Stando al liberto Epitteto, tutto ciò che viene dall’esterno – o che, di converso, s’illude di avere in altro la propria ragione – è ciò che non possiamo né modificare, né, a ben vedere, conoscere, poiché inesorabilmente fuori dal nostro raggio d’azione. Se, urtandoci, una tale esteriorità ci causa dolore o frustrazione, è precisamente per questa sua natura chimerica. Lungi dal rivendicare un intimismo anacronistico, l’antico monito custodisce un segreto: a un tempo emancipazione dal pathos della privazione e invito ultimo alla libertà. Libertà che, s’intende, non ha nulla a che fare con l’arbitrio umano, ma solo con la conoscenza, «con il rapporto a sé e alle cose», laddove si tratta di alleggerirci dalle cattive opinioni eliminando «l’opacità che separa un soggetto dalle proprie azioni» (Dattilo 2022) e vedendo, anzitutto, che il nostro agire non si produce mai in virtù di un fine estrinseco, di un presunto frutto dell’azione che non è né nostro diritto, né nostro potere cogliere.
La vita che vive, libro di Emanuele Dattilo (Neri Pozza, 2022), segue di un anno l’esordio Il dio sensibile, inscrivendosi nel piccolo movimento di riscoperta della metafisica, ancorché frammentato e involuto, all’interno dello scenario filosofico nostrano. Il nuovo lavoro prosegue l’opera di rivisitazione del platonismo avviata nel precedente, presentandosi in una veste più svelta e concisa: i suoi ventiquattro brevissimi capitoli esprimono, sin dalle prime pagine, una certa reticenza al genere saggistico e al canone accademico, evinta, ad esempio, dall’assenza o quasi di notazioni e riferimenti critici, e dall’abbondanza invece di linee di fuga letterarie (Daumal, Jarry, Ortese, Freud…). Il nodo teorico, ad ogni modo, è il medesimo del dio: riabilitare il nome del panteismo, inteso non già come «un’identità statica tra Dio e mondo», e neppure come una dottrina teologica, bensì come un rigoroso «tentativo di risolvere i dualismi che ogni volta il linguaggio genera, le distinzioni di ragione a cui viene attribuita sostanza» (ivi, p. 60).
Sin dal raddoppiamento del titolo, la riflessione invita a una torsione, un ripiegamento sul posto dovuto alla natura sfuggente e tautologica del tema: già Aristotele (Metaph. 1072b 26-27), dopo tutto, definendo la «vita» come l’energheia della mente, convocava una qualche «forza grazie alla quale le cose si mantengono nel loro essere, […] la vita stessa, il fatto di essere vivi» (p. 44). Tale appare ancora, alle soglie della modernità, la natura ultima del conatus, nel nobile lignaggio tracciato nel testo, dalla philautia bruniana, all’appetitus sese conservandi di Telesio e Campanella, fino all’élan bergsoniano, ricondotto etimologicamente a un atto di «mettersi in cammino», «intraprendere», «tentare», quindi rilevando l’«impulso elementare a saggiare il mondo» proprio di ogni forma di esperienza. Una simile tensione originaria, tuttavia, pare assumere diverse maschere a seconda dei piani prospettici entro i quali la si collochi, designando in primis il paradosso di un movimento assoluto: il punto di insorgenza del moto da cui si dipanano le serie del divenire, simile all’endeavour hobbesiano (De corpore, XV, 2) o all’istante estemporaneo della fisica aristotelica. Da qui la biforcazione in due concetti opposti, entrambi a proprio modo cruciali nella modernità: l’inerzia meccanica e uniforme da una parte; la vitalità di una generazione perpetua, dall’altra.
Nella ricognizione di Dattilo il conatus nomina «l’esperienza semplicissima e assieme la natura singolare» di ogni cosa, ovvero, nelle parole di Spinoza, l’essenza della cosa stessa (ipsius rei actualem essentiam: Eth. III, 7). Se, prima ancora di «tendere a», tutte le cose semplicemente tendono, non essendo altro che tendenze, come già Leibniz aveva intuito, allora tra il motore e il mobile, tra la cosa e il suo conato, non sussiste doppiezza, ma va rivendicata una solidarietà inscindibile: «Siamo mossi da qualcosa, e nondimeno il movimento è nostro» (ivi, p. 38). Ed è dal rapporto con questa pulsione fondante, o meglio dalla conoscenza di tale rapporto, che si dispiega l’intera etica spinoziana: un’etica inflessa sulla rappresentazione inesorabilmente duplice di ciò che ci muove, le passioni, come radici di ogni virtù e al contempo di conoscenza imperfetta.
Nel corso dell’argomentazione, Dattilo enumera diversi generi di opacità conoscitiva: quella etica che intercorre tra un soggetto e le sue azioni, quella fisiologica tra una coscienza e il suo corpo, quella sociale tra un soggetto e l’altro, o quella metafisica tra un’esperienza e ciò che la consente. Viene indicato, invece, un solo tipo di trasparenza: l’apparire dell’opacità in quanto tale, del punto cieco stesso, che solo allora inizia a rischiararsi allo sguardo della ragione. Perché ciò avvenga, perché la liberazione dai fantasmi si realizzi, Spinoza ci educa a una ragione di tipo superiore, che si astiene dall’attribuire realtà agli oggetti di «conoscenza inadeguata»: il male (Eth. IV, 64), la morte, gli enti di ragione puramente privativi che impregnano e orientano il mondo delle opinioni. Occorre, in altre parole, sbarazzarsi di ogni determinazione negativa, origine della nostra impotenza etica (pp. 93-94), e indirizzarsi invece al desiderio diretto del bene, sebbene per tramite di una doppia, paradossale negazione.
La conoscenza chiara e distinta dell’Etica promette la liberazione da due principali «superstizioni morali», reciprocamente contrapposte e ugualmente perniciose: «La schiavitù di chi è costretto da necessità, e la libertà di chi è sovrano su se stesso» (p. 17), destituendo a un tempo la morale del controllo e quella dell’abbandono passivo. Una tale chiarezza illumina, infatti, la coincidenza delle polarità attivo-passivo: «Essere affetti» e «agire secondo la propria natura», ciò che ci accade e ciò che siamo, in breve, non possono mai essere due (p. 101). Da qui la predilezione di Dattilo per tutta una famiglia di pensatori della materia che, come David di Dinant o Cusano, compresero l’unità primitiva di ricettività ed essenza.
Su questo punto, tuttavia, si iscrive il fraintendimento grossolano che vede in Spinoza un pacifico sostenitore dello status quo, nella misura in cui, rimuovendo ogni iato tra essere e potenza, invita a conoscere e desiderare «solo ciò che si è». Ma una tale etica superiore, a di là del bene e del male metafisici, non implica alcuna quiescenza all’ordine costituito (basti vedere le vite travagliate di Bruno, Spinoza, Nietzsche), destituendo invece di ogni legittimità il potere umano, la cui fondazione risulta immancabilmente fallace. Il giudizio nietzscheano, in questo senso, rimane inossidabile: qualunque morale «metafisica» – astrattamente normativa, troppo umana – nasconde all’essere vivente la propria normatività intrinseca, consegnandolo all’infelicità suprema che è l’ignoranza di sé.
Sebbene azioni buone e malvagie, pensieri rivolti a Dio o all’esistenza terrena, abbiano certamente una medesima causa e una medesima necessità, l’etica spinoziana non tollera alcun relativismo, nella misura in cui la modalità di esperienza di questa stessa necessità produce esiti radicalmente opposti, che «differiscono gli uni dall’altro, non soltanto di grado, ma anche di essenza». Il bene e male reali riguardano insomma un cattivo uso della propria natura, del proprio conato. In questo senso, la differenza etica potrebbe leggersi persino come una sorta di differenza estetica: tra virtù e vizio, beatitudine e infelicità, vi è la stessa distanza essenziale che intercorre tra un’azione affettata o leziosa e un’azione sprezzata, spontanea, che lascia trasparire la natura di chi la compie.
Nell’articolazione della propria necessità risiede allora la chiave di accesso alla conoscenza di terzo genere, supremo conatus della mente (Eth. V, 25): per conoscere le cose singole, la peculiare laetitia di tutto ciò che è e diviene, occorre non confondere più la morale con l’essere, le cause con gli effetti. Se, come in Nietzsche, la felicità è causa della virtù, come la leggerezza divina è una conseguenza della gioia, il paradosso della conoscenza di terzo genere – generare sub specie temporis l’idea di Dio, quindi la propria – si avvolge attorno a una soggettività che assume liberamente su di sé l’intera macchina dell’essere come un destino, rispetto al quale la perfezione del proprio stato è appunto una causa, non un fine. La questione è chiarita ulteriormente nei capitoli finali (22 e 23), laddove emerge il carattere «teatrale» della conoscenza e la messa in scena del soggetto: la mente finge che la perfezione si aggiunga a poco a poco, come qualcosa che prima non c’era, sebbene l’esperienza sia a tutti gli effetti uno stato, non un processo (p. 113). La catarsi conoscitiva appare come una trama, un’explicatio che ha luogo «come se soltanto ora cominciasse» (Eth. V, 31, scol.), ma difatti è ben salda, come ogni cosa, nella propria trasparenza originaria, cioè nella pura e semplice vita nella quale «sentimus, experimurque, nos aeternos esse» (Eth. V, 23, scol.).
Essere uno con il proprio conato, la propria tensione, la propria necessità – farne virtù: questo il compito etico definito da Spinoza e indagato da Dattilo. Una virtù, ben inteso, che non può mai limitarsi a un agire impulsivo (che, come l’opinione errata, conduce all’infelicità), aprendoci invece a un agire «secondo ragione», epurato dal tarlo dell’esteriorità, dalla primissima opacità che intercorre tra il soggetto e il suo gesto. L’etica «panteista», per come la delinea Dattilo, sta in fondo tutta in un’inversione di senso, un cambio di polarità della passività del gesto, capace tuttavia di trasfigurare l’intera serie delle cause e degli effetti e di istallare un circolo virtuoso «leggero, necessario, libero», cioè una necessità divenuta finalmente virtù.
Emanuele Dattilo, La vita che vive, Neri Pozza, Vicenza 2022.