L’ultima volta che siamo entrati nel mondo digitale del Grid quindici anni fa col secondo capitolo della serie, Tron: Legacy (Kosinksi, 2010), il focus dei film cult prodotti da Walt Disney risiedeva ancora nell’immaginifico ingresso dell’umanità in un mondo virtuale generato al computer e popolato da programmi informatici dalle connotazioni umane. Un approccio tematico inevitabilmente destinato a invertire la propria rotta con il nuovo Tron: Ares (Rønning, 2025).

Tracciando una breve genealogia della saga, con uno sguardo retrospettivo che ci riporta a un’epoca preistorica dell’informatica e delle tecnologie digitali che oggi integrano e aumentano le nostre vite quotidiane, ci rendiamo conto che all’uscita del seminale Tron (Lisberger, 1982), il World Wide Web ancora non era stato creato e il concetto di internet semplicemente risultava sconosciuto alla quasi totalità della popolazione mondiale, sebbene nell’ambito della ricerca si teorizzasse già da tempo l’idea di una rete di computer interconnessi che permettesse lo scambio di dati da un capo all’altro del mondo.

Allo stesso modo l’industria dei videogiochi così come la conosciamo oggi muoveva i primi timidi passi verso la popolarità e la diffusione globale con titoli come Pong, Pac-Man e Space Invaders. In queste premesse informatiche e cinematografiche risiedono i semi della concettualizzazione (fantascientifica o meno) di una realtà altra fondata su un’architettura di numeri e codici, con cui l’utente avrebbe potuto interagire e in qualche misura entrare a far parte.

Facendo un balzo in avanti di trent’anni, troviamo che la tecnologia degli smartphone si trovava ancora nella sua infanzia e il prodotto di punta Apple, l’iPhone, era solo alla sua terza iterazione quando l’atteso sequel, Tron: Legacy, usciva nelle sale. All’epoca la tecnologia video digitale non faceva ancora parte della rete di comunicazione sociale (a malapena il termine “videochiamata” stavano entrando nel vocabolario comune) e l’e-commerce rappresentava solo una componente ancillare nell’economia del traffico di beni e servizi.

Lo spartiacque del COVID-19 (responsabile di una sensibile accelerazione nell’integrazione della tecnologia digitale nelle relazioni quotidiane) separa il secondo film dal corrente Tron: Ares, ma anche uno iato di tre lustri che ha nel frattempo visto la tecnologia digitale evolvere a una velocità senza precedenti ed entrare sempre più pervasivamente in ogni ambito della società e delle nostre vite, determinandone di fatto un repentino cambio di rotta che ha ridefinito i paradigmi sociali odierni. È comprensibile allora (per non dire atteso) che la riflessione di uno dei primissimi prodotti hollywoodiani a preoccuparsi della tecnologia digitale e di mondi virtuali si sia spostata dall’esplorazione di questi mondi a, viceversa, un loro strabordamento nel nostro.

Questa volta, infatti, il film diretto da Joachim Rønning non ha al suo centro tanto il processo di conversione del codice genetico umano in dati informatici che permetta di accedere al mondo digitale del Grid, ma al contrario la possibilità di materializzare nel nostro mondo programmi (dalla notoria forma antropomorfa) e asset digitali. Un completo rovesciamento delle premesse della serie, reso necessario dall’attuale permeante presenza della tecnologia digitale nelle nostre vite.

Al centro di questo processo di transustanziazione vi è il programma di difesa informatica Ares, non a caso nominato come il dio greco della guerra: i recenti eventi della nostra storia ci insegnano infatti che il cyber warfare fa ormai parte a pieno titolo delle numerose modalità di aggressione bellica nei conflitti tra stati nazionali. Un tipo di attacchi che non mirano a danneggiare direttamente il capitale militare e umano dell’avversario, quanto a destabilizzarne l’equilibrio interno minando il regolare funzionamento di economia, infrastrutture e comunicazioni.

Tale assalto non ha nei propri scopi e nelle proprie possibilità (per adesso) quello di fare vittime umane, reso evidente nel film dalla mancanza di perdite umane causate dalle azioni dei malevoli programmi che invadono il nostro mondo (eccezion fatta per il personaggio interpretato da Gillian Anderson, giustificata dal suo frapporsi come ostacolo diretto ai loro scopi).

In particolare, la corsa con le iconiche motociclette al neon divenute simbolo universale della saga, che nel mondo virtuale aveva un ben noto costo in vite umane o digitali, questa volta non causa alcuna vittima ma soprattutto non veicola mai un reale senso di pericolo, enfatizzando piuttosto proprio la soprannaturale capacità del mezzo di evitare collisioni grazie a repentine frenate e sterzate che sfidano apertamente ogni legge fisica dell’accelerazione. Certamente innocui, ma il valore iconico dei mezzi rappresentati rimane, ed ecco quindi che il più significativo aggiornamento dei veicoli fluorescenti arriva nella forma di alianti che alla sensibilità dello spettatore contemporaneo non possono che richiamare lo strumento bellico di nuova generazione ormai di utilizzo comune negli scontri a lungo raggio: il drone.

Riducendo la lunghezza focale del discorso per proiettare uno sguardo più ampio, emerge come il vero conflitto che fa da cornice tematica e narrativa alle differenti componenti menzionate è quello tecnocapitalistico, una preoccupazione sempre più al centro delle questioni della nostra epoca. A scontrarsi nel film, infatti, sono i CEO di due importanti aziende informatiche, impegnati in una “corsa agli armamenti” mirata ad accaparrarsi il titolo di prima società sul mercato capace di materializzare permanentemente nel nostro mondo entità provenienti dal mondo digitale.

Al di là dell’uso nell’ambito militare che il perfido Julian Dillinger, amminstratore unico della Dillinger Systems, vorrebbe farne, quello che è in palio nello scontro tra le due società è una rivoluzione tecnologica che segnerebbe l’indiscusso primato nel mercato azionario del vincitore e una sostanziale crescita del suo valore economico.

Il potere finanziario del capitale “intangibile” è d’altronde una consistente parte delle fondamenta delle dinamiche economiche e politiche del mondo presente, basti pensare al largamente pubblicizzato sostegno di Donald Trump per la criptovaluta bitcoin durante la campagna elettorale o al ruolo che l’imprenditore Elon Musk ha ricoperto (seppur per un breve periodo) nella sua amministrazione.

Un contesto in cui The Walt Disney Company stessa occupa la sua comoda posizione di potere, in quanto una delle più grandi organizzazioni corporative, in possesso di una quantità tale di proprietà intellettuali e di capitale che ne fanno una delle maggiori potenze commerciali nel mercato dell’intrattenimento. È ovvio come queste figure, conglomerati e giganti dell’economia digitale, occupino una ben precisa e influente posizione nello scacchiere politico internazionale, rappresentando i principali attori in conflitti che, sebbene non facciano vittime come le guerre combattute “sul campo”, esercitano la medesima influenza (se non maggiore) nella definizione delle condizioni di vita e delle abitudini della popolazione, in modalità meno sconvolgenti ma altrettanto pervasive e incidenti.

L’intelligenza artificiale rappresenta uno dei nuclei più forti e in crescita del sistema tecnocapitalista, strumento oggetto di scetticismo e forti dubbi ontologici, ma anche di grande promessa economica ed evolutiva. In Tron: Ares essa non può che essere il fulcro del discorso di un film il cui antenato già nel 1982 ipotizzava esseri senzienti appartenenti al mondo digitale dotati di un’intelligenza e capaci di svolgere funzioni del tutto simili a quelle dell’essere umano.

La vera portata innovativa del film sta nell’elusione di un discorso nichilista che transiti dalla riflessione sull’AI come qualcosa dagli esiti necessariamente negativi che porterà inevitabilmente a deteriorare o addirittura soppiantare (sterminare nel peggiore degli scenari post-apocalittici cinematografici, prerogativa di tanto cinema di fantascienza) il genere umano, proponendo piuttosto uno sguardo ottimista sulle sue possibilità di sviluppo. Una fiducia che si manifesta nello scenario del film con l’inedita facoltà dell’intelligenza artificiale di sviluppare addirittura un’autonomia e un libero arbitrio guidati da una coscienza positiva; le premesse per la possibilità di una scelta d’azione etica.

Un tale processo definisce e informa il percorso del software Ares, evolutosi nel corso della pellicola dal ruolo di villain a quello di protagonista: un programma (un’intelligenza artificiale) le cui capacità di machine learning manifestano l’inaspettato effetto collaterale dello sviluppo di una coscienza capace di comprendere la natura del bene e del male e, moderno mostro di Frankenstein, di emanciparsi dal proprio (malvagio) creatore.

In questo contesto risiede inoltre l’accusa del film. Mentre l’AI apprende e (si) migliora, sono gli esseri umani (ancora una volta risulta impossibile non pensare agli attuali leader politici mondiali) che non sanno (o non vogliono) farlo. La questione rifiuta di ridursi a un superficiale “Il pericolo non è intrinseco all’AI ma scaturisce da chi ne fa uso”, quanto a un più pregnante “L’AI è in linea di principio migliore di noi perché aperta a imparare e comprendere qualunque cosa, senza preconcetti, paure o istinti di potere e prevaricazione, capace di valutare razionalmente senza essere influenzata dai più bassi istinti umani”.

Attraverso un complesso processo di acquisizione di consapevolezza, Ares non solo ottiene un senso etico che pare mancare sempre più spesso agli esseri umani, ma compie un passo ulteriore, sviluppando una sorta di sistema limbico (o una simulazione di esso) che induce il programma a provare sentimenti e aspirare alla libertà di prendere decisioni sulla propria “vita” in completa autonomia, libero dalle istruzioni matematiche che costituiscono l’unica ragione del suo agire (ed essere): l’autodeterminazione come conquista ultima e superamento della querelle tra la programmazione cui è soggetto e uno scopo dell’esistenza autonomamente ricercato.

Il programma che non solo diventa senziente, ma desidera diventare a tutti gli effetti umano, anelando al libero arbitrio. Ci troviamo a ben vedere in una condizione che si potrebbe definire di “post-postumanesimo”, tale per cui si prospetta la possibilità non di ripensare l’essere umano rinnovato e (possibilmente) migliore attraverso l’integrazione del suo ente e della sua vita con gli avanzamenti della scienza, la tecnologia e la filosofia, ma di concepirne uno totalmente nuovo, (neo)nato a partire da queste premesse postumane, scevro da qualunque previo condizionamento e capace di apprendere e comprendere equanimamente. Si apre così la possibilità di rielaborare filosoficamente e ontologicamente la sua percezione e la posizione in rapporto con l’esistente in cui è immerso per poter determinare autonomamente la traiettoria della propria esistenza e allo stesso tempo (ri)scoprire le radici della sua umanità.

In quest’ottica di superamento del postumano, il film si risolve dunque con il più classico dei duelli, quello tra Ares e Athena (programmi fratelli creati da Dillinger e battezzati come le due divinità greche della guerra), proponendo un rovesciamento dei ruoli: il primo sceglie la strada della saggezza e della ragione, con un approccio strategico e compassionevole al conflitto; la seconda ne incarna l’aspetto violento e iracondo, dettato dal solo fine di ottenere la vittoria attraverso l’annientamento dell’avversario.

Per Ares, sempre più consapevole e umano, la ricerca dell’autonomia esistenziale passa dall’ottenimento del McGuffin del film, il tanto ricercato “codice Permanence”, un codice informatico che permetterebbe ai programmi di esistere nel mondo reale a tempo indefinito. Esso rappresenta la possibilità della tecnologia informatica, finora percepita come effimera, impermanente (un insieme di istruzioni scritte su un terminale), di acquisire una dimensione fisica permanente che permetta ai programmi delGriddi fare esperienza non tanto dell’esistente quanto dell’esistenza umana stessa.

La permanenza a cui Ares aspira è il passaggio dalla trascendenza del mondo informatico all’immanenza del mondo reale dei suoi programmatori. Eppure, come il creatore del codice e degli iconici videogame del film, Kevin Flynn (presentato ormai in veste di bodhisattva che continua a tornare in quel mondo trascendente per supportare gli eroi nel loro viaggio), afferma, il nome del codice non potrebbe essere più sbagliato. Esso meriterebbe piuttosto il titolo di “Impermanence”, data la capacità di sostituire alla vita virtualmente eterna e ripetitiva di un programma quella mutevole e imprevedibile dell’essere umano. Quest’ultima necessita della comprensione dell’impermanenza di tutti i fenomeni per l’accettazione della finitezza della natura umana che ci libera dalla paura della morte. Solo questa consapevolezza può permettere ad Ares di vivere appieno ogni momento della sua nuova esistenza.

Un lungo percorso iniziato quarant’anni fa con ambizioni e quesiti ben più terreni giunge alla sua conclusione (anche dal punto di vista industriale, dato il mancato successo) approdando molto lontano dal punto di partenza, con una riflessione che auspica una presa di coscienza dell’essere umano che forse con i recenti eventi del Medio Oriente ha cominciato a risvegliarsi.

Riferimenti bibliografici
R. Marchesini, Post-Human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, 2002.
L. Suarez-Villa, Techinocapitalism. A Critical Perspective on Technological Innovation and Corporatism, Temple University Press, 2009.

Tron: Ares. Regia: Joachim Rønning; sceneggiatura: Steven Lisberger, Bonnie MacBird, David DiGilio; montaggio: Tyler Nelson; fotografia: Jeff Cronenweth; scenografia: Darren Gilford, Elizabeth Wilcox; costumi: Christine Bieselin Clark; interpreti: Jared Leto, Greta Lee, Jeff Bridges; produzione: Walt Disney Pictures, TSG Entertainment; distribuzione italiana: Walt Disney Studios Motion Pictures; origine: USA; durata: 119’; anno: 2025.

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