La traviata di Sofia Coppola andata in scena in questi giorni al Teatro dell’Opera di Roma è uno spettacolo che rappresenta un segno dei nostri tempi. Questo non tanto e solo per la riuscita della messinscena, per certi versi problematica o comunque non perfettamente compiuta, quanto per le critiche e le polemiche che le sono piovute addosso già alla sua prima apparizione e ancora recentemente dopo la ripresa di quest’anno. Uno spettacolo che “ha poco da dire”, “senza genio”, una semplice operazione “popolare” (come se fosse un demerito) o di “repertorio”, adornata e abbellita grazie allo sfarzo e alla ricchezza dei mezzi produttivi. Di questo tono, molto schematicamente, sono state le considerazioni apparse nella quasi totalità delle riviste di settore e sui quotidiani nazionali e internazionali.
Quello della Coppola, sia detto a scanso di equivoci, non è uno spettacolo perfetto. Verosimilmente – e comprensibilmente – intimorita dalla sua prima esperienza operistica, l’artista americana ha scelto di percorrere un registro registico piuttosto misurato, affidando gran parte della forza teatrale della messinscena agli straordinari costumi di Valentino e alle altrettanto maestose scenografie di Nathan Crowley. Una regia quindi per molti aspetti assoggettata ai propositi spettacolari dei suoi collaboratori – in particolare di Valentino, vero e proprio promoter e organizzatore della produzione – e che in alcuni passaggi mostra senza equivoci la volontà di corrispondere alle richieste di un pubblico composto dallo star-system cinematografico internazionale a cui lo spettacolo per certi versi si rivolgeva.
Ma il punto non è questo. Probabilmente impossibilitata a operare un reale scarto registico rispetto alla drammaturgia verdiana, Sofia Coppola ha deciso, con una scelta di per sé encomiabile nella sua prudenza, di rispettare alla lettera il testo dell’opera, giocando sul carattere popolare del capolavoro verdiano, e implicitamente riallacciandosi a una tradizione che soprattutto in Italia, da Luchino Visconti in poi, ha letto La traviata come un grande melodramma psicologico in cui sono già in essere quei tratti tipici del dramma borghese che caratterizzeranno il decadentismo teatrale europeo.
Compiendo un’operazione per certi versi anomala rispetto agli straordinari esperimenti postmoderni del suo cinema (si pensi in particolare alla Marie Antoinette del 2006), e denunciando sin dall’apertura del sipario la volontà di non rinnovare o rileggere l’opera di Verdi secondo prospettive metateatrali o neoavanguardismi sperimentali – dai ricchi saloni della casa parigina con ampie vetrate e una grande scala di marmo con cui costruisce la festa del primo Atto, alla veranda della casa di villeggiatura di Violetta del secondo, con magnolie e voliere che ricordano direttamente quelle di Visconti alla Scala nel 1955, fino alla buia camera del terzo Atto sul cui letto Violetta trova la morte nel finale – Coppola ha di fatto messo la regia al servizio del testo e dello spettatore.
In altre parole, ha pensato la sua prassi registica come un momento di mediazione tra lo spettatore e l’opera, dando corpo ad un’equivalenza immediata tra piano musicale e piano teatrale, quasi che il suo fine fosse produrre un’esperienza sintetica in cui l’atto dell’ascoltare, che in un’opera famosa e popolare come La traviata produce anche in uno spettatore generico un immaginario già ben codificato e formalizzato, fosse immanente a quello della comprensione della sua rappresentazione plastica. Detto ancora diversamente, ha costruito una prassi scenica che fosse perfettamente coerente con ciò che l’ascolto di un’opera come La traviata è in grado di generare in termini di astrazione dell’immaginazione, facendosi carico e lavorando su una grammatica visiva già depositata e ben decantata in un’eredità storica e culturale e, allo stesso tempo, abbellendola e ornandola in modo non banale – coerentemente ad una produzione ricca e volutamente esposta sul piano mediatico, in cui il passaggio teatrale, già pronto ad essere trasposto cinematograficamente (la versione cinematografica è uscita nelle sale la scorsa estate), fosse il corollario di un mega evento ampiamente popolar-culturale. Non un’ordinaria operazione di repertorio dunque, cioè un semplice intervento di sostegno scenico alla partitura musicale, com’è stato più volte affermato, ma il tentativo di costruire un’adesione senza interposizioni tra i codici della messinscena e le forme e i numeri dell’opera musicale, secondo quel proposito che, adottando e non negando il portato popolare del repertorio romantico italiano, come ebbe a definire in maniera insuperabile Carl Dahlhaus, intende già la partitura come un copione di regia.
Ma è proprio questo l’elemento che l’ideologia teatrale della critica contemporanea non ha potuto in alcun modo accettare, e da cui sono scaturite gran parte delle obiezioni alla messinscena. Al di là dell’impianto tradizionale dello spettacolo, confermato in un successo commerciale senza precedenti per il Teatro dell’Opera di Roma, per il pensiero critico contemporaneo ciò che è realmente inaccettabile è il cedere anche solo per un momento rispetto all’autonomia e centralità della performance materiale, reificarne cioè il portato evenemenziale a favore di un dato musicale o drammaturgico che lo precede e lo trascende. In questo consiste il segno dei tempi che si citava all’inizio: ogni forma di resa al primato della presenza scenica è un’insignificante operazione di repertorio, e quindi neanche degna di attenzione, oppure, quando ha alle spalle un’artista riconosciuta e stimata come è il caso di Sofia Coppola, è fondamentalmente squalificata come anti-teatrale.
Ora, nel caso della regista in questione, parliamo probabilmente di un’artista che, nonostante il successo de La traviata, tornerà a lavorare quasi esclusivamente al cinema, dove ha dato e continua a dare prova di grande talento. Ma il mancato riconoscimento del valore della sua produzione da parte del pensiero teatrale contemporaneo è la conferma di una cesura difficilmente colmabile tra opera e rappresentazione, per cui persino un lavoro esplicitamente e intimamente popolare come quello di Verdi, quando non sottoposto a una risemantizzazione radicale – che mai come nel caso del repertorio popolare è un’operazione di difficile gestione –, da un punto di vista teatrale non ha più nulla da significare. Questa, sia detto per inciso, è la ragione per cui i grandi registi contemporanei che lavorano nei teatri lirici tendono a rifuggire dall’opera popolare romantica, salvo rare eccezioni (si pensi allo straordinario Il trovatore di Tcherniakov a Bruxelles nel 2012), favorendo invece un repertorio novecentesco o classico che, per via di una testualità estremamente formalizzata, permette paradossalmente e in modo molto più semplice un lavoro di disarticolazione scenica del tessuto musicale e drammaturgico.
La traviata di Sofia Coppola dunque, se non un gesto cruciale, costituisce a suo modo un piccolo “caso” per il teatro contemporaneo. Perché porta con sé una chiara e inequivocabile rivalorizzazione della nozione stessa di “opera”, ovvero di ciò che, a partire dalla propria testualità generica, è capace nelle mani di un regista di produrre una rappresentazione, una sua presentificazione scenica. Ciò è tanto più vero nel caso del repertorio popolare come quello della trilogia verdiana, e in messinscene che, facendosi esplicitamente carico di quell’istanza popolare, decidono di seguirla e renderne giustizia fino in fondo, senza dogmi vetero culturali o insensate astrazioni ermeneutiche. Come ha deciso di fare Sofia Coppola a Roma.
Riferimenti bibliografici
C. Dahlhaus, Drammaturgia dell’opera italiana, EDT, Torino 2005.