Tra i momenti più significativi nella cospicua produzione televisiva che ha preceduto l’attività di cineasta di Michael Haneke, la miniserie in due parti Lemminge (1979) accoglieva sin nel titolo il riferimento a un piccolo roditore abitante della tundra, che una credenza diffusa vuole animato da istinti suicidi durante i periodi di migrazione (Primo Levi ne parla in un racconto, Verso occidente, compreso nella raccolta Vizio di forma del 1971). La metafora era chiara, e funzionale a una peculiare considerazione dell’umano, nella sua specificità e nei suoi limiti: per Haneke l’uomo non è l’animale politico, o quello provvisto del linguaggio, bensì colui che si distingue dalle altre bestie in quanto è capace di darsi consapevolmente la morte. Il primo lungometraggio realizzato per il grande schermo, Il settimo continente (1989), avrebbe raccontato ancora il suicidio meticolosamente progettato di una famiglia borghese, calandolo in una Linz gelida, restituita per piccoli frammenti. Ma il tema, evidentemente cruciale, ricorrerà in vario modo lungo tutta l’opera dell’autore, fino ad Amour (2012).
Happy End (2017) riprende i termini della questione, trasferendoli sul piano di un’allegoria inedita. Siamo a Calais, nell’Alta Francia, su quel tratto di costa che forma uno dei due lati della Manica, teatro in passato di battaglie cruente ed attualmente tra i punti nevralgici nel sistema dei flussi migratori che convergono verso il Regno Unito. Apparentemente indifferenti (o soltanto assuefatti) a questo contesto, i Laurent vivono nella lussuosa villa di famiglia, in cui l’anziano Georges (Jean-Louis Trintignant) trascorre le sue giornate accudito dal devoto servo Rachid. Oltre a lui, abitano diverse parti della magione suo figlio Thomas (Mathieu Kassovitz), primario di chirurgia nella vicina Lille, con la compagna ed un bimbo appena nato, e sua figlia Anne (Isabelle Huppert) che guida l’azienda di famiglia ed è madre dell’indisciplinato Pierre (Franz Rogowski), che un giorno potrebbe ereditare da lei la gestione dell’impresa. Proprio lì vicino a loro è la Giungla di Calais, il gigantesco campo che accoglie migliaia di rifugiati, luogo dal 2015 di una gravissima crisi umanitaria; ma di questo i personaggi sembrano avere una percezione solo indiretta, mediata dalle immagini televisive, in cui tutto si trova posto alla medesima distanza ed il lontano e il vicino si equivalgono.
Il film comincia dando a vedere i due avvenimenti che giungono a turbare quest’apparente pace domestica. Ciascuno è veicolato da un diverso tipo d’immagine. L’avvelenamento di una giovane madre ad opera di sua figlia ci viene presentato attraverso alcune riprese effettuate con uno smartphone dalla stessa aspirante matricida, mentre il crollo rovinoso di un muro di sostegno (a seguito del quale muore un operaio nordafricano) nel cantiere gestito dai Laurent è restituito per mezzo di una veduta fissa e a distanza, che abbraccia l’intera visuale del luogo e che possiamo agevolmente ricondurre all’occhio impassibile di una telecamera di sorveglianza. A questi fattori di crisi se ne aggiunge, di lì a poco, un terzo – il tentato suicidio di Georges – che ci sarà comunicato più che mostrato, con l’occhio supposto “naturale” della macchina da presa che riconsegna solo alcune sue scarse premesse. Trovata per caso o ricercata con determinazione, per qualcun altro o per se stessi, la morte è il vincolo che tiene insieme le diverse situazioni presentate nelle prime sequenze di Happy End. È forse questa, sin dall’inizio, la lieta fine immaginata da Haneke, la morte come liberazione dalla vita?
L’avvicendarsi di differenti formati mediali, la loro inclusione nella forma cinematografica – talora capace d’ingenerare un regime confusivo, che consente un discernimento solo parziale o retrospettivo degli uni dagli altri, come avviene in Niente da nascondere (2005) – è una costante, la più nota forse, del cinema di Haneke. Essa allude a un regime cognitivo sempre più permeabile all’interferenza di dispositivi che, filtrando la percezione della realtà e rimodellando continuamente le condizioni della sua esperienza, rendono evanescente non il confine tra il mondo e la sua rappresentazione, ma «più sottilmente» – come scrive Dominique Païni già a proposito del film che tematizza nel modo più efficace tali questioni, Benny’s Video (1992) – «il concatenamento, il passaggio delle frontiere tra diversi stati della rappresentazione» (Païni 1998, p. 121), in cui la singolarità dell’oggetto finisce per smarrirsi confondendosi con la ripetizione indefinita delle sue riproduzioni.
Si tratta di un tema classico, quello del tramonto di un’esperienza vissuta o immediata, caro alla Scuola di Francoforte (cui il cineasta austriaco ha dichiarato in più occasioni di sentirsi vicino). Figura emblematica di questa diminuzione dell’esperienza è la dodicenne Eve – nata da un precedente matrimonio di Thomas – che si trasferisce per qualche tempo dai Laurent dopo avere segretamente tentato di uccidere la propria madre con delle pillole (riducendola di fatto in fin di vita). Il suo sguardo aderisce completamente a quello di una videocamera, le sue già deboli affezioni si traducono in brevi, laconici commenti che, espressi in un linguaggio impoverito, scorrono sulla superficie di un display. Ma gli adulti non versano, come si è detto, in condizioni molto migliori delle sue. Si tratta di uno stato di cose misero, in cui «le immagini “si guardano”» le une con le altre «senza che vi sia più nessuno che se ne possa assumere davvero la responsabilità» (come ha scritto Pietro Bianchi sul film) e che corrisponde ad una malinconica “perdita di mondo”: è l’età estrema del cinema, o la funzione terminale dell’immagine, quella in cui, come dice Serge Daney, «il fondo dell’immagine è sempre già un’immagine» e «tutte le immagini», aggiunge Deleuze, «me ne restituiscono una sola, quella del mio occhio vuoto a contatto con una non-Natura» (Deleuze 2000, p. 100).
Quale può essere il ruolo del cinema all’interno di un simile scenario abitato da soggettività residuali, ed in cui i personaggi tendono a comportarsi come altrettanti “terminali” di una rete di comunicazione onnipervasiva? È stato giustamente sottolineato che Haneke si sforza di produrre delle immagini senza soggetto, visioni e audizioni che sospendono il proprio legame di derivazione da un soggetto percipiente o da un cervello rimemorante. Lo fa lavorando sostanzialmente in due direzioni: la prima, più elementare, consiste nella messa in gioco di “repliche meccaniche”, in cui la percezione si trova già “esternalizzata” nei dispositivi che la veicolano; la seconda, più direttamente connessa alle strategie dello stile, conosce modi più sottili e variati, ma sempre subordinati a un’operazione di sottrazione (che mira a stabilire uno scarto rispetto alla visibilità, apparentemente piena, garantita ad esempio dall’immagine televisiva). Qui, come altrove, quest’esigenza si esplica nella frequente costruzione di un punto di vista che presenta tutte le marche riconoscibili di una soggettività, e che risulta tuttavia inassegnabile. Lo spettatore si trova a dover occupare questa specola vuota, dalla quale non può far altro che denunciare la parzialità e l’insufficienza della propria posizione conoscitiva. È uno sguardo costitutivamente vuoto, o meglio un «vuoto di sguardo» (Dinoi 2008, p. 298), quello che Haneke tenta ogni volta di circoscrivere per farne la diagnosi (che sarà relativa, inevitabilmente, al depauperamento delle capacità esperienziali di cui si diceva).
Minore attenzione si è prestata, negli anni, a ciò che all’interno di quest’opera – almeno a partire da La pianista (2001) – costituisce la vera e propria controparte espressiva di tali procedure di desoggettivazione, ovvero uno studio filmico del volto umano (qui messo in atto con parsimonia, ma pur sempre in modo sistematico). Il primo piano, che al cinema segna il momento di più forte affermazione dell’identità e della soggettività, riceve in Happy End un trattamento peculiare. Da Balázs a Deleuze, la teoria non ha mai smesso d’interrogarsi intorno all’ambiguità di questa figura, che ne fa il luogo di un continuo slittamento della persona nell’impersonale, e dell’umano nel non-umano. Qui Haneke la utilizza appunto per chiedersi quanto ancora di umano rimane e resiste in questi personaggi: ciascuno di essi è trattato come un sintomo della situazione ed auscultato come tale. È in questo punto allora che la diagnosi si fa più allarmante, nel momento in cui questi volti sembrano non esprimere nulla, o non riflettere alcunché della brutalità di cui pure sono partecipi. Sono altrettanti schermi opachi, che al massimo nascondono qualcosa, un segreto o una colpa.
L’arrivo di Eve nella villa dei Laurent, con gli altri avvenimenti che l’accompagnano, conduce un simile stato di cose a un punto di crisi che lascia emergere delle crepe sempre più profonde nella situazione. Come in Teorema (1968) di Pasolini, ciascun personaggio diventa allora il caso di un problema più profondo, che è il vero oggetto del film. Ma è un teorema senza il sacro, se così si può dire, un problema che non conosce alcuna reale soluzione, salvifica o luttuosa che sia, e che finisce sulla riva di un mare deprivato di ogni connotato simbolico o metafisico, incapace di offrire qualsivoglia liberazione (e che semmai pare riconsegnare i personaggi alla piatta ripetitività dell’esistenza, al loro isolamento come al carattere compulsivo delle loro azioni). Quel mare in cui Georges cerca ancora una volta, invano, la morte, e nel quale molti profughi rischiano invece, per sventura, di trovarla.
Il tempo sembra piegarsi così a un andamento ciclico e assumere la forma demoniaca di una spirale che imprigiona. In questo rinvio indefinito di una fine pare consistere l’happy end di Haneke, che così rileggerebbe in chiave ironica un classico schema tragico. Ma con la defezione del giovane Pierre, che viene meno al compito che gli è stato assegnato, e la conseguente vendita dell’azienda dei Laurent ad una banca inglese, qualcosa effettivamente si rompe nel filo che lega le generazioni. Questo qualcosa non è forse, simbolicamente, il sistema capitalistico, che anzi trova il modo di rifondarsi per mezzo di nuove alleanze (il fidanzamento di Anne con colui che ha fatto da mediatore nel siglare l’accordo) – benché il corpo, malato ed esausto, che abbiamo potuto scrutare sino a questo momento, sia anche il suo. Che l’aneddoto qui abbia una portata allegorica, ce lo dice l’insistenza con cui il film si lega all’opera pregressa del suo autore. Non è un fatto del tutto nuovo, poiché esempi di intertestualità interna si potevano già rinvenire qua e là in essa; ma mai prima d’ora il macrotesto dell’opera di Haneke era stato convocato in maniera tanto sistematica e radicale nel suo insieme (al punto da sconfinare, a tratti, nell’autocitazione). È un intero mondo poetico, qui, che è chiamato a rendere conto.
Ci sembra che la posta in gioco di Happy End – ma anche, possiamo arrischiarci a dirlo, del cinema di Haneke nel suo complesso – non risieda in nient’altro che in una idea di umanità, e nella sua capacità di trasmettersi da una generazione all’altra. Laddove si spezzi tale legame, l’esito non potrà che essere quello paventato dall’autore nel suo film più sottovalutato, Il tempo dei lupi (2003), in cui il bios si trova declassato al rango di semplice zoé, e l’uomo non è più distinguibile dall’animale. In tal senso, Happy End esprime un verdetto laconico e inequivocabile, nel momento in cui un’apparente struttura patriarcale lascia affiorare una serie di nuclei familiari mutili (a ciascuno manca un membro), rinserrati in spazi cellulari e reciprocamente incommensurabili, all’interno dei quali ciascun individuo tende a sua volta a rinchiudersi in se stesso, tra i propri schermi reali o simbolici.
D’altra parte, se è possibile rintracciare in questo cinema una via d’uscita da una simile condizione di asfittica chiusura, essa andrà ricercata proprio dalla parte delle giovani generazioni, e soprattutto dei bambini. Haneke ce lo ha già mostrato in passato, nel finale di Niente da nascondere, e ancor di più nei gesti con cui alcuni dei giovani protagonisti de Il nastro bianco (2009) mostravano di volersi opporre a un corso obbligato del tempo, resuscitando così per pochi istanti quelle virtualità positive che la Storia non avrebbe attualizzato. Non sono innocenti né colpevoli per natura; a loro si addice l’affermazione che Jacques Rancière riserva ad alcuni celebri bambini della storia del cinema: «È comunemente ammesso che l’infanzia sia disarmante. Nel suo doppio aspetto, miserabile e furbo, il cucciolo d’uomo padroneggia pienamente quelle astuzie dell’innocenza che ci rivelano la brutalità di un mondo menzognero» (Rancière 2006, p. 99). Sono come una promessa di cambiamento introdotta nell’immagine di un ordine ingiusto. Qui è nella presenza discreta del piccolo Paul, il figlio di Thomas, ancora ignaro nella culla, che una mattina, svegliandosi, dice la parola “papà” (è la seconda parola che dice, ci informa la madre con commozione; la prima riguardava forse lei?).
Ma tali epifanie, come altrettanti segni di una persistenza dell’umano, possono darsi anche altrimenti. Ne osserviamo degli esempi nell’ostinazione con cui Georges non smette di andare incontro alla propria morte, o quando Pierre lascia entrare un gruppo di immigrati irregolari alla festa di fidanzamento della madre (e l’ingresso di queste figure nere nel candore immacolato di un salone inondato da una luce nordica, nel segno di un’alterità assoluta, è certo uno dei momenti più alti del cinema di Haneke). Ma forse, soprattutto, una resurrezione dell’umano è riconoscibile nel volto terrorizzato della serva maghrebina che ha visto la vita della propria figlia messa in pericolo dal cane dei Laurent (“Non dovrebbe attaccare noi”, le dice Thomas): la paura come affezione residuale, che consente al volto di sottrarsi, almeno per un attimo, all’opacità.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2002.
G. Deleuze, Lettera a Serge Daney: ottimismo, pessimismo e viaggio, in Id., Pourparler 1972-1990, Quodlibet, Macerata 2000.
M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Le Lettere, Firenze 2008.
M. Grande, Le immagini non derivate, in Id., Il cinema in profondità di campo, a cura di R. De Gaetano, Bulzoni, Roma 2003.
D. Païni, La traccia e l’aura a proposito di Benny’s Video, in Michael Haneke, a cura di A. Horwath, G. Spagnoletti, Lindau, Torino 1998.
J. Rancière, La favola cinematografica, a cura di B. Besana, Edizioni di Cineforum-ETS, Bergamo-Pisa 2006.