«Nei confronti della Fotografia, ero colto da un desiderio ontologico: volevo sapere ad ogni costo che cos’era in sé, attraverso quale caratteristica essenziale essa si distingueva dalla comunità delle immagini». È con queste parole che Roland Barthes inaugura la sua opera La camera chiara. A partire dall’osservazione di un ritratto dell’ultimo fratello di Napoleone, Barthes si interroga sulla forma complessa e unica di questo mezzo espressivo, che «ripete meccanicamente ciò che non potrà mai ripetersi esistenzialmente». Essa è contingenza pura poiché ci riconduce al qui e ora, alla dimensione presente che la pellicola ha cristallizzato. Una fotografia, spiega Barthes, si trova sempre all’estremità di un gesto, quello del bambino che indica qualcosa col dito. È lì, esattamente lì, che si colloca poiché «essa è interamente gravata dalla contingenza di cui è l’involucro trasparente e leggero». I bordi del fotogramma riescono, almeno apparentemente, nell’impresa impossibile di tracciare i margini del tempo, di ciò che per sua natura non può essere delimitato.
Nel progetto Lanterna Beach del fotografo pugliese Mariano Doronzo, il tema del margine sembra essere la linea sottile che attraversa tutti i suoi scatti. Il primo margine che incontriamo addentrandoci nella Mostra fotografica allestita a La CAVe di Roma, curata da Viviana Costagliola, è quello del luogo in cui questa esperienza ha preso forma: il molo di levante del porto di Barletta, in Puglia, noto anche come “Braccio” per la sua forma allungata. Dal 2015 Doronzo documenta la vita dei bagnanti che frequentano questa striscia di cemento, raccogliendo le storie della comunità che rende ogni giorno e in ogni stagione questo posto un luogo incredibilmente vivo. Il Braccio è margine nel suo essere punto estremo, confine ultimo tra terra e mare. A segnare la fine di questo limite è una Lanterna, che si trova sul piazzale in cui il molo culmina e che dà il nome a questa spiaggia senza sabbia in cui è sempre estate.
C’è poi un secondo margine: il Braccio appartiene da sempre alla Capitaneria di Porto. Frequentarlo, quindi, e avervi creato una realtà parallela, è già di per sé il superamento di un limite, di un confine. In questo desiderio ostinato che da dieci anni anima e alimenta questa ricerca sembra essersi radicato l’eco di un desiderio di ritorno all’origine, a qualcosa di aurorale che ha a che fare con l’infanzia a Barletta, con un tempo perduto che proustianamente cerca di essere recuperato attraverso la fotografia.
Eccolo allora un altro margine che ci viene incontro: l’origine. Confine che delimita il punto di inizio, quello che inevitabilmente da sempre ci appartiene e ci definisce e a cui non possiamo sottrarci. È qualcosa che nella sua essenza rimanda alla definizione che María Zambrano dà del termine Aurora: «Appare, a colui che la attende o la spia, innanzitutto come una linea, come un confine che divide: quella linea che il geometra non riesce a definirci, linea che separa offrendo, creando insieme abisso e continuità».
Altra linea che attraversa Lanterna Beach, oltre a quella del km e mezzo di cemento del Braccio che taglia in due il mare, è quella dell’orizzonte. Lo ritroviamo in uno scatto di Doronzo che vede protagonisti un gruppo di ragazzi immortalati nell’attimo in cui si lanciano in un tuffo che è vitalismo puro. In quest’immagine, che contiene la gioia esplosiva dell’estate, sembra echeggiare l’idea spinoziana della potenza di agire e la lettura che ne diede Gilles Deleuze durante le lezioni che tenne su Spinoza all’Università di Vincennes, raccolte in Cosa può un corpo?.
Potrebbe essere proprio questo il titolo dello scatto. Partendo dal capitolo dell’Etica dedicato agli affetti, Deleuze illustra ai suoi studenti, con esempi estremamente concreti, la differenza abissale tra quando il nostro corpo è affetto dalla gioia e quando invece è affetto dalla tristezza. Nel primo caso, la nostra potenza di agire aumenta, nel secondo caso diminuisce. «C’è qualcuno che quando è innamorato addirittura migliora in latino! È successo anche in questi seminari». Da che dipende? Come si fanno i progressi? Certo essi non hanno mai un andamento lineare, eppure, si tratta di un processo molto concreto, che trova nel tuffo un’espressione perfetta. Deleuze utilizza un’immagine simile per descrivere questo fenomeno: «Gli affetti gioiosi sono come trampolini, possono far superare di slancio cose che, quando si è tristi, sembrerebbero insuperabili».
Lo slancio dei ragazzi è manifestazione di questa pienezza della potenza di agire. Accanto al loro movimento simultaneo, notiamo, sulla destra, la figura di un altro ragazzo che segue il gruppo, anche lui pronto a tuffarsi. Ma, a differenza degli altri, viene colto nella corsa e non ancora nell’atto di gettarsi in acqua. Sembra quasi la sovrapposizione di fotogrammi diversi. Nell’allestimento della Mostra, poi, la sensazione di vedere la fotografia trasformarsi in una vera e propria immagine-movimento è ancora più forte grazie alla scelta di proiettare, alla fine del percorso, le riprese realizzate da Chiara Talarico al Braccio in diversi periodi dell’anno.
Dopo un’immersione profonda in un percorso fotografico interamente in bianco e nero, di fronte alle scene a colori, avvertiamo la forza di questo contrasto. È come passare dalla dimensione del ricordo a quella reale del presente. E così anche a noi sembra finalmente di poterci tuffare insieme a quei ragazzi. Nella foto che li ritrae si avverte la dimensione collettiva di questo gesto. I loro corpi ci appaiono perfettamente simmetrici. In particolare, un ragazzo ha le ginocchia incastrate nella linea dell’orizzonte. Il modo in cui il suo corpo e il mare s’incontrano ci riportano a uno scatto del fotografo Nino Migliori, il quale, nell’estate del 1961, immortalò a Rimini dei ragazzi che giocavano sul molo e facevano a gare di tuffi. Il risultato è la fotografia intitolata Il tuffatore. Qui, accanto al movimento preciso e saettante dell’uno, si oppone il corpo immobile di un altro ragazzo, il fratello, che se ne sta seduto con la testa abbassata, quasi a ripararsi da tutta quella velocità che gli esplode accanto. È questo a rendere la composizione perfetta. Qui ritroviamo quella differenza spinoziana tra diminuzione e accrescimento della potenza di agire. Il primo corpo è totalmente affetto dalla gioia del lancio, l’altro invece sembra sprofondare nella tristezza, quasi come se l’uno servisse a sorreggere quello dell’altro. Anche nello scatto di Doronzo il ragazzo che corre, ultimo della fila, ci appare come l’origine del movimento degli altri, la prima biglia scagliata che resta indietro, ma senza la quale le altre resterebbero ferme.
C’è anche un altro aspetto in comune tra i due fotografi: Doronzo, come Migliori, per il suo progetto fotografico Lanterna Beach utilizza una Rolleiflex 6×6 a pozzetto, ma non nello scatto dei ragazzi che si tuffano, che invece è stato realizzato con un’Olympus 35mm. La scelta della Rolleiflex ha un significato particolare, racconta Doronzo: «Ti permette di scattare tenendo la macchina all’altezza del bacino senza così infastidire troppo il soggetto. In questo modo, chi viene ritratto è più spontaneo e meno condizionato. Con il tempo, poi, ho capito che così mi adeguavo al punto di vista di un bambino, osservando questi bagnanti come fossero dei giganti. C’è questo desiderio di entrare a far parte del loro gruppo, come quando sei bambino e vuoi appartenere al mondo dei grandi».
L’immagine del bambino ci riporta a quella usata da Barthes all’inizio de La camera chiara, a quel gesto che lo spinge a indicare il qui e ora, il contingente. E così, il fotografo, attratto da ciò che gli sta di fronte – da questa comunità che abita un luogo tanto intensamente da trasfigurarlo, ci indica, attraverso i suoi scatti, un presente che non può essere veramente afferrato se non da chi ogni giorno si concede il piacere e il godimento di vivere la propria esistenza in un tempo fuori dai margini come in un’eterna estate.
Mariano Doronzo. Lanterna Beach, mostra a cura di Viviana Costagliola, La CAVe – Cantiere delle Arti Visive, Roma, 11 Ottobre 2024 – 17 Novembre 2024.