Nel Sestiere di Castello – in Calle San Francesco della Vigna – c’è una palazzina antica che ha una “particolarità straordinaria”: lasciando aperta la finestra della stanza all’ultimo piano e accostando soltanto le persiane esterne, si crea una “camera oscura”. Nell’opposizione tra il chiarore del giorno e il buio della parete, la luce riflessa sul rio proietta sul muro l’ombra luminescente di Venezia, restituendo l’immagine umida di una città che trattiene la memoria di tutti coloro che restano abbagliati dalla sua meraviglia. Inizia così l’ultimo film di Stefano Mordini, tra gli occhi illuminati di Clara (Maya Sansa) e la bocca socchiusa di Marco (Stefano Accorsi), mentre decidono di acquistare questa casa in cui andranno a vivere insieme al loro bambino Leonardo.

Basato sul romanzo You Came Back (2012) di Christopher Coake, Lasciami andare condensa il senso di una perdita con la storia di un ritorno, intrecciando una riflessione sulla permanenza del corpo nella dimensione terrena a quella sui limiti della nostra percezione spazio-temporale. Si tratta di un tema che – nella sua astrattezza – viviamo costantemente nella pratica del ricordo: richiamare alla memoria non significa soltanto elencare nomi, formare immagini, ordinare sequenze, bensì congedarsi dal presente e rientrare in possesso di ciò che è stato nostro in maniera momentanea e difettiva. Il processo attraverso il quale decidiamo cosa conservare e cosa lasciare andare è il principio stesso della vita: risuona in questo stesso gesto il duplice valore del film di Mordini in cui “lasciami andare” è sia un’ingiunzione, sia una preghiera. Chi è che chiede di essere lasciato andare e perché?

Con uno stacco di otto anni dalla prima scena, scopriamo che Marco ha una nuova compagna – Anita (Serena Rossi), dalla quale aspetta un figlio – e che non abita più con Clara nella casa di Castello. Bastano pochi minuti per comprendere il motivo della rottura: Leonardo è morto tragicamente in quella casa per un incidente, come racconta un terzo personaggio femminile – Perla (Valeria Golino) – che raggiunge Marco in un locale per pregarlo di aiutarla a risolvere una situazione piuttosto insolita o, per utilizzare le sue stesse parole, “inquietante”. Marco è turbato e non vuole ascoltarla parlare di quelle “storie che si raccontano sempre qui in città”, quelle storie sulle “presenze nei vecchi palazzi”.

Rientrata in Italia dagli Stati Uniti, Perla ha acquistato la casa di Marco e Clara e, dopo essersi trasferita lì insieme a suo figlio Giacomo di dieci anni, si trova a dover affrontare i disagi psicologici del bambino che inizia ad avvertire la presenza di un altro bambino più piccolo di lui, nella sua stanza. Questo bambino dice che lui e sua madre dovrebbero andarsene perché quella è la casa in cui lui abita insieme ai genitori: è Leonardo che torna, e Perla vorrebbe che anche Clara e Marco tornassero nella loro vecchia casa. Dopo una serie di discussioni – tra Anita e Marco e tra Marco e Clara –, i due si ritrovano di nuovo insieme in quella casa, mentre Giacomo confessa loro che Leonardo vorrebbe riavere indietro Toto, il suo orsacchiotto di peluche. Mentre Clara sembra sollevata e determinata a rintracciare la presenza del figlio, Marco è a disagio e scappa via.

Clara, Anita, Perla. Pur cambiando continuamente la rispettiva posizione, le tre donne che interagiscono con Marco si posizionano in altrettanti punti sulla linea temporale che rappresenta la sua vita, perché Clara è il passato che torna nel presente, Anita è il presente che potrebbe essere il futuro, Perla è lo stillicidio del passato che si proietta come una minaccia sul futuro. Nel film, questa motilità del tempo viene messa a punto e chiarita – in maniera complementare – nel corso di tre scene in cui Carlo incontra tre uomini. In un primo momento, per comprendere cosa è “accaduto” al corpo di Leonardo, Marco si rivolge a suo padre Carlo (Elio De Capitani) che, parlandogli della visione della filosofia orientale per la quale il corpo non è altro che spirito coagulato pronto a convertirsi in energia nel momento della morte, gli consiglia la lettura del Libro tibetano dei morti. Il principio di un movimento di trasformazione, progressione e mutazione che ci caratterizza come esseri nel mondo viene sintetizzato nel passo che Carlo legge, suggerendo in maniera implicita di considerare che la “nostra esistenza si svolge in un tempo indefinito come una catena che raffigura il nostro ininterrotto divenire, il samsara. Tuttavia, questo trovarci noi nel tempo e nello spazio – il Dasein – è l’esplicazione di una sua immanente mutazione, diventa altro da sé, si limita”.

Tra una continuità che di per sé è impossibile da percepire nella sua integrità e la fissità di appartenere a un luogo, a un tempo, a un corpo, si apre lo spazio per fenomeni che non sono di immediata comprensione, come quello delle “onde” illustrato da Zanardelli, un professore di fisica amico di Carlo, con il quale Marco va a parlare insieme a Clara. Secondo le parole dello studioso, “l’attività elettromagnetica che si sprigiona da una persona permane dopo la morte per un certo periodo ma non vuol dire che esistano i fantasmi”, poiché si tratta di un semplice evento fisico. Poi, parlando della struttura del tempo, Zanardelli afferma che – studiando intervalli infinitesimali – i fisici hanno scoperto che la distinzione tra passato, presente e futuro è fluttuante, per cui “un avvenimento potrebbe accadere contemporaneamente nel passato e nel futuro”. Il tempo salta e noi siamo la prova di questo sfasamento: l’ipotesi di una “extra-dimensione che superi il concetto di spazio-tempo così come noi lo percepiamo” sarebbe la garanzia per “fare viaggi e trovarci sempre nello stesso posto […] non solo nello spazio, ma anche nel tempo”.

Infine, c’è l’incontro con Simone (Lino Musella), il medium che mette in collegamento Marco e Leonardo ed è proprio questa connessione che consentirà all’uomo di confessare alla ex moglie qualcosa che riguarda l’incidente. Marco aveva messo in punizione il bambino e lui, per recuperare l’orsacchiotto rimasto sulle scale, si è sporto dalla balaustra ed è precipitato nel vuoto. Questa confessione costituisce il momento di ricongiungimento tra un senso di colpa taciuto e una responsabilità mai assunta: Marco torna nel presente, nello stesso presente in cui – in maniera fortuita – ritrova il giocattolo del figlio in una casa disabitata da anni. Non si tratta di un’apparizione misteriosa perché, come gli ricorda Clara, alla morte di Leonardo, avevano deciso di donare tutte le sue cose in beneficenza; per quanto un evento possa apparire straordinario nella sua casualità, si può sempre fare riferimento a una spiegazione razionale. In fondo, la chiave del film è una frase pronunciata dall’agente immobiliare nella prima scena, cioè nello stesso momento in cui viene spiegato il fenomeno della “camera oscura”: “Nelle carte abbiamo trovato dei documenti dove si diceva che questa casa fosse abitata da delle presenze ma in realtà c’è una spiegazione”.

Mettendo in relazione ognuna delle tre figure femminili con quelle maschili, si riproduce il medesimo schema di contrapposizione e integrazione in cui un fenomeno apparentemente inspiegabile trova una sua razionalizzazione: Anita non vuole che Marco indaghi sulla presunta presenza del figlio nella vecchia casa e decide di trasferirsi dalla sorella quando nota che il suo compagno continua a interessarsi della questione grazie al libro che gli ha prestato il padre; nell’incontro con Zanardelli, Clara trova una conferma di ciò che prova entrando nella stanza del figlio, pur senza poter dimostrare (e spiegare) ciò che sente con le parole; Perla è la prima voce di Leonardo e Simone sarà l’ulteriore testimonianza di qualcosa che resta nella dimensione terrena, nonostante tutto.

Il rapporto tra Marco e Leonardo si sviluppa attraverso ciascuna di queste relazioni, pur senza trovare mai un canale diretto di confronto. È la stessa modalità attraverso la quale lo spettatore si confronta con quanto viene rappresentato: la figura di Leonardo viene descritta nella sua assenza, trovando concretezza nelle parole e nei corpi degli altri, senza mai apparire. Allora, qual è il senso di questo ritorno? Marco è intenzionato a trovare una motivazione diversa e, facendo qualche ricerca su Perla, scopre che la donna è in gravi difficoltà economiche e che ha manipolato una sua conoscente (Gloria, Antonia Truppo) per avere notizie sulla morte del figlio con il solo scopo di liberarsi della casa e risollevarsi dai debiti. Un secondo stacco di un anno, conduce all’ultima scena: Marco torna da Simone e, in una nuova connessione, vede qualcosa che lo lascia con la bocca socchiusa, mentre all’ultimo piano della casa di Castello – in cui ora abita di nuovo Clara – l’ombra di un bambino con il suo orsacchiotto in mano, si proietta sul muro insieme all’immagine di Venezia.

Lasciami andare è, prima di tutto, una richiesta di riconciliazione tra i ricordi, tra quel passato che si fa fatica a dire e il presente che non permette mai di avere un’esperienza della vita che sia in sé e per sé staccata da tutto il resto. Anzi, è proprio nella commistione degli elementi, nella simbolica continuità tra la terra, il cielo, l’acqua e l’aria – favorita da alcune riprese girate durante l’“acqua granda” del novembre 2019 – che si può accedere al senso più profondo della narrazione. L’unione è soltanto la premessa della dispersione.

Riferimenti bibliografici
C. Coake, Sei tornato, Guanda, Parma 2013.
G. Tassini, Curiosità veneziane, ovvero origini delle denominazioni stradali di Venezia, Filippi, Venezia 2009.
G. Tucci, a cura di, Il Libro tibetano dei morti, Rizzoli, Milano 2020.

Lasciami andare. Regia: Stefano Mordini; sceneggiatura: Stefano Mordini, Francesca Marciano, Luca Infascelli; fotografia: Luigi Martinucci; montaggio: Massimo Fiocchi; musiche: Fabio Barovero; interpreti: Stefano Accorsi, Valeria Golino, Maya Sansa, Serena Rossi, Antonia Truppo, Lino Musella, Elio De Capitani; produzione: Warner Bros. Entertainment Italia, Picomedia; distribuzione: Warner Bros.; origine: Italia; durata: 98’.

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