In un tempo in cui l’“onda nera” ha riportato al centro delle strategie governamentali paradigmi quali quelli della violenza, del fratricidio, della logica del nemico, dell’estremo controllo dei territori statuali, dell’irresponsabilità verso l’altro, decretando una crisi epocale delle democrazie occidentali, perché leggere i testi di un mistico tedesco medievale apparentemente lontani da tale eclissi politica e sociale? In un contesto in cui l’infomilitanza digitale delle “anime belle” è divenuta inoffensiva, «come quando un tempo si ingiuriava il re solo per farlo ridere», ha senso leggere i sermoni del maestro domenicano che, lo ricordiamo, Heidegger stesso definiva Lese und Lebemeister («maestro di lettere e di vita»)? Qui, nelle rovine del presente, in cui la casa non smette di bruciare «in un unico immenso rogo, che abbiamo finto di non vedere», non vale il celebre quanto abusato luogo comune secondo cui la filosofia ha il compito di porre le giuste domande; se il «governo dei viventi» è sempre più un reticolo di tecniche biopolitiche di controllo l’unico compito possibile per la filosofia è quello della krisis, dunque, del «giudizio» sul nostro tempo e i suoi «fantasmi epocali», non certo per riconfermare o eventualmente ampliare assiomaticamente i dispositivi delle macchine bipolari attraverso cui è stato possibile istituire i fondamenti dell’Occidente, ma per revocarli in questione, per sospenderne l’operato. Ecco, se c’è qualcosa che il pensiero eckhartiano può ancora insegnarci – persino al di là o nonostante la sua cornice teologica – è proprio come decidersi per la secessione, come abitare una sospensione, perché «se anche l’uomo possedesse il mondo intero, dovrebbe comunque sentirsi povero» (2024, p. 62).

Leggendo i sermoni del mistico scopriamo infatti che «c’è una luce nell’anima, dove mai è penetrato il tempo e lo spazio. Tutto ciò che il tempo e lo spazio hanno mai toccato, mai è giunto a questa luce. L’uomo deve permanere in questa luce» (ivi, p. 60). Ma come giungere, oggi, a questa luce, e come dimorare in questa dimensione nella quale «l’avvenire e il passato sono là in un unico ora» (ivi, p. 66)? Nei venticinque sermoni, alcuni dei quali inediti, che Marco Vannini traduce e annota nel volume La luce dell’anima (Lorenzo de’ Medici Press, 2024), il maestro turingio offre gli strumenti per tentare tale formidabile impresa – l’Abgeschiedenheit, il «distacco» – o, al limite, interrogarsi sulle sue possibilità. Eckhart sostiene infatti che per giungere alla «suprema verità» è necessario essere distaccati: «Così dovrebbe essere l’uomo che vuole rendersi accessibile alla verità più alta e vivere senza un prima e un poi senza essere ostacolato da tutte le opere e da tutte le immagini di cui ha avuto conoscenza, libero e distaccato […]» (ivi, p. 52).

Ma cosa significa nel vocabolario eckhartiano «essere distaccati»? Con un’immagine michelangiolesca potremmo dire che si tratta della via negationis attraverso cui eliminare ogni traccia del mondano per coincidere con Dio, il quale, proprio per questo, non diventa più un fine, qualcosa da cercare, perché «chi lo cerca da qualche parte, non lo trova» (ivi, p. 65). D’altro canto, è lo stesso Eckhart a suggerirci come abitare in Dio: l’essere umano deve rinunciare a sé stesso e a tutte le cose, non essere attaccato a niente; non amare un bene specifico ma soltanto il bene originario in cui ha luogo Dio; non accogliere Dio in quanto buono o giusto, ma come «nudo». Infatti, parafrasando il maestro, potremmo dire che la bontà e la giustizia descrivono soltanto la veste di Dio, pertanto per dimorare presso di lui è necessario svestirlo – «prenderlo puramente nel suo guardaroba» – per coglierlo nella sua nudità (cfr. ivi, p. 75). Soltanto «quando l’anima giunge nel luogo senza nome, là trova la sua pace» (ivi, p. 68), e soltanto eliminando ogni mediazione l’anima, giunta nel luogo di Dio, può riposare. Dunque, abitare questa dimensione – «l’ora dell’eternità» – significa riconoscere in Dio tutte le cose, vivere la pienezza del tempo che si ha solo quando «non c’è più il tempo» (ivi, p. 70), perché al tempo appartengono le creature, la morte e il peccato, mentre «quando l’anima si è sottratta al tempo non vi è più dolore né pena» (ivi, p. 73). Chi dimora presso Dio, possiede alcune specificità: non c’è per lui distinzione tra l’ente e Dio, condivide con Dio la beatitudine, il suo sapere è tutt’uno con il sapere di Dio, Dio è generato continuamente in tale essere umano ed egli, a sua volta, è sempre generato in Dio. Più l’uomo si denuda più diventa simile a Dio.

Ecco perché nel sermone Beati pauperes in spiritu Eckhart può dire: «Prego Dio che mi liberi da Dio», precisamente perché a Dio si accede sine modo – «nulla volere, nulla sapere, nulla avere» –, abolendo le rappresentazioni del divino che non sono altro che effetti delle passioni umane e arrivare al Grund Der Seele, il «fondo dell’anima», dove, come sottolinea acutamente Vannini, il grund è in realtà Ab-grund, dunque «senza fondo», in quanto, se fosse un luogo, ricadrebbe nelle logiche dell’appropriazione decretando l’estinzione dello spirito, «che è distacco, movimento e vita».

In un mondo in cui il potere è ormai totalmente e integralmente biopotere, in cui i dispositivi governamentali continuano a riprodursi come le teste dell’Idra, in cui la logica del futuro e della promessa non sono che uno specchietto per allodole per anime da consolare (e qui, ribadiamolo, nessuno vuole più essere consolato!), in cui il “pugno chiuso” rivela la sua più cruda verità, e cioè la totale coincidenza fra una volontà di cambiamento e l’impossibilità di portarlo a compimento, leggere i sermoni eckhartiani significa provare a fare i conti con la deposizione di ogni potere per restituire alla vita «senza perché» e «senza scopo» la sua potenza, il suo Giardino, per restituirle così – come ci ricorda un altro grande lettore di Eckhart, Reiner Schürmann – la sua «gioia errante». «Sì, anche se l’inferno stesse sul cammino della giustizia, voi operereste la giustizia e l’inferno non sarebbe per voi pena, ma gioia, giacché voi stessi sareste la giustizia, e perciò dovete operarla» (ivi, p. 86).

Meister Eckhart, La luce dell’anima, introduzione, traduzione e note di M. Vannini, Lorenzo de Medici Press, Firenze 2024.

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