Senza natura

Bruno Latour è un ecologista senza natura. È una strana creatura, da questo punto di vista. Perché l’ecologia ha spesso denunciato la fragilità del pianeta, i danni inferti all’ecosistema dalle dissennate attività umane, la necessità di abbandonare gli eccessi della produttività industriale per tornare a quegli equilibri di cui la Terra sarebbe custode, con ciò rispettando meticolosamente il dettato di quello che Latour chiama il format natura/cultura. Nessun dubbio, in altri termini, all’interno di questa prospettiva tradizionalmente ecologista, che da una parte ci sia la natura, dall’altra la cultura, cioè l’intervento umano, magari l’intervento catastrofico che l’elemento umano ha apportato con le sue attività di estrazione, allevamento, produzione, e via di seguito.

Latour fa qualcosa di diverso, in La sfida di Gaia. Il nuovo regime climiatico, appena tradotto in italiano da Meltemi. Denuncia tutto questo, ma non in nome della natura. È il motivo per cui introduce nella sua riflessione questo nuovo oggetto, chiamiamolo così, che chiama appunto Gaia. Lo riprende da un autore controverso e forse contraddittorio, James Lovelock, di cui Latour non nasconde i difetti ma da cui è deciso a imparare il più possibile. E che cosa impara Latour da Lovelock? Che cos’è Gaia, per differenza da quello che si è così a lungo chiamato Terra, Natura, Ecosistema?

Quest’ultimo termine ci mette sulla buona strada, nel senso che ci dice quale via non prendere. Gaia non è un ecosistema, non è una totalità di interazioni. Non è neppure, come si ama dire, qualcosa come una complessità, per cui si tratterebbe di prendere coscienza e poi di prendersi cura del fatto che in questa complessità ogni parte interagisce con ogni altra parte. Non è un uno e non è un’unità, in poche parole. Non è un globo. Non ha mai davvero conosciuto globalizzazioni. Gaia è uno strato fatto di strati, una superficie di tante superfici.

Fatti a strati

Gaia, dice Latour, è una specie di membrana. È spessa qualche chilometro, situata tra l’atmosfera, che in realtà ne fa parte, e le profondità del pianeta, che ne costituiscono il limite inferiore. In quello strato relativamente sottile si giocano molte battaglie e cioè si stratificano molte regioni parziali. Nessuno strato copre tutta la superficie. Ciascuno si interfaccia e magari si sovrappone oppure entra in collisione con altri. Ciascuno è, insieme, la precondizione di una certa attività biologica e l’effetto di quell’attività biologica. In una parola, ciascuna di quelle regioni è la natura di una certa forma di vita, e in questo senso di una certa cultura, se appunto cultura è qualcosa come un’arte della coltivazione, per cui ogni specie e forse ogni popolazione di ciascuna specie plasma almeno in parte lo strato da cui anche è plasmata.

Noi compresi, dato che noi umani non facciamo niente di diverso. Questo articolo potrebbe essere un buon esempio. È anch’esso il frutto di quella biologia che è la nostra, biologia che dovremmo chiamare allargata se volessimo farci rientrare tutto quello che la nostra forma di vita comporta. Comprese certe attività di calcolo che negli ultimi secoli hanno portato alle premesse della costruzione di una calcolatrice a ingranaggi, e poi di quella macchina a stati discreti con cui Turing ha posto le basi dell’informatica e di questo computer sul quale sto scrivendo. Compresa quella lontana abitudine che ha a che fare con l’avere inventato la carta, le rilegature, la circolazione dei libri, l’idea di recensirli, e a un certo punto di spostare le recensioni dalla carta ai computer di cui sopra. Tutto questo e tutto quanto fa catena con questo, sta dentro questa biologia allargata, che del resto è allargata solo perché a monte l’avevamo ristretta troppo, mettendoci gli organismi ma non i loro ambienti, non i loro strumenti, non i loro detriti, eccetera.

Noi appunto non facciamo nulla di diverso da quello che fa qualsiasi altra attività biologica. Abbiamo disegnato e come scavato in quello strato che è Gaia il nostro straterello, e anzi il nostro straterello è fatto di tanti straterelli, ognuno dei quali crea i suoi circuiti, i suoi concatenamenti, che in qualche misura interagiscono con gli altri, in qualche misura no. I computer fanno tante altre cose oltre a quelle connesse con le recensioni, e le recensioni altrettante cose che non sono connesse con i computer, ma col parlarne al bar con gli amici o con l’ordinare libri in una piccola libreria o da un grande distributore globale. Gaia è questo reticolato di pratiche locali, di effetti locali di soggettivazione, di verità che valgono dentro un certo circuito e non fuori, di ricchezze che ne alimentano altre o ne contrastano altre.

Poi, certo, per un insieme di contingenze, quello che con qualche schematismo potremmo chiamare il nostro straterello umano ha moltiplicato i punti d’inserzione in una quantità inusitata di altri straterelli. Ha moltiplicato quei punti d’inserzione sempre più rapidamente negli ultimi duecento anni, traducendo su scala nuova l’antica illusione che da una parte ci fosse l’umanità o la cultura, tutto sommato una, così potente ed evidente da sembrare omogenea e omogeneamente opposta a un altro campo, che a causa di questa opposizione ha iniziato ad apparire anch’esso omogeneo, e omogeneamente opposto, la natura. Non è così, è persino ovvio che non è così. Ma appunto sono le conseguenze del fatto che non è così, che ancora ci sfuggono e non sappiamo governare.

Virus, mercati, aeroporti

Un giorno un virus fa un salto di livello, come si dice, un salto che a ben vedere non va tanto dal pipistrello all’uomo, quanto, sembrerebbe, dal pipistrello ai wet market diffusi in certe società. E capita che quella certa società abbia questi mercati di cui noi non sappiamo quasi nulla, ma abbia anche aeroporti di cui sappiamo moltissimo. Aeroporti che si connettono con altri aeroporti, che si connettono col fatto che da qualche secolo si studiano macchine volanti di minore o maggior successo, e col fatto che da altrettanto tempo la circolazione delle merci è diventata una necessità, agli occhi di un certo sistema economico. E che la circolazione degli esseri umani ha seguito quella delle merci, forse perché le nostre merci sono quasi umane, cariche come sono di qualità quasi magiche, e gli umani sono diventati quasi merci, carichi come sono dell’attesa che il loro frenetico andirivieni moltiplichi l’andirivieni delle merci e dei denari.

Ecco che nasce uno straterello nuovo, un nuovo concatenamento, un nuovo blocco natura/cultura, cioè un nuovo insieme che prevede un diritto, per dire così, che è appunto una cultura, intesa come un certo insieme di pratiche materiali, che abbiamo ben visto dispiegarsi durante il lockdown, che fa corpo col suo rovescio, coi suoi oggetti, con tutto ciò che viene cooptato da quelle pratiche come loro premessa, come loro sfondo, come loro precondizione, come loro orizzonte. Noi compresi, di nuovo. Siamo anche noi dentro quel blocco, l’abbiamo un po’ fabbricato e un po’ subito, come qualcosa che ci ha fabbricati di ritorno. Il virus ha costruito una risposta anch’essa virale, ha reso virali certe strategie di lotta e di contrasto, non però direttamente, ma indirettamente, passando per tutte quelle pratiche che hanno reso possibile che oggetti così lontani entrassero in un piano comune di consistenza. Servivano, appunto, anche i wet market, anche gli aeroporti, anche il capitalismo, e così via.

Storia dell’essere

Da un certo punto di vista Latour non dice nulla di tutto questo, voglio dire che in queste pagine non parla di coronavirus e di pipistrelli. Eppure è chiaro che non parla d’altro, anzi di questa cosa che ci ha travolti negli ultimi mesi sta cercando da decenni di dare la chiave concettuale. Gaia è questa chiave.

Gaia è un concetto. È il concetto che serve a pensare con una certa brevità, potenza, efficacia, questa nuova forma dell’essere, come l’avrebbe chiamato Heidegger, il quale a suo modo aveva capito che era urgente rintracciare un certo tragitto che lui definiva appunto storia dell’essere. Una specie di successione di modi in cui l’essere è stato di epoca in epoca non solo pensato ma frequentato e letteralmente fabbricato. Ora come ente che oscilla tra potenza e atto, diceva Heidegger, ora come oggetto misurabile, aggiungeva, e via enumerando.

Oggi, potremmo dire, l’essere è fatto a strati. È la tappa che mancava alla storia dell’essere heideggeriana. È la nostra tappa. Oggi l’essere è questo strato fatto di straterelli parziali e parzialmente interagenti. L’essere è fatto a strati e straterelli, perché in un certo senso è sempre stato fatto così, e in un altro senso è fatto così perché è stato fatto così dalle nostre pratiche.

È fatto così perché siamo incocciati in quel concatenamento di cui sopra, per cui ci sono contemporaneamente i pipistrelli, i virus dei pipistrelli, i wet market, gli aeroporti e il tardo capitalismo. E poi, ma questo è un altro discorso che dobbiamo lasciare da parte, è fatto così ed è sempre stato fatto così, perché dopo che l’abbiamo fatto così, e l’abbiamo anche visto così con una certa chiarezza, finiamo per rileggere con fin troppa facilità nei termini di questa stratificazione tutti quei fatti che a loro tempo erano fatti in altro modo, perché stavano dentro a pratiche fatte in altro modo, ed erano frequentati da donne e uomini e bambini fatti in altro modo.

Anelli

Non tutta l’umanità, insiste Latour in queste pagine, ha prodotto quella vertiginosa accelerazione di attività agricole e industriali in grado di introdurre nella cosiddetta natura una discontinuità così radicale da meritare d’essere nominata come una nuova era geologica, l’Antropocene, etimologicamente l’era contrassegnata da quella novità radicale che sarebbe l’uomo. L’umanità, tutta intera, come totalità, non c’è. Sono certi segmenti di umanità ad aver innescato certi segmenti di questa mutazione.

Quei segmenti di umanità sono stati in grado di innescare quella mutazione perché a loro volta nutriti e supportati da un vasto concatenamento di condizioni culturali, materiali, biologiche. Tanto che quel segmento di umanità, come ogni altro segmento di umanità, non è propriamente umano e neppure è propriamente naturale. È semplicemente uno dei punti di passaggio che vanno da Gaia a Gaia. O per dire meglio, da un certo straterello di Gaia, a un altro straterello di Gaia.

Eccoci di nuovo a quella natura ibrida, se la guardiamo con gli occhi nel format tradizionale natura/cultura, di Gaia e dei tanti straterelli che per pura comodità raduniamo sotto il nome di Gaia. Ed eccoci a quell’altra figura chiave del discorso di Latour, quella degli anelli. Potremmo dire più in generale che questa figura, quella di un andare dallo stesso allo stesso, producendo qualcosa come una trasformazione nell’immobilità, o un immobilismo incessantemente innovativo, è la figura principe di ogni pensiero dell’immanenza, per dire la cosa nei termini della filosofia.

Latour dice semplicemente che si tratta di “tornare sulla terra”, dopo tante fantasie di extraterritorialità umana, che non pesano tanto perché sono infondate, quanto perché sono fantasie che hanno fondato, hanno dato fondamento eccome, a tutta una serie di pratiche, e anche di valori diffusi, e anche di meccanismi di progettazione e monitoraggio, che infine producono effettivamente quell’extraterritorialità dell’umano, e producono il fantasma del tutto simmetrico di una natura antiumana e ingovernabile. Non a caso grandi porzioni dell’ecologismo, tanto pensiero cosiddetto progressista, tante buone intenzioni liberal finiscono nell’impasse. È l’assillo di Latour, rimettere in movimento qualcosa che nonostante le migliori intenzioni sembra destinato all’inefficacia.

Gaia non è fatta propriamente di strati ma di anelli, e ogni strato non è propriamente una regione ma un processo di andirivieni, un continuo ritornare su se stesso spostandosi ogni volta un po’. Da un lato una certa forma di vita e di esistenza raduna e assembla cose eterogenee facendone l’ambiente in cui le capita di prosperare, peraltro mettendosi proprio così in condizioni di rilanciare quell’azione di cooptazione di eterogeneità all’interno di quello che diventa via via un certo straterello di Gaia. Dall’altro lato quella tendenziale coordinazione di elementi eterogenei non smette di riplasmare ciascuno di quegli elementi cooptati. Compresa quella forma di vita e di esistenza che li ha radunati intorno a sé. E che di fatto non è che uno degli oggetti convocati in quella circolarità, che in nessun punto trova un momento d’arresto e in nessun punto lascia sul campo qualcosa che possiamo pensare come propriamente naturale o propriamente artificiale.

Ogni cosa pensa

E così ogni elemento, a pari titolo degli altri, anche se in modi ogni volta peculiari, agisce su ogni altro elemento, in una specie di grande disseminazione copernicana della agency, come dice Latour, e persino dell’intenzionalità, come Latour aggiunge a volte con una trovata che ha qualcosa di beffardo. Il tratto beffardo sta in questo rimettere in campo una veneranda parola dell’umanismo, intenzionalità, distribuendone però il privilegio con inedita prodigalità, accordandone il prestigio anche a sassi, muffe, elefanti, fabbriche, nuvole, aeroporti, idee, e via elencando.

Ogni cosa è antropomorfa. Dunque ogni cosa ha intenzioni, ogni pagliuzza vuole qualcosa, ogni molecola fa progetti? No, piuttosto il contrario. Anche l’uomo, o meglio, anche i tanti modi d’essere umani che gli umani hanno localmente sviluppato, sono stati levigati fino a prendere quella forma che a cose fatte chiamiamo umana, dall’azione delle migliaia o milioni di agencies e intenzionalità che la loro vita ha incontrato e cooptato intorno a sé. Sono questi circuiti di cose ad antropomorfizzare l’uomo, dice Latour. L’uomo è antropomorfo nel senso che è stato reso antropomorfo, è stato plasmato in quella forma che chiamiamo umana dall’azione di certe cose o di certi circuiti pratici in cui cose e persone entrano a pari titolo. Chiamiamo umano quello spettro di forme, in realtà anche molto diverse, che un certo concatenamento di ritorni ciclici della condizione sul condizionato e del condizionato sulla condizione ha lasciato sul campo per un tempo più o meno durevole.

Aggiungerei che questo sedimento momentaneo, per motivi sempre interni a quel giro di anelli su se stessi, a quell’idea pragmatista per cui quel che è risultato efficace si conferma, si rafforzaia e si riproduce, talvolta ci ha colpiti così tanto da essere stati indotti a ipostatizzarlo. Cioè a farne ulteriore circostanza su cui fare leva, ulteriore benzina con cui alimentare le nostre operazioni. E per questa via, ulteriore intenzionalità latente, e latentemente capace di tornare su di noi, retroagendo sul nostro antropomorfismo e riconfigurandolo ulteriormente. Una certa idea di uomo, e l’uomo non è mai stato altro che un’idea, consentiva certe conseguenze, radunava energie intorno a certi progetti, consentiva di ritrovarsi simili di fronte a certe differenze, suggeriva di autorizzarsi a certe azioni piuttosto che ad altre, di invadere anziché di starsene a casa, di allevare animali in un certo modo anziché in un altro, e così di seguito. Una certa idea di umanità è tra le tante premesse materiali di una certa antropomorfizzazione simmetrica degli esseri umani e dei loro dintorni.

È quanto dire che anche qui, come altrove, come ovunque, l’anello è tornato su se stesso, Gaia è andata da Gaia a Gaia doppiandosi in un certo punto o in una certa piega, che localmente, per un certo tempo, finché altri eventi non l’hanno travolta, ha preso forma di un certo blocco cultura/natura, di una certa produzione simultanea di qualcosa che ha iniziato a valere come la cultura che frequenta quella natura e di qualcos’altro che ha iniziato a valere come la natura di quella cultura. Il virus che ci ha travolti negli ultimi mesi potrebbe benissimo essere uno di quegli eventi che sposteranno quell’assetto, una di quelle pieghe che faranno smottare poco o tanto quel ritorno di Gaia su Gaia. Nuovi concatenamenti si costruiranno, ci antropomorfizzeremo secondo altre figure. Se ne avremo il tempo.

Disinnescare il monumentale

E così, eccoci al punto del discorso. Col libro di Latour, come già accadeva col capolavoro di Spinoza, e a ben vedere per le stessissime ragioni, succede questa strana cosa. Intanto che sembra che si tratti di costruire un’ontologia, cioè un’idea di come sarebbe fatto l’essere di tutte le cose, per esempio questo essere fatto a strati di cui abbiamo detto, si finisce col produrre un’etica, cioè una certa capacità di indagare e maneggiare il nostro modo abituale di indagare e maneggiare le cose. Posto, appunto, che le cose e quello che una volta si chiamava l’essere vanno facendosi insieme ai nostri modi di fare, e ai modi di fare di tutte le altre cose presenti nel piccolo grande strato di Gaia.

Latour ci arriva attraverso la via aperta da questa strategia che potremmo dire di complessiva demoltiplicazione di quelle unità-blocco, di quelle complessità monumentali, di quelle totalità sempre incombenti, che sin qui hanno suscitato angoscia e dunque impotenza, in luogo di quell’azione che le tante denunce ansiose miravano a suscitare e orientare. “L’Uomo sta distruggendo la Natura!” Quale slogan più adatto a smuovere le coscienze e a spingerle all’azione? Le cose sono andate diversamente, e non per caso. Una volta messe così le cose, è anzi abbastanza ovvio che le cosiddette coscienze si ritrovino paralizzate, avvertendosi completamente fuori scala rispetto a quei mostri chiamati in causa con la maiuscola. Impotenza dell’ecologia a farsi politica. Impotenza della politica a integrare nel proprio campo la questione ecologica. Come sempre non si tratta di semplice cattiva volontà, sebbene la cattiva volontà non sia mancata.

Latour procede per successivi smontaggi. Isola in ogni strato quei tanti anelli, quei tanti circuiti capillari, che estraggono le condizioni di un certo progetto intanto che il progetto diventa a sua volta la condizione che ciascuna di quelle condizioni coopta a partire dalla sua agency. E così ci porta a vedere, al posto di quel paesaggio desertico in cui sembravano stagliarsi giganteschi moloch inamovibili, un lavorio minuto, un sottile bricolage, una ragnatela di operazioni localmente definite, magari potentemente interconnesse con altre, ma allo stesso tempo lievemente sfasate, parzialmente incoerenti, e dunque districabili, maneggevoli, disinnescabili. L’esito di questa serie di smontaggi è affascinante. Iniziamo a poter immaginare di disconnettere qualche elemento da qualcuna delle sue connessioni. Proviamo a esporlo ad altre possibili connessioni. Stiamo a vedere che succede se lo lasciamo evolvere, almeno in parte, sul filo di altri concatenamenti.

Un’arringa, una cosmogonia

Forse non è più ecologismo, questo, se l’ecologia è discorso sulla natura e forse politica della natura. Forse non è neppure più un discorso politico, questo che Latour propone. È uno strano punto, quello nel quale Latour ci accompagna.

La questione si potrebbe guardare da almeno un paio di punti di vista. Il primo è quello, diciamo così, della natura ibrida dell’operazione che Latour conduce. In un certo senso questo è un libro di filosofia. Inventa almeno un concetto radicalmente nuovo, Gaia. Inventare concetti, non è il lavoro proprio della filosofia? E dunque è un libro di filosofia, un grande libro di filosofia. Ma questo libro, al di là del fatto che nasce come raccolta di otto conferenze, le prestigiose Gifford Lectures che Latour era stato invitato a tenere a Edimburgo nel 2013, è anche quella che una volta si chiamava in retorica una straordinaria peroratio.

È un’arringa, un’esortazione, un grande teatro retorico, un tentativo di pedagogia in atto. E difatti si conclude raccontando un vero e proprio esperimento teatrale. Conclusione assolutamente coerente e anzi necessaria, date le premesse. L’ultimo capitolo è il resoconto di uno spettacolo che ha portato in giro per i teatri questi idee, le ha messe in pratica sul palco suggerendo, come in ogni teatro contemporaneo, che il palco però continua nel mondo e il mondo nel palco.

Latour direbbe forse che è concettualmente sbagliato chiedersi se il suo è il libro di un filosofo, o di uno scienziato, o di un politico, o di un attivista, o di un teatrante, o di un pedagogo. Proprio questa compartimentazione è ingannevole. E difatti torna costantemente a paralizzare discorsi e azioni. La scienza dice certe cose, ma cosa deve fare la politica? È il tipo di alternativa entro cui ogni dibatto, anche in questi ultimi mesi, viene calato e formattato e sterilizzato. Come se i fatti fossero i fatti, da una parte, e i valori e le decisioni fossero tutt’altra cosa, collocata da tutt’altra parte.

Ma i fatti sono sempre dei costrutti, tesi antica di Latour, e quindi comportano già sempre, tesi più recente di Latour, un orientamento, un’attenzione selettiva, un’inclinazione per un certo interesse oppure un altro, un inizio di azione che ne emerge come da una matrice che era dunque già attiva e latentemente operativa. Già farsi un’immagine dei fatti è un’azione, e fingere che non sia così, fingere che i fatti consentano di esitare tra interpretazioni diverse e risposte divergenti, è spesso uno stratagemma, un’azione messa in campo per contrastare altre azioni. Un vuoto d’azione, ecco qualcosa che non esiste e che non è mai esistito.

Del resto un nuovo concetto è per definizione commovente. Lo è, non solo per chi fa filosofia e ama vedersi spalancare un nuovo paesaggio nel momento in cui un nuovo concetto ha ritagliato il vecchio paesaggio secondo nuove linee di frattura, secondo nuovi sistemi di corrispondenze, secondo nuove possibilità di maneggiamento. No, il fatto è che un concetto non fotografa affatto qualcosa che c’è, ma rende possibile che un nuovo oggetto ci sia, e rende possibile insieme a quell’oggetto tutto un insieme di soggetti sensibili a quel nuovo oggetto, e proprio per questo inclini a tutta una gamma di azioni specifiche, che siccome si sono rese possibili si sono anche rese in qualche modo necessarie.

Un concetto è già un’esortazione. È già un’arringa. È già l’annuncio di un mondo. È il motivo per cui in mezzo a questa composita congerie di discorsi, e a volte lunghe divagazioni, e di inserti abbastanza eterogenei, di cui solo gradualmente si comprende la complicata e agglomerata armonia, risuonano talvolta gli accenti di un genere che da un po’ di secoli non era troppo frequentato in Occidente. Quella di Latour è un’opera che ha qualcosa di arcaico. Più che un trattato ci mette sotto gli occhi una cosmogonia. Del resto, che il mondo con i suoi abitanti abbiano un futuro, non è più ovvio posto che lo sia mai stato. Siamo in quel punto in cui il mondo non è dato, non più è oggetto di constatazione, ma dev’essere oggetto di creazione.

In cerca di nuovi gesti

Dicevamo: forse non è più un discorso ecologico, questo di Latour, e forse non è neppure più un discorso politico, se la politica è un’arte delle decisioni, per intenderci in fretta. Il gesto stesso della decisione, se seguiamo Latour, inizia ad apparire impraticabile e in fondo anche incongruo.

La conseguenza più lontana di un percorso come quello di Latour, e penso non solo a La sfida di Gaia, ma anche all’altro suo capolavoro degli ultimi anni che è L’inchiesta sui modi d’esistenza, sta forse nella possibilità, e anche nella necessità, di immaginare nuovi gesti. Nuovi gesti con cui segnare il campo di un’azione che non è più politica, se appunto politica significa arte delle decisioni, o che ha a che fare con tutt’altra politica, se una politica è immaginabile al di là della figura della decisione. Non si tratterebbe più di decidere, il che appunto suppone un soggetto che fa eccezione, che guarda da fuori, che è fatto di un’altra materia, tutte idee di cui Latour fa piazza pulita. Si tratterebbe di fare altro.

Che altro fare? Forse, immaginare e imparare a praticare qualcosa come un gesto che non decide ma che, proverei a dire così, compone e cioè ricompone, articola e cioè riarticola. Questo è il panorama di possibilità che si libera dallo smontaggio latouriano del format natura/cultura. Immaginare e imparare ad accogliere la relativa impotenza che il nostro vecchio cuore umanistico rischia sempre di avvertire nel momento in cui gli si chiede di rinunciare a decidere. Perché accogliere quella relativa impotenza sarebbe tutt’uno con l’accogliere quella relativa potenza che altrimenti e fino ad oggi ci è stata di fatto preclusa.

Potenza di questo straterello in cui ci troviamo, è questo che si tratterebbe di accogliere? Potenza di un concatenamento di oggetti e di agencies inumane a cui siamo giocoforza assegnati, è a questo nuovo travestimento del vecchissimo laissez-faire che Latour ci starebbe invitando? Ma no, non è così. Non è così, se appunto abbiamo imparato che non c’è lo straterello da un lato, e noi dall’altro lato, o al di sopra. Lo straterello siamo noi, appunto perché noi non siamo altro che quello straterello. Le uniche differenze che faranno la differenza non sono le differenze decisive, non sono le differenze che hanno forma di decisione. Sono piccole differenze, le differenze minuscole, le differenze insignificanti. Solo la differenza insignificante è una differenza, e fa la differenza.

Bruno Latour, La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico, Meltemi, Milano 2020.

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