L’inattualità di un testo può essere, per certi versi, una ragione per pensare di ripubblicarlo. Così è in effetti per La linea astratta. Pragmatica dello stile di Giorgio Passerone, un volume nato trent’anni fa sulla scorta dell’esperienza parigina dell’autore, un apprendistato filosofico presso il Deleuze di Vincennes prima e quello di Saint Denis nel decennio 1980-1990. La linea astratta, nella nuova veste per i tipi de La Scuola di Pitagora sotto il nuovo e ambizioso marchio editoriale Eutimia, è corredato da una fulminante prefazione dello stesso Passerone, giustamente indicata da Pierandrea Amato nella sua postfazione come una garanzia sull’opportunità di riproporre questo libro. La prefazione richiama infatti la stagione parigina di Passerone, approdato in Francia più di quarant’anni fa dopo la fine per implosione dell’onda del 1977 in Italia: «Bisognava andarsene, ma che la linea di fuga non fosse un tradimento» (Passerone 2022, p. 13).

La preziosa traduzione da lui curata di Mille Plateaux, precipitato teoretico-politico del lavoro di Deleuze (e Guattari) a Vincennes, dà a Passerone gli strumenti concettuali per affrontare il decennio caratterizzato dall’avanzata del deserto del realismo capitalista, permettendogli di apprendere una nuova solitudine per ripopolarla (ivi, p. 15), ovvero di tradurre, nello studio e nella vita, l’appello di Deleuze, le cui lezioni sono insieme un atto di creazione e un atto di resistenza. Da questo connubio tra creazione e resistenza nasce il concetto di (non)stile che è al centro de La linea astratta: un sovvertimento dell’ordine come ostacolo al divenire (ivi, p. 387), della legislazione del linguaggio come dittatura dell’uniforme rispetto alle linee di fuga informali. La scrittura, la letteratura, come caso esemplare per intendere tutte le arti, utilizzano la fuga stilistica come un modo per dire l’irrappresentabile, per dare voce al molteplice plurivoco scardinando la pretesa di univocità del soggetto dell’enunciazione.

Di qui l’insistenza di Passerone sul discorso indiretto libero e su una genealogia alternativa della storia della cultura, che, attraverso lo stile, prepara il tramonto del soggetto nell’orizzonte dell’evento – nella contingenza dell’incontro. La pragmatica dello stile che sovverte il soggetto a favore dei concatenamenti desideranti la fa finita con l’omogeneità del discorso della Forma per sprigionare l’incoercibilità dei divenire altro da sé. Passerone dà un seguito ideale, nel segno di una raffinatissima storia delle idee, alla fascinazione deleuziana verso il Barocco, cogliendo il passaggio dalla piega all’attrazione verso la terra propria del romanticismo tedesco, che si sostanzia in un intreccio tra corpo, pulsione e canto capace di sprigionare il materico nel concatenamento ritmico e melodico delle «parole caricate di pulsioni» (ivi, p. 181).

Ma è il post-romantico Nietzsche, come giustamente sottolinea Amato nella postfazione, il cuore del discorso, il “padre” della genealogia dello stile che attraversa l’opera di Dante e Pasolini, Leopardi e Flaubert, Dostoevskij e Gadda, Mallarmé e Céline, Artaud e Blanchot. Deleuze non manca di far notare, nella sua prefazione alla prima edizione, come La linea astratta sia un libro che nasce da una doppia ricognizione della letteratura italiana e francese (ivi, p. 19). Tuttavia, mi permetto in questo breve commento di far notare come il saggio, grazie alla sua ascendenza nietzschiana, esplori brillantemente, oltreché la critica, anche la clinica, nel senso dell’intreccio tra stilistico e pulsionale, letterario e libidico. È questo movimento che dal fondo caotico dei corpi restituisce la modulazione di uno stile in grado di connettere la scrittura e l’arte alla vita (ivi, p. 217), a forme di vita affermative e non personali.

La solitudine affollata di Passerone è infatti un modo di farla finita con l’autorialità, per sottolineare la sua provenienza dall’alterità, per annunciare la detronizzazione dell’Io ad opera di potenze ctonie, degli inferi freudiani dell’esergo virgiliano a L’interpretazione dei sogni (1899). Si tratta di risignificare il punto di enunciazione come campo di forze, nuvola di probabilità del verificarsi di eventi-effetti, luogo della singolarità impersonale e punto idiosincratico di produzione di uno stile e di una lingua minori, un idioletto senza identità. Di cosa è affollata questa solitudine dello scrittore? Non di fantasmi, in senso psicanalitico, ma, come detto, di incontri. La logica dell’evento introduce il Reale nel campo immaginario-simbolico della logica del fantasma. È il superamento della Forma e del retaggio aristotelico dello “stampo” a vantaggio della (non)figura proustiana e dell’agglutinazione di affetti e sensazioni, lo sconquasso della struttura al passaggio dell’evento.

Sovvertire lo stile è possibile, di conseguenza, solo attraverso un linguaggio che baratti l’ordine del senso comune con quello del senso-evento, sbaragliando il «mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi» (Nietzsche 2015, p. 20) che difende il potere della bella forma davanti all’imprevedibilità del divenire-folle. Nietzsche vede bene che l’esercizio metaforico e metonimico corrisponde alla logica onirica di spostamento e condensazione delle figure, cioè alla logica propria di un linguaggio che mette in moto il senso a patto di cristallizzarlo in una dimensione rappresentativa: è l’inconscio che va a teatro, ricadendo nella messinscena delle rappresentazioni simboliche e delle identificazioni immaginarie sottostanti a una scala di valori, ammantate di un riferimento al “buono-bello-vero”. Il divenire viene bloccato dal dispositivo retorico in quanto quest’ultimo è capace di evocare un orizzonte auratico, un incantamento suscitato dall’armonia apollinea delle forme.

Passerone coglie perfettamente come l’intento sovversivo di Nietzsche consista nell’immaginare una pragmatica della scrittura destituente rispetto alla “dittatura dello stile”, all’incanto seduttivo della “bella forma”: il non-stile è la cifra del non-senso in quanto opposto al buon senso e al senso comune, avrebbe detto il Deleuze di Logica del senso (1969). È una scrittura della differenza e del divenire molteplice, che ingaggia il nonsense artaudiano, i flussi di Céline, le ibridazioni linguistiche di Gadda, ma non solo. L’autorialità, come detto poc’anzi, è spodestata anche a partire dalla rottura delle identificazioni immaginarie in protagonisti, deuteragonisti e antagonisti (vedi i casi di Dostoevskij e Melville). Ma è grazie a Kafka, nella declinazione di Deleuze e Guattari, che l’anti-canone della letteratura minore dispiega il portato politico de La linea astratta. Il concatenamento di eventi è (anche) concatenamento di enunciati che declinano in terza persona l’ordine del discorso, trasformandolo in linea di fuga, in singolarità nomadica, in lingua deterritorializzata.

Il senso politico di questa operazione sul linguaggio è immediatamente evidente, e il suo carattere “allarmante” per l’ordine platonico e rappresentativo, per il sistema “delle altezze”, consiste nel fatto che la lingua minore è una piega della lingua maggiore, una sua estroflessione o invaginazione, un’operazione di scavo che non va dalla superficie alla profondità ma scopre l’inesauribilità della superficie, o, per dirla altrimenti, l’impossibilità di irreggimentare l’eccezione. Sono gli “zingari felici” del linguaggio che mettono in crisi l’attitudine stanziale delle retoriche “ufficiali”, sperimentando una lingua «contaminata, senza identità fissa, né ricerca delle costanti» (Passerone 2022, p. 81). Con Kafka, la lingua minore diventa il luogo dell’apertura di varchi, dell’apertura di nuove strade attraverso la deterritorializzazione dei binari morti edipici: la letteratura minore è l’apertura dei vicoli ciechi (Deleuze, Guattari 1996, p. 19).

La linea astratta è prodotta da un linguaggio senza casa, senza “camera da letto edipica”, è piuttosto il dispositivo mobile per chi non ha casa. Tutto avviene nella sovversione sintattica operata dal discorso indiretto libero, che immette le soggettività nel campo del desiderio in eccesso, del godimento di una lingua “altra”, non addomesticabile. È in questo godimento di una lingua in eccesso, di un resto non assoggettato, che la linea di fuga permette alle voci di schivare le identità, di astrarre dalle provenienze e dalle radici. La letteratura minore abdica alla rappresentazione ed entra nel regno dell’informale, dell’astratto, del trasmutarsi delle forme le une nelle altre: né donna né bambino né animale, ma divenire-animale, divenire-donna e bambino e animale e nuvola… Il divenire-altro si dà nella polifonia del discorso indiretto libero, grazie all’intrusione dell’altro nella presunzione soggettiva dell’enunciazione. In questa “danza delle voci”, la parola si fa ritmo e il corpo si fa affetto, come la melodia di un Lied romantico che risuona dal fondo.

Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata 1996.
F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extra-morale, Adelphi, Milano 2015.

Giorgio Passerone, La linea astratta. Pragmatica dello stile, Eutimia, Napoli 2022.

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