, la legittimità – abitano i luoghi e il tempo come sospesi tra «una patria e un esilio» (Agamben 2014, p. 123) e rivelano così il mondo come l’inappropriabile in cui è possibile dimorare solo tenendosi in relazione con le forze che lo attraversano, con le polarità e i divenire che lo compongono, al di là di ogni logica di possesso. La potenza impersonale dei corpi desideranti dei popoli smantella dunque la finzione democratica – quella “crazia”, quel potere su cui ancora si fonda l’idea di popolo (Solla 2020) – e rompe con il regime del possibile neocapitalistico per consegnarci all’impensato che spalanca nella storia lo spazio dell’Ora. Sulle rovine della modernità e della catastrofe ecologica, nuovi legami possono sorgere, nuovi corpi in movimento possono aggregarsi, sparire, continuare ad attraversare la nostra memoria, e una nuova libertà può nascere: quella di credere, secondo le parole di Gilles Deleuze, in questo mondo qui, nell’irrompere di popoli in movimento che, «secolari e sacri» (Didi-Huberman, Giannari 2019, p. 12), non smettano di profanare l’esistente e trascinarci in un divenire-plebe in grado di resistere nella storia alla storia.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, L’uso dei corpi, Homo Sacer IV, Neri Pozza, Vicenza 2014.
G. Didi-Huberman, N. Giannari, Passare a ogni costo, Casagrande, Bellinzona 2019.
G. Solla, Memoria dei senzanome. Breve storia dell’infimo e dell’infame, Ombre Corte, Verona 2013.
Andrea Cavalletti, Gianluca Solla, a cura di, L’avanguardia dei nostri popoli. Per una filosofia della migrazione, Cronopio, Napoli 2020.