Uno spettro si aggira per il mondo, in modo particolare per l’Europa e per il cosiddetto “primo mondo” tutto: è lo spettro dell’ecologismo. Nel suo celebre saggio Spettri di Marx, il filosofo francese Jacques Derrida ragionava sulla centralità di questa metafora nel dispositivo di pensiero di Marx e in generale della sinistra europea (e mondiale). Lo faceva, avendo in mente sullo sfondo la fine della Guerra fredda e il conseguente (apparente) crollo delle ideologie. Sembrava che fossimo destinati a entrare in un’epoca non solo post-storica ma anche post-ideologica. Con uno spirito forse meno nostalgico e più pagano, ma altrettanto avvertito sulle conseguenze di questa svolta storica, qualche anno prima dell’uscita di Spettri di Marx, Lyotard aveva applicato a questo stato di cose la fortunata formula del “postmoderno”. Non erano solo la concezione storica – o storicista – del mondo e l’organizzazione ideologica della politica a finire: la stessa modernità giungeva al suo tramonto. Puntando a una posta così alta, che comprendeva i “fondamentali” non solo dell’agire politico ma della concezione stessa del mondo propria di un’epoca della storia umana, Lyotard non voleva dire altro che, ad andare in crisi, non erano tanto le forme del politico in se stesse quanto la vera e propria razionalità che ne era alla base.

Dietro l’ideologia c’è l’idea, vale a dire un certo modo di concepire la presenza dell’essere umano nel mondo – e la sua esistenza come vita activa ampiamente intesa – a partire dall’istanza di una trascendenza ideale, capace di caricare di valori, princìpi e norme l’organizzazione e la fioritura di quella che in fondo altro non è, si potrebbe obiettare, che una specie animale tra le altre; la più “intelligente” o forse la più prepotente nell’uso (e nell’abuso) delle risorse offerta dalla natura. Come diagnosi dell’inevitabile fine delle ideologie (e delle idee), Lyotard proponeva di riconoscere serenamente (e “paganamente”) il fatto che si trattava in realtà di “grandi narrazioni”. Di qui all’idea di praticare attivamente la politica come storytelling il passo sarebbe stato breve. Dal canto suo, Derrida riaffermava la necessità di pensare il sostrato ideale (o ideologico) dell’azione politica a partire dalla sua fondamentale configurazione temporale.

Non c’è agire ideale che non prefiguri un futuro; né questo futuro potrebbe essere prefigurato in assenza di un qualche riferimento al passato. Come già aveva compreso Hannah Arendt, l’azione politica si colloca in un presente che non è dato, ma va costruito. A questa fondamentale intuizione lo studio di Derrida sul dispositivo marxiano aggiunge la consapevolezza che la costruzione di questo presente è sempre accompagnata dal ritorno di un revenant, dall’insorgenza di un’immagine che è insieme il fantasma di un’ingiustizia passata da redimere nella realizzazione rivoluzionaria del futuro; qui il riferimento alla filosofia della storia di Walter Benjamin si intreccia con quello alla teoria politica di Marx.

Potrebbe suonare strano iniziare la discussione di un libro scritto da un filosofo della scienza con una premessa così marcata in senso politico. Si dà il caso, però, che il filosofo della scienza in questione, Telmo Pievani, sia ben consapevole delle implicazioni etiche e soprattutto politiche della scienza. E si dà il caso che l’oggetto al centro del libro, la Terra e il suo destino, rappresenti oggi il punto forse più urgente dell’agenda politica globale. L’intento di Pievani, infatti, è quello di accompagnarci in un viaggio attraverso il globo terrestre pensato e immaginato prima e dopo di noi, con e senza (o contro) di noi. L’emergenza ecologica impone una riflessione del genere e la impone come prioritaria e nei modi proposti da Pievani: il rapporto con la natura non può più essere pensato nei termini ottimistici di un “libero scambio”. La presenza umana sulla Terra è così pervasiva e aggressiva che rischia di mettere a repentaglio non solo l’equilibrio ambientale, ma (per sommo di paradosso) potrebbe condannare la stessa specie umana all’estinzione.

La questione è ormai all’ordine del giorno: Greta Thunberg, l’adolescente svedese diventata un’icona mondiale della lotta al cambiamento climatico, ha parlato all’Assemblea delle Nazioni Unite – tra i “grandi della Terra” è il caso di dire – oscurando con la sua determinazione e intransigenza la presenza di Trump e di altri potenti. Accanto a Greta è sorto un vasto movimento globale, sostenuto soprattutto dall’entusiasmo delle generazioni più giovani, le quali rivendicano il diritto e l’utopica ragionevolezza di ridiscutere le priorità dell’agenda politica mondiale contro la legge e il cinico buonsenso degli adulti incapaci di pensare un diverso modello di crescita e di sviluppo. Ma questa lotta per il futuro della Terra, combattuta da coloro che rappresentano il futuro del dell’umanità, comporta un singolare paradosso.

Essa, per esprimerci con le parole di Lyotard, ha bisogno di una nuova narrazione politica. Si tratta però di una narrazione per i giovani e affidata ai giovani: con quali strumenti essi potranno evitare gli equivoci della retorica e dell’ideologia (intesa in senso deteriore)? È qui che si inserisce, quasi come un manuale, un enchiridion del (post) moderno milite ambientalista, il libro di Pievani. Innanzi tutto perché non si tratta solo di un saggio, per quanto brillante ed efficace possa essere la scrittura del filosofo. I capitoli del libro sono accompagnati da un gran numero di veramente splendide fotografie realizzate da Frans Lanting, le quali illustrano la sconfinata bellezza della natura, colta nei più disparati angoli della Terra, nonché della presenza della vita animale sul globo terrestre.

Questo originale libro “di montaggio” riformula la questione del valore conoscitivo dell’immagine secondo modalità nuove, più favorevoli, se pensiamo invece al pessimismo espresso da Vilém Flusser a proposito del valore informativo della fotografia, all’idea di un’alleanza “cognitiva” tra parole e immagini. Flusser temeva la semplificazione dell’informazione che sarebbe stata provocata da un’indiscriminata invasione della stampa da parte della fotografia. Qui, al contrario, l’immagine esalta – in un modo che, come vedremo a breve, è affatto inedito – il significato critico del discorso scientifico. La bellezza della natura qui presentata non ha niente di conciliante o di consolatorio. L’estetica di queste immagini – smentendo le tesi di Susan Sontag, altra imprescindibile teorica (e critica) della fotografia – non ha tuttavia niente di ideologico, nel senso deteriore del termine. Al contrario, è un invito a pensare quella bellezza come una promessa di felicità, per dirla con Stendhal, e soprattutto come un compito da assolvere.

Riferimenti bibliografici
H. Arendt, Tra passato e futuro, Bompiani, Milano 1991.
J. Derrida, Spettri di Marx, Raffaello Cortina, Milano 1994.
V. Flusser, Per una filosofia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano 2006.
J.F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1981.
T. Pievani, La terra dopo di noi, Contrasto, Roma 2019.
S. Sontag, Sulla fotografia, Einaudi, Torino 1978.

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