
Dopo Jacques Lacan e il trauma del linguaggio (Galaad 2011) e Il sintomo di Lacan (Galaad 2016), con Lacan al presente (Galaad 2020) Alex Pagliardini dà luogo ad una Trilogia del reale che si presenta come la punta più avanzata, cioè più radicale, della riflessione teorica lacaniana in Italia. Per parafrasare la nota sartriana che Pagliardini pone come esergo del capitolo intitolato Non c’è analisi senza angoscia (Pagliardini 2020, p. 413), verrebbe da dire che se in questi lavori c’è qualche “sbaglio”, dipende sempre e solo dal fatto che, in qualche punto, non hanno ancora saputo essere abbastanza radicali.
In generale, il compito che si è dato Pagliardini è quello di prospettare, come annuncia il sottotitolo dell’ultimo libro, una “clinica del reale”, ovvero una “clinica dell’Uno” (fondata sull’insegnamento degli ultimi seminari di Lacan), senza tuttavia abbandonare la clinica del simbolico, o “clinica dell’Altro”, che costituisce il nucleo più tradizionale e più noto della dottrina e della pratica lacaniane. Compito, questo, non dei più semplici, se è vero (come Pagliardini stesso non manca di notare a più riprese) che l’ultimo Lacan, ponendo le condizioni per una clinica del reale, sembra letteralmente invertire la direzione propria di una clinica del simbolico.
Se, ad esempio, la clinica del simbolico si fonda sul presupposto per cui di reale ce n’è sempre troppo, la clinica del reale suggerisce invece che di reale non ce n’è mai abbastanza; detto altrimenti: se nella prima, il compito dell’analisi consiste innanzitutto nel “raffreddare” il nucleo incandescente del reale che causa il sintomo, per riuscire a riprenderlo nelle maglie del simbolico, nella seconda, viceversa, si tratta di rendere ineffettuali le risposte che vorrebbero mettere al riparo dal reale, dato che è proprio e solo in quelle risposte che viene identificata la causa del sintomo. Ancora: se nella clinica dell’Altro si tratta di «produrre il soggetto, cioè di altrificare e alterizzare la fissazione, la fissità dell’Uno» (ivi, p. 224), nella clinica dell’Uno si tratta all’inverso di «destituire il soggetto» (ivi, p. 226), affinché possa avvenire l’incontro con il reale fuori simbolico. Infine: se nella clinica dell’Altro si ha ancora a che fare con l’universale, dunque con il rapporto a un modello di normalità, la clinica dell’Uno «non ha a che fare con l’universale», ed è dunque «una clinica separata dalla possibilità del deficit e dal peso della diagnosi» (ivi, p. 228).
Ma ciò che più conta, almeno ai nostri orecchi (che non sono quelli dell’analista), è come, alla distinzione di queste due cliniche, corrisponda una distinzione nel modo di concepire l’istanza etica della psicoanalisi. Tradizionalmente, di etiche della psicoanalisi se ne possono distinguere almeno due — e rispetto ad entrambe sembra che un’etica del reale si presenti come inconciliabilmente alternativa.
La prima etica — che si dirà più propriamente una morale e che governa per lo più le psicoterapie (in quanto distinte dalla psicoanalisi “vera e propria”) — si fonda su una pratica che intende alleviare i disturbi, le sofferenze, i sintomi del paziente, attraverso la fortificazione delle sue difese, solidificandone l’Io in modo che possa svolgere al meglio i propri compiti (quelli cioè che le sue condizioni individuali e sociali gli impartiscono).
La seconda — che è probabilmente la più diffusa, specialmente tra gli psicoanalisti lacaniani — consiste nel dire che la pratica analitica ha il compito di rianimare il soggetto del desiderio, di riannodare il desiderio e il soggetto, in modo che la mancanza costitutiva di quest’ultimo non sia riempita in modo fittizio (da una cosa o dai suoi fantasmi), ma funzioni come elemento creativo, responsabilizzante e individualizzante.
L’etica del reale che ci pare emergere con chiarezza e precisione dal lavoro di Pagliardini si distingue da queste due prime istanze, in quanto afferma che l’analisi ha come suo compito di portare l’analizzante ad assentire al reale e al godimento che lui stesso è, secondo la presupposizione generale per cui ogni sintomo non è che la manifestazione di una resistenza al godimento reale. È a partire da questo principio di fondo che Pagliardini sviluppa i dettagli di una clinica alternativa. Soprattutto a due tra questi ci interessa fare riferimento, perché ci sembrano quelli che ancora tengono la clinica del reale legata a certi presupposti della clinica dell’Altro.
Se è vero, come abbiamo accennato, che l’opposizione della clinica dell’Uno rispetto alla clinica dell’Altro si fonda sul fatto che nella seconda il reale è sempre nel simbolico, cioè in rapporto con il simbolico, mentre nella prima si tratta di un reale fuori simbolico, dunque di un reale in sé, senza rapporto all’Altro, è altrettanto vero che nel percorso di Pagliardini questo reale in sé conserva ancora una traccia, pur minimale, del simbolico. Il reale in sé resta infatti un “trauma” e resta un significante (sebbene un significante separato da qualsivoglia significato). Più precisamente, Pagliardini distingue il marchio significante che costituisce l’essere del reale nell’Altro, e che è quanto fa il trauma proprio del soggetto, dalla marchiatura, cioè dal trauma in sé, che si distingue dal marchio per il fatto di essere impersonale e per il fatto di essere sempre in atto, ma che resta al contempo qualcosa che ha a che fare con il significante, ovvero con la langue (vedi le spiegazioni a dire il vero piuttosto reticenti addotte alle pagine 272-273).
In secondo luogo, se è vero che una clinica dell’Uno si distingue da una clinica dell’Altro per il fatto di non considerare più il reale come punto d’impossibilità, ovvero come ciò che si situa in posizione di esclusione rispetto all’ordine simbolico, e di considerarlo invece come ciò che «non manca di niente» e che è «sempre soddisfatto», è altrettanto vero che anche questo reale (come mostrano i termini con cui Pagliardini lo descrive: atto, urto, colpo, taglio, trauma), continua a essere inteso come un accadimento (per quanto come un accadimento che si ripete senza sosta). Si precisa, certo, che non si tratta qui dell’evento dell’iscrizione del linguaggio, cioè dell’Altro, sul corpo vivente, ma dell’evento dell’iscrizione in quanto tale, ma non è detto che questo cambi radicalmente le cose. Che cosa distingue infatti un accadimento, che pur si ripete in ogni istante, da uno stato che è costantemente, se non il fatto che il primo, in verità, è discontinuo, cioè in taluni momenti non c’è?
Nonostante questo “attualismo”, il percorso di Pagliardini giunge a dare della psicoanalisi l’immagine di una pratica dell’immanenza che mira a produrre non soggetti assoggettati all’inconscio, all’Altro e al suo desiderio, ma soggetti che divengono capaci di accedere al reale della propria vita solo in quanto si sono destituiti come soggetti, solo, cioè, in quanto si sono identificati al tratto qualsiasi (vedi pp. 406-407) che costituisce la loro essenza attuale — un tratto che è al contempo singolare (non particolare) e impersonale (non universale).
È questo il punto decisivo, perché porta l’etica della psicoanalisi lontana dalle morali umanistiche, avvicinandola invece ad un’etica che non pretende dall’essere umano se non che sia, di volta in volta, ciò che è, e che non rifugga l’unico bene supremo a cui può legittimamente aspirare: la fruitio essendi, cioè quella semplice affermazione del proprio essere, quel piacere puro che Spinoza chiama anche acquiescentia in se ipso.
Alex Pagliardini, Lacan al presente. Per una clinica del reale, Galaad, Giulianova 2020.