democracy in america

L’anarchia divina del linguaggio o il linguaggio divino dell’anarchia. Un gruppo di sbandieratori vestiti da guardie di regime occupa la scena e, disponendosi l’uno accanto all’altro, ciascuno con una bandiera in mano su cui è incisa una lettera dell’alfabeto, compongono una frase: “Democracy in America”. Poi però il loro movimento diventa caotico e senza regole: gli sbandieratori iniziano ad anagrammare parole e frasi confuse, prive di apparente significato. Come il canto glossolalico registrato a Oklahoma City nel 1980, che ascoltiamo a sipario ancora chiuso, prima dell’inizio dello spettacolo. Il loro incedere ordinato cede il posto al disordine violento di una nominazione sovversiva, o prim’ancora all’arbitrio del “parlare in lingue” descritto negli Atti degli apostoli, alla vocalizzazione e sillabazione senza senso, medium tra l’uomo e il divino, forma di divinizzazione anarchica del linguaggio. Si apre così Democracy in America, l’ultimo spettacolo di Romeo Castellucci (ripreso all’Argentina di Roma), liberamente ispirato a uno dei testi più importanti di sociologia politica che siano stati mai scritti, pubblicato da Alexis de Tocqueville tra il 1835 e il 1840.

Ma in cosa consiste per Castellucci la nominazione del linguaggio che assurge a fondamento “democratico” della frontiera americana descritta da Tocqueville, terra di confine e allo stesso tempo di fondazione dell’intero paradigma occidentale moderno? L’attraversamento del mito fondativo statunitense come sintesi di tutto il moderno è una questione su cui la sua ultima produzione lavora ormai da tempo, a partire da spettacoli come Four Seasons Restaurant, The Minister’s Black Veil o Go Down, Moses. Il linguaggio per Castellucci fondamentalmente nomina il vuoto di Dio. Lo dice la coppia di indiani che si interroga in lingua Ojibwe sul tratto distintivo dei conquistatori europei in uno dei passaggi chiave dello spettacolo (scritto assieme alla sorella Claudia), ma già lo indicava il finale nella caverna primitiva del Go Down, Moses. L’autoritarismo anarchico della lingua sostituisce l’arbitrio normativo della parola a quello dell’azione come gesto fondativo del reale, perché solo attraverso di esso l’uomo è capace di sopravvivere al silenzio di Dio, al suo non corrispondere ad un dialogo aperto con l’umano che lo invoca.

Per questa ragione per il regista fondatore della Socìetas Raffaello Sanzio il momento cruciale del testo di Tocqueville diventa un piccolo episodio che il sociologo francese descrive a margine del suo trattato sulla democrazia americana: Elizabeth, una contadina puritana approdata sul continente americano alla ricerca di una “nuova Israele” con la cosiddetta “Great Migration” della metà del 1600, decide di vendere la propria figlia neonata per poter sostentare la sua famiglia, dopo che l’ennesimo raccolto non ha portato alcuni frutti. Dio non l’ha ascoltata, dice Elizabeth al marito in un’altra scena chiave, la sua “terra promessa” non ha esaudito i suoi bisogni e quindi lei è stata costretta a violare le proprie leggi naturali. Per lei Dio può essere solo “bestemmiato”, può cioè essere solo invocato nella sua assenza, aggiunge prima di cadere in una trance mistica sotto lo sguardo dell’intera comunità puritana, invisibile e “nascosta” da un pannello su cui sono proiettati tutti i dialoghi che vengono pronunciati, che la convoca assieme al marito ad una funzione religiosa per processarla.

La bestemmia, il manifestarsi soggettivo del vuoto di Dio, è ciò che, attraverso la sua punizione, attraverso cioè l’applicazione della Legge, diventa l’atto fondativo della comunità. A partire da questo presupposto, coerentemente a quanto già fatto in passato, Castellucci costruisce un’altra macchina teatrale attorno a uno dei nodi cruciali della sua riflessione. È nell’attimo in cui l’assenza di Dio si palesa in quanto tale che il linguaggio umano diventa Legge. È cioè nel momento in cui l’uomo si trova costretto a colmare un vuoto di senso attraverso il linguaggio, a stabilire un ordine che è impossibilitato a trascendere se stesso, che la grammatica linguistica della lex umana può assurgere ad auctoritas super-umana, e quindi a fondare la società degli uomini uguali. L’atto di fondazione della democrazia americana diventa per Castellucci il momento in cui il linguaggio umano, fattosi legge, privo di qualsiasi garanzia che lo trascenda, deve stabilire il tratto egalitario di tutti gli uomini davanti al nulla in cui Dio si nasconde. Il suo gesto genitivo affonda interamente nel mistico perché la Legge, per poter assurgere ad auctoritas, deve sostituirsi a un Dio che non risponde, deve cioè fare a meno della sua autorità reale. Il vuoto e non la presenza di Dio è dunque garante della legge degli uomini liberi, questa la sua tesi.

Ma questo tratto nichilistico della legge dell’uomo che si fonda sul nulla che la trascende a un certo momento nel lavoro di Castellucci raggiunge sempre un punto di indistinzione reale con quella del teatro. Questo è il punto più problematico dell’operazione portata avanti dal regista di Cesena. Il teatro deve cioè dare forma a una ritualità volutamente dissimulata, in cui il potere arbitrario e vuoto della parola deve lasciare spazio all’anarchia altrettanto vuota dell’immagine. Una vuotezza voluta, ricercata, che esorta lo spettatore a una visione libera che “regoli” soggettivamente l’enorme quantità di suggestioni visive che la scena produce proprio per approdare ad un disegno complessivo secondo cui, in definitiva, le leggi del teatro corrispondono integralmente a quelle dell’uomo e viceversa.

Tale disegno ha un punto di approdo evidentissimo, che dopo una lunga serie di coreografie che mostrano il misticismo idolatrico di un’umanità figlia di un Dio che garantisce l’ordine esistente nell’assenza – coreografie fatte di danze ritmate e spade incrociate che reificano simboli di varia natura –, conduce a uno Schwanengesang, a un canto del cigno morente. È il destino tecnico sia dell’uomo che del teatro, qui esemplificato da un’enorme macchina che nel finale dello spettacolo ruota intorno al corpo sacrificale della bambina venduta da Elizabeth, o da un braccio meccanico che si muove ossessivamente “impugnando” una luce al neon. È l’esito di un movimento in cui la scrittura del linguaggio (umano e scenico) ha interamente sostituito le leggi che la trascendono (della parola divina e drammaturgica). Come già accadeva nei lavori su Moses o nella produzione del Moses und Aron di Schönberg a Parigi. Imponenti macchine sceniche attraverso cui il destino tecnico del reale, in cui si consuma l’esito tragico del dominio della tecnica, e quello tecnologico del teatro si confondono integralmente.

In altre parole, dal momento in cui la legge degli uomini non può che elevarsi a sostituire quella divina, producendo l’orizzonte tecnico tardo moderno, il teatro non può che dare forma al presente sostituendo il potere nominativo della parola con l’anarchia libera dell’immagine e dei dispositivi tecnologici. Facendo ciò però il legame che la Raffaello Sanzio, specialmente nei primi anni (basti pensare all’Orestea, recentemente riproposta sempre al Teatro Argentina di Roma) aveva istituito con il regime generico della “crudeltà”dei corpi è definitivamente destituito. Quello di Castellucci, già da tempo, è diventato invece un teatro di immagini tecnologiche proprio perché è un teatro che mira a rimpiazzare la parola. Un teatro in cui cioè le immagini che apparentemente disarticolano i codici grammaticali del linguaggio verbale in realtà li avvicendano, costruendo veri e propri quadri visivi significanti, che rispondono e si evolvono secondo regole interne che appartengono interamente al regime del visuale.

L’ultimo teatro di Castellucci compie dunque un processo di sostituzione della parola con l’immagine tecnica esattamente come la legge umana, alla sua origine, non nega ma prende il posto di quella divina. Ed è per questa ragione che la sua rappresentazione della democrazia americana sembra mancare di un elemento decisivo della genesi della cultura e società statunitensi. Quello della grande epica del romanzo, da Melville a Twain, da Steinbeck a Fitzgerald: l’idea che non sulla parola ma sulla sua sospensione si fondi invece la dimensione cruciale della libertà americana. E precisamente sulla sospensione della parola che apre al dominio dell’azione. Come per la balbuzie di Billy Budd, la sua “incapacità” di parlare, senza cui non vi è alcuna possibilità di una prassi reale. Un’azione che si genera lì dove invece la parola è differita. All’America di Castellucci manca proprio questo.

Riferimenti bibliografici
A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 2000.
A. De Tocqueville, La democrazia in America, Feltrinelli, Milano 2012.

*Foto di Guido Mencari.

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