La tracotanza dell’essere umano si esprime in forme varie e devastanti. Tra queste, una delle più emblematiche è quella che porta l’individuo a credere di essere causa determinante (e talvolta decisiva) delle sorti del mondo intero. La critica a questo sentire sembra essere, in essenza, lo sfondo e il contesto narrativo all’interno dei quali si articola “la vita di Chuck” (Charles) Krantz, personaggio del racconto omonimo di Stephen King e soggetto dell’adattamento cinematografico di Mike Flanagan (alla sua terza resa di un testo di King dopo Il gioco di Gerald, 2017 e Doctor Sleep, 2019). Chiarisco subito un punto per evitare possibili fraintendimenti in corso di lettura: non c’è qui alcuna volontà di negare che l’umano concorra – con la sua sola, e a volte passiva, presenza – a modificare lo stato naturale del mondo; piuttosto, si tratta di osservare che la sua influenza è del tutto risibile se rapportata alla incomprensibile indole della Terra che, “agendo” secondo schemi non riportabili ad alcuna razionalità, scompiglia quella capacità di previsione che l’umano vorrebbe sempre rivendicare come sua prerogativa. Senza negare l’importanza di una soggettività che avverta la responsabilità delle proprie azioni, occorre quindi anche abituarsi a considerare che un pensiero centrato esclusivamente sull’efficienza dell’io è quasi ridicolo: non c’è alcuna possibilità di comparazione tra la Terra e l’umano che, abitandola, tende a trasformarla in un mondo. Anzi, in una moltitudine di mondi.

Walt Whitman, citato da King nel suo racconto e richiamato da Flanagan, è categorico al riguardo: «Il passato e il presente avvizziscono – io li ho riempiti, svuotati, / e mi preparo a riempire la prossima piega del futuro. […] Mi contraddico? / Va bene, e allora mi contraddico / (sono vasto, contengo moltitudini)» (Whitman, pos. 32). Per emanciparsi dall’esperienza di un solo mondo (un solo tempo, un solo spazio), l’unica salvezza è professare la contraddizione, quell’incoerenza che spesso diventa bersaglio di coloro che rivendicano per se stessi il transito del corpo su una linea retta che sia tanto direzione quanto percorso: un segno di esistenze singole senza peccato alcuno, quando invece è la contraddizione – cifra della moltitudine – a garantire il passaggio da un tempo all’altro, fino al tempo che non si è ancora vissuto. Mentre il passato “avvizzisce” come il presente, il futuro è già scorto e dimenticato nell’angolo convesso e stretto della vita, e questo soltanto resta da ricordare. Riecheggiando un adagio da non dimenticare, chiedersi “che fare?” è già tentare di abitare lo spazio di questa contraddizione. Non è, del resto, trascurabile il fatto che Flanagan abbia deciso di inserire le parole di Whitman nella prima scena del suo adattamento, a testimoniare così la potenza di un pensiero che è in grado di contraddire se stesso e, in questo atto, di essere capace di smuovere il corpo dal centro in favore di un suo nuovo posizionamento nella marginalità plurale della moltitudine.

Il corpo di Chuck – reso “stella danzante” dalla plastica ed elegante presenza di Tom Hiddleston – viene rivelato a poco a poco nel film attraverso una serie di indizi distribuiti in un percorso a ritroso che si dipana dal terzo atto (“Grazie, Chuck!”) del racconto, fino al primo (“Contengo moltitudini”), passando per il secondo (“Artisti di strada per sempre”). La struttura narrativa – del tutto aderente a quella adottata da King – nel film viene impreziosita da alcuni elementi ricorrenti (la casa, i film, la musica, la scuola, il letto d’ospedale) che non solo segnano una continuità tra i tre tempi della linearità (il presente per il primo atto; il passato per il secondo; il futuro per il terzo), ma stabiliscono un dialogo possibile tra diversi personaggi che si scontrano in un tempo, dimenticando poi di aver interagito nel tempo precedente o successivo. È questo, ad esempio, il caso di Marty Anderson (Chiwetel Ejiofor), il primo a osservare un volto che campeggia su un curioso cartello, posto alla sommità dell’edificio in cui si trova la Midwest Bank, in cui appare la scritta “Charles Krantz. 39 great years! Thanks Chuck”. Marty non riconoscerà mai nella foto il volto di un ragazzo che aveva frequentato la scuola media in cui lui attualmente è ancora in servizio. Si limiterà a osservare che l’uomo sorridente, «con la camicia bianca e la cravatta scura», corrisponde all’«incarnazione perfetta del contabile» (King 2020, pos. 111) o, facendo riferimento a un altro passo del testo, all’«incarnazione dell’America bianca, disciplinata e alla perenne ricerca del profitto» (ivi, pos. 126). Ci sono però due elementi inquietanti che turbano la serenità di quel volto nella percezione di Marty: parlando al telefono con la ex moglie Felicia (Karen Gillan), l’uomo scopre che a Chuck è stato dedicato anche uno spazio celebrativo sull’unica emittente radiofonica attiva; poco più avanti, lo stesso manifesto è l’ultima immagine che appare prima che le trasmissioni televisive si interrompano per sempre.

La dimensione distopica del racconto, a cui finora non si è volutamente fatto riferimento, rimanda a uno scenario in cui, a causa di catastrofi naturali (eruzioni vulcaniche, terremoti, ondate di calore), la Terra scompare un pezzo alla volta. La trasformazione dell’ambiente è causa anche dell’impossibilità di ricorrere alle infrastrutture di comunicazione (Internet, linee telefoniche e di trasmissione televisiva), di trasporto e di pubblico servizio. Il volto di Chuck, da sconosciuto, diventa l’unica immagine resistente alla distruzione della Terra, fino a quando non si spengono tutte le luci delle città e su ogni finestra appare il contorno iridescente della sua figura, che è minaccia, presenza e garanzia della fine. Ecco che quindi il ringraziamento rivolto a Chuck (che muore) è il ringraziamento alla Terra (che sparisce) con tutti i suoi abitanti, cioè con tutte le moltitudini di mondi che sono l’umano. Ma Chuck non è (solo) un universale, egli è anche corpo, il corpo di un uomo che sta perendo a seguito di un tumore al cervello che in nove mesi lo porterà alla morte: una gestazione al contrario per un’esistenza che vive nella contraddizione tra finito e infinito. A questo proposito, sono illuminanti le parole di King nella scena in cui il cognato di Chuck cerca di spiegare al nipote Brian perché suo padre Chuck sta morendo:

«Il cervello umano è per sua natura finito – non è altro che una massa di tessuto spugnoso racchiusa in una gabbia di ossa –, ma la mente che vi dimora è infinita. Le sue possibilità sono illimitate, e la sua forza immaginativa va ben oltre ogni nostra capacità di comprensione. Per come la vedo io, quando un uomo o una donna muoiono va in rovina un mondo intero, il mondo che quella persona conosceva, e nel quale credeva. Pensaci, Brian: ci sono miliardi di esseri umani sulla terra, e ognuno di loro ha un mondo intero dentro. Il pianeta come è stato concepito dalla sua mente».
«E ora il mondo di mio padre sta morendo» (King 2020, pos. 115).

Come emerge bene dall’estratto, la preoccupazione umana nei confronti del “proprio” corpo e del “proprio” mondo – entrambi da intendersi quali luoghi da abitare – è perlopiù motivata dal pensiero della morte o dal fatto che presto potranno scomparire le condizioni che rendono possibile la vita umana. Detto altrimenti, l’affermazione reiterata di un io che, compiendo azioni, sarebbe in grado di determinare a sua discrezione lo stato di benessere o malessere della Terra, ha neutralizzato qualsiasi possibilità di considerare quell’altro da sé che si esprime nella moltitudine di mondi di cui si è costruttori. C’è però una possibilità di comprendere e disinnescare questo meccanismo, rivolgendosi ai linguaggi dell’arte e, in questo caso specifico, alla congiunzione tra letteratura e cinema che, solo in alcuni casi notevoli come questo, riesce a produrre una forma di risonanza tra linguaggio e immagine. Nel cartellone in cui appare il volto di Chuck, trentanove è il numero che segna il limite ultimo in cui l’uomo troverà la sua morte, ma è l’aggettivo “meravigliosi” a dare il senso di una storia plurale che non si assesta nella forma di un racconto per consegnarsi come esperienza. Per tornare alla composizione di Whitman, la vita del singolo è già una forma di relazione che si articola sotto forma di una serie di domande: «Mi concentro su chi mi è vicino, aspetto sulla soglia. // Chi ha concluso la sua giornata di lavoro? chi ha quasi finito la cena? / Chi ha voglia di camminare con me? // Parlerai prima che io me ne vada? / o vuoi provarci quando sarà già troppo tardi?» (Whitman 2020, pos. 32). È questo il richiamo nei confronti di una vita che possa sempre dirsi piena nell’affermazione di un incontro in cui la moltitudine è l’unica cifra di un riconoscimento possibile, prima della fine.

Se riletta alla luce delle teorie del calendario cosmico pensate da Carl Sagan e richiamate da Flanagan attraverso i personaggi di Marty e del nonno di Chuck (Ambrogio Colombo), la presenza umana sul pianeta Terra dura poco meno di due ore: la compressione dei quindici miliardi della storia dell’universo in un solo anno solare mostrerebbe che la cronaca documentata non dura che dieci secondi nell’economia del tutto e che, proprio nel tempo in cui Chuck sta morendo e Marty e Felicia stanno parlando, si sta consumando l’ultimo millisecondo dell’ultimo minuto, dell’ultimo giorno, dell’ultimo mese, prima della fine. Ora, questo istante infinitesimale si può imparare ad abitare a passo di danza, come suggerisce Chuck che, guidato dalla nonna Sarah (Alessandra Korompay), inizia da bambino a muoversi senza lasciare traccia dei suoi passi, dopo aver imparato le tecniche osservando i corpi musicali di Cover Girl (Vidor 1944), Singing in the Rain (Donen, Kelly 1952), West Side Story (Wise, Robbins 1961) e Cabaret (Fosse 1972).

Nella sequenza apicale che si trova nel secondo atto del film, vediamo Chuck che, all’improvviso e senza alcun motivo, inizia a muovere i fianchi e le braccia, richiamato dal ritmo di una batteria suonata da un’artista di strada: il ballo di Chuck, così come messo in scena da Flanagan, sintetizza il movimento di nascita, crescita e morte di ciascun individuo, cioè dei mondi infiniti che è in grado di ospitare nel suo corpo finito. Ma esso è anche il riassunto delle due ore scarse di vita dell’uomo sulla Terra (quelle quasi due ore che fatalmente corrispondono alla durata del film stesso). Cha cha, jive, valzer, swing, samba: i piedi di Chuck fanno risuonare la Terra, restituendo il ritmo (amico) e frenando il pensiero (nemico), fino a completare gesti e passi nell’incontro con il corpo di Janice (Annalise Basso). Il punto è questo: imparare a capire quando muoversi e quando fermarsi, ma anche imparare ad abitare la sospensione dell’attesa fino all’interruzione dei tempi. In quest’“attesa”, cioè nella dimensione che King evoca riferendosi all’ultima delle cinque fasi del dolore elencate nel modello Kübler-Ross (assenza che viene, quindi, preceduta dalla negazione, dalla rabbia, dalla contrattazione e dalla depressione), si può infine imparare a dimenticare che ogni infinito è inscritto nel finito, sperando solo di far ballare il corpo a tempo con una musica perché «quello è il motivo per il quale Dio ha creato il mondo. Quello, e nessun altro» (King 2020, pos. 135).

Riferimenti bibliografici
S. King, Se scorre il sangue, Mondadori, Milano 2020.
W. Whitman, Contengo moltitudini, Ponte alle Grazie, Milano 2020.

La vita di Chuck. Regia: Mike Flanagan; sceneggiatura: Mike Flanagan; fotografia: Eben Bolter; montaggio: Mike Falanagan; musica: The Newton Brothers; interpreti: Tom Hiddleston, Karen Gillan, Samantha Sloyan, David Dastmalchian, Mark Hamill, Matthew Lillard, Molly C. Quinn, Jacob Tremblay, Mia Sara, Chiwetel Ejiofor; produzione: Intrepid Pictures, Red Room Pictures, QWGmire; distribuzione: Eagle Pictures; origine: Stati Uniti d’America; durata: 110′; anno: 2025.

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