disappear one
Disappear one (Thomson, Maglioni, 2015)

La logica del possibile è la formula su cui può essere orientato un discorso intorno alla seconda giornata di La lotta per il teatro #01 Ottobre, che si è aperta con la testimonianza di Carlo Quartucci e Carla Tatò, protagonisti della sperimentazione teatrale che ha visto nel Convegno di Ivrea del 1967 un momento in cui la pratiche sperimentali della scena trovarono una sintesi e un vocabolario comune. Un futuro era ed è possibile per il teatro, per prendere forma ha però bisogno di alimentarsi di memoria viva – ci insegnano Quartucci e Tatò in questo loro viaggio teatrale che coincide con l’esistenza stessa –, un futuro che è anche anteriore. È un filo sottile, poetico, quello che i due protagonisti dell’avanguardia dipanano nel loro racconto di aneddoti e squarci creativi, in cui si sente ancora – seppur a distanza di anni – l’urgenza della creazione. Una “collettività delle possibilità future” si presenta dunque tramite Tatò/Quartucci a popolare la sala in questo secondo mattino, trasfigurata in un marinaio di Amsterdam – “o era forse di Amburgo?” – o in un Majakovskij portatile, figure del desiderio che viaggiano in una valigia che è anche archivio che è anche atelier.

Questo sogno ad occhi aperti, ricerca di futuro all’opera, articola i modi attraverso i quali potersi istituire come prassi operativa. Così prende forma il campo dal titolo “Creare Istituzioni”, curato da Ilenia Caleo, in cui Giuseppe Allegri, Livia Andrea Piazza, Marco Baravalle in presenza, e Cristina Kristal Rizzo e Federica Giardini a distanza, riarticolano i punti di connessione in grado di saldare oggi la riflessione estetica alla sua dimensione politica. Mettono quindi in campo un vocabolario che, con Deleuze, cerca di delineare una riflessione intorno alle istituzioni – al plurale – come luoghi in cui tendenze e desideri riescono ad avere incidenza sul reale, e in cui il mondo diventa disponibile come spazio per l’azione. Un’azione concreta, generativa, capace di sedimentarsi in comportamenti e imprese collettive, perché non si condividono mai solo cose, ma attitudini, pre-condizioni, linguaggi, situazioni e ambienti in cui il corporeo è centrale: ciò con cui entriamo in contatto ci modella, ci invita a pensare, come sostiene Sara Ahmed.

Le pratiche istituenti come qui si intendono sono spazi pubblici non statuali che scaturiscono dalla capacità di comunità (seppur mobili) di costituirsi su pratiche condivise, che generano sistemi di prossimità e in cui variazione/codificazione sono sempre da rimettere in gioco. La proposta che emerge via via nel corso delle due giornate è di ripensare la categoria di comune non come “bene” o “oggetto culturale”, bensì come “processualità istituente”, come fare comune. Processo trasformativo e relazionale, che per sua natura tende a dissolversi con il tempo. Come dare consistenza? Come farne repertorio di gesti, posture, invenzioni a disposizione? Verso le pratiche ci si orienta con un esercizio di “retrofuturismo” (lo chiama Allegri), per raccogliere materiali da ricombinare in assemblaggi inediti. Per rovesciare il discorso dell’arretratezza di un sud Europa subalterno e povero di mezzi, è bene infatti ricordarci che l’Italia è stata laboratorio ricchissimo di spazi e forme di vita – tra ricerca artistica, femminismo, invenzione sociale, fino alle ultime occupazioni culturali – e se ne abbozza un primo improvviso catalogo che faccia da manuale d’uso: spazi in-between, di cui ricostruire genealogie teoriche e inventare narrazioni capaci di liberare spostamenti finzionali. È qui che il pensiero dell’arte – purché da un posizionamento critico verso le proprie piattaforme produttive – agisce come innesto: dimensione politica dell’arte che non si appiattisce sulla logica del sociale preconfigurato, ma sa rendere disponibili fin da subito modelli, strumenti, concetti e drammaturgie per azioni possibili. Azioni già in corso.

Ed è proprio dalla stretta relazione tra i corpi e i saperi che si possono delineare le “nuove alleanze” che Stefano Tomassini mette al centro della riflessione del suo campo, chiamando ad un confronto diretto tra teoria, azione politica/istituzionale e pratica artistica. Nel lessico politico di Butler, “assembly” è “assemblea” ma anche “assemblaggio”, un radunarsi di corpi assieme che è anche un radunarsi di prospettive, di sguardi, senza gerarchia. Come non farne sintesi o pensiero unitario? Come pensare insieme in questa compresenza di corpi radunati? Già nel modo si cerca di sperimentare proposte, e Marco Pustianaz, Carlotta Scioldo, Chiara Frigo e Francesca Corona si interrogano a vicenda e a sorpresa riposizionando di continuo esperienze, nodi critici, riferimenti, a dis-organizzare gli interventi pre-ordinati del campo attraverso una presa di parola a più voci che dispiega via via un pensiero aperto e plurale.

I modi sono anche sempre diverse intensità del pensiero. Le domande e i problemi che affiorano nel gioco sono forme di mobilitazione: intelligenze e saperi – anche inconciliabili all’apparenza –, forme di vita ed estetiche che convocano l’attivismo dello spettatore, il quale non può più rivendicare estraneità politica nella sua passività ricettiva, ma che nel suo “non fare” si espone silenzioso allo sguardo dell’altro, e alle istituzioni che devono sperimentare ricomposizioni dinamiche capaci di trasformazione e rinnovamento. Coreografie politiche di sguardi che si proiettano da un corpo spettatoriale autoconvocato. Se questa è una prima declinazione che ha risuonato dagli interventi, d’altro canto c’è invece una prassi – quella dell’alleanza dei corpi, appunto – attraverso cui nuovi temi e principi orientativi vengono rivendicati come piani di interrogazione e/o di resistenza all’omologazione dei processi estetico-politici del presente: incandescenze che ridefiniscono spazi e comunità quali luoghi di nuove aggregazioni, nonché identità di genere che trovano forme espressive nell’arte, per poi aprirsi e diffondersi negli spazi del sociale. È una vera e propria azione poetica agita come pratica del dissenso, che per Rancière “fa vedere ciò che non doveva essere visto, fa sentire come discorso ciò che era ascoltato solo come rumore”, e inverte così la gerarchia delle storie, rende deboli quelle che si ascoltano in modo così assordante e rende forti quelle condannate al disvalore.

In questo senso il convegno di Ivrea è stato per noi uno snodo che pone oggi delle domande attuali ed urgenti, inerenti il modo in cui la prassi creativa del “nuovo teatro” si inscrive nella consapevolezza del tessuto sociale come elemento politico. In termini di linguaggio della scena, un atto fondatore da richiamare nel presente è la definizione di una “drammaturgia del suono”, in cui l’elemento acustico è concepito nella sua veste strettamente musicale e di emissione vocalica, capace di condizionare e dunque orientare la visione e l’interpretazione dell’immagine scenica, istituendo così una relazione tra i territori della “nuova musica” e quelli del “nuovo teatro”. In questo orizzonte di senso, l’approccio che Enrico Pitozzi ha dato alla discussione – insieme a Veniero Rizzardi, Roberto Paci Dalò, Daniela Cattivelli ed Enrico Malatesta – ha delineato una storia di intrecci e ritorni, di sensibilità comuni e condivise, anche a distanza nel tempo, rintracciate nella storia recente della sperimentazione musicale e teatrale.

Ciò che è emerso è un pensiero musicale che la scena teatrale elabora in connessione con il pensiero sonoro, discostandosi dal mero utilizzo della musica come corollario al regime della visione. In questa direzione uno degli aspetti che il teatro e la danza ci consegnano è un rinnovamento della pratica compositiva, al cui centro troviamo la “drammaturgia del suono”, intesa come dispositivo latente che permette di orientare la percezione delle immagini.

Da un punto di vista compositivo, si assiste ad un processo che si dispone attorno ad un doppio regime delle immagini, vale a dire l’“immagine acustica”– che comprende, inoltre, il registro vocale – e l’“immagine visiva”, determinata a partire dalle qualità della precedente. In altri termini, il suono agisce in scena in modo discreto, latente, determinando il senso di ciò che appare in scena: il regime visivo dell’immagine è dunque il contrappunto di quello sonoro e musicale.

All’interno di questo campo viene altresì dedicata una riflessione alla materia del suono, realizzata con sonorità strumentali e con materiali elaborati grazie all’ausilio delle tecnologie. L’indagine condotta nei territori della contemporaneità non può prescindere, infine, da una riflessione sulle modalità di ricezione dello spettatore, in particolar modo nella ridefinizione delle sue facoltà d’ascolto, tema che – una volta di più – mette in stretta relazione gli studi musicali e quelli teatrali nel concepire un ambiente all’interno del quale lo spettatore è immerso, così come lo è stato, d’altronde, nella serata conclusiva ancora presso il S.a.L.E. Docks, avvolto dalle immagini di Disappear one, un film di Graeme Thomson & Silvia Maglioni, e a seguire dai suoni di Daniela Cattivelli, Giulia Vismara e Richard Crow.

È ancora bello sognare l’imprevisto”, ed ecco così prefigurarsi alleanze possibili dei corpi, che già iniziano ad accadere in queste due giornate e possono consolidarsi solo su pratiche condivise, del sensibile, vale a dire di qualcosa che si condivide perché parte di un sentire comune. Ecco, ciò che è comune è prima di tutto un’atmosfera, un’aria che si respira, in cui sono le condizioni a favorire gli incontri e gli scambi, là dove esiste però un principio condiviso e non dichiarato, la fiducia su cui riposano le amicizie. Perché di questo si tratta. E lo sappiamo, per l’amicizia non ci sono colpi di fulmine, solo un lento lavorio del tempo, un confronto serrato – anche schietto e feroce – ma leale e onesto, richiamando virtù che troppo spesso sono mancate nei comportamenti e nelle prassi correnti. Diventa allora necessario metterci in gioco in grammatiche di passioni non tristi se vogliamo che, a partire da qui, una logica del possibile si faccia mondo.

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