Una delle scene più strampalate de Il pasto nudo (1991) di David Cronenberg, non presente nel romanzo originale di William Burroughs, è sicuramente quella in cui Bill viene fermato al posto di blocco subito prima di entrare ad Annexia, negli ultimissimi minuti del film. Lo scambio di battute tra quest’ultimo e le guardie di frontiera si conferma altrettanto surreale delle scene precedenti. “Qual è la tua professione”, chiedono i militari. Al che Bill risponde “sono uno scrittore”. “Puoi provare quello che stai dicendo? Come siamo certi che sei uno scrittore?”. “Ho l’attrezzatura per scrivere”, ribatte perplesso Bill sventolando una stilografica davanti allo sguardo truce delle guardie. “Non è sufficiente. Facci vedere… Scrivi qualcosa”.
Chi lo segue sa benissimo che, posto nella medesima situazione, Massimo Recalcati non avrebbe fatto fatica a trasformare una scena così surreale in un momento di ordinaria amministrazione. Probabilmente, avrebbe spento il motore e inforcato l’occhiale da lavoro, tirando fuori un portatile da sotto i sedili posteriori con una pagina bianca di Word già pronta. La bozza sarebbe stata consegnata ai sorveglianti nel giro di poche ore. Con tanto di bibliografia e virgolettati. Non ci sono molti altri modi per farsi una ragione del ritmo a cui Recalcati riesca a sfornare un saggio dopo l’altro, ciascuno a distanza di così poco tempo. Soprattutto, e a parte gli scherzi, non c’è altro modo per giustificare l’uscita in soli due anni di una coppia di corpulenti libri che affrontano così nel dettaglio un argomento complesso qual è il rapporto tra la psicoanalisi e il testo biblico. Un connubio a cui altri psicoanalisti si sono dedicati prima di lui, sicuramente, ma senza raggiungere un simile grado di sistematicità. Senza arrivare a una profondità di analisi che, prima di questa serie di pubblicazioni, si accontentava ancora di analogie, corrispondenze, al più risonanze.
La legge della parola, uscito nel giugno 2022, aveva portato in superficie le radici comuni che legano l’Antico Testamento alla dottrina dell’inconscio, isolando in un unico corpo concettuale due realtà apparentemente in collisione reciproca: la Legge del Dio ebraico (personaggio non certo rinomato per la sua clemenza), imperiosa e irraggiungibile, croce e delizia dei fedeli timorati, e il messaggio sfrontatamente ateo della psicoanalisi, della pratica che Freud inventò proprio per smuovere l’Averno e bandire le divinità che vi dimoravano.
Con sorpresa dei diffidenti, il discorso teneva a puntino. Recalcati era riuscito a imbastire un dialogo tra le due discipline che ne abbatteva lo scarto cronologico per proiettarci in uno spazio logico ai limiti dell’inquietante. Uno spazio nuovo in cui il rapporto dialettico tra il simbolico e il reale, l’evento e la ripetizione, Eros e Thanatos, il Nome del Padre e la Legge, sussiste attraverso una perfetta reciprocità. Come se, da La legge della parola in poi, l’operazione davvero bizzarra sarebbe di pensare una psicoanalisi senza Bibbia, o una Bibbia senza psicoanalisi.
Nondimeno, una volta esplicitate queste radici, una volta sdoganato un discorso rimasto nel sottosuolo per oltre un secolo, la chiusura de La legge della parola sembrava volerci gettare nella desolazione. Come se l’impresa avesse reso visibile un’affinità di troppo, un’impasse che toglieva all’intera operazione il suo lieto fine: mi riferisco all’ombra minacciosa e irriducibile del Qohelet, il libro della vacuità per eccellenza, che comanda che, alla fine dei giochi, la polvere torni a essere polvere e che la cenere si rimescoli alla cenere.
Il Freud disilluso e pessimista che si prefiggeva di riportare la nevrosi sul piano dell’insuperabile infelicità comune ne è un riflesso tristemente puntuale. Così come sarà, di nuovo, quando il padre della psicoanalisi prospetterà l’ipotesi di una cura in balìa dell’interminabile, della roccia biologica che riassorbe una volta per tutte la possibilità della differenza nel ciclo unico della ripetizione. A tu per tu con la sentenza del Qohelet, tanto il testo biblico che quello psicoanalitico ci lasciavano con l’impressione che sì, c’è un modo di restare a galla, ma questo stare a galla ci trascina lentamente alla deriva. Per La legge della parola, la diagnosi era quanto mai amara: in nessun caso ci verrà concesso l’antidoto della consolazione, figurarsi della salvezza. Tutto deciso dunque? Dovremmo pertanto rassegnarci a fare pace con la nostra impotenza aspettando di tornare a essere polvere?
Il volume La legge del desiderio riparte proprio da qui. Da una possibile risposta che non si areni necessariamente nella vacuità del Qohelet, né si infranga sullo scoglio freudiano. E laddove prima vi era la parola, l’onere e l’onore dell’animale umano, il simbolico preso alla lettera (nel bene e nel male), ora subentra il reale del desiderio, un deus ex machina che Recalcati consacra alla testimonianza di Gesù, al suo insegnamento, ai suoi miracoli e, non in ultimo, alla sua condanna. L’atmosfera sembra farsi meno cupa, ma in compenso la posta si alza. La legge della parola ci forniva le coordinate della necessità, ci proponeva una batteria di concetti (l’odio, l’invidia, il sacrificio, la ripetizione, il fantasma) con cui occorreva fare i conti perché fondanti l’esperienza dell’umano, perché parte di un destino che guida ciascuna delle nostre più intime vicissitudini. La legge del desiderio, d’altro canto, mette da parte l’esegesi concettuale per inoltrarsi sul sentiero dell’etica, del compito più difficile, proprio perché in parte risparmiato dal peso della necessità. E lo fa partendo dalle tetre premesse con cui si chiudeva il suo predecessore, faccia a faccia con il primo di molti altri paradossi che il lettore incontrerà nel corso del libro: cos’hanno da dirsi la Legge e il desiderio? Essi non sono forse, come il senso comune e una certa propaganda ci abituano a pensare, due estremi inconciliabili?
La Torah sembrava suggerire che il compito della Legge fosse di interdire il desiderio, che il desiderio è un capriccio che contraddice la nostra ottemperanza nei confronti della Legge. Chi desidera si perde, viene meno al proprio patto con il divino, e per questo non sarà graziato. Il desiderio mondano si rovescia nella dannazione eterna. La seduzione di Eros ci ascrive al libro nero della malattia. Ma è davvero così che stanno le cose? Con un ingegnoso incrocio tra i passi biblici e la letteratura psicoanalitica, Recalcati ci dimostra che un simile aut aut non regge. Che in modo non diverso da Freud, quando Mosè ci esortava a tenere a bada il desiderio non lo faceva in virtù di un presunto conformismo totalitario, di una dittatura assoluta della Legge che sopraelevava quest’ultima oltre ogni vicenda terrena. In modo del tutto opposto, il messaggio di Freud/Mosè si riferiva a un particolare e ostinato tipo di desiderio. Un desiderio perverso, mortifero, l’unico di cui si può essere veramente colpevoli, che non è altro che il desiderio dell’uomo di essere Dio.
È un motivo che ricorre spesso anche nella psicoanalisi, e il cui significato – si badi bene – non è morale (come dire, “è sbagliato desiderare di essere Dio”), quanto piuttosto strutturale, un limite inciso nella carne e nelle ossa che abitiamo. L’interdizione del desiderio di sostituirci a Dio (oggi banalmente associato alle personalità narcisistiche, quanto in realtà di matrice perversa) ci fornisce la prova che si può desiderare tutto, eccetto il tutto. Questo interdetto fondamentale, come insiste Recalcati, non mortifica la vita. Semmai, la rende possibile. La vita può dirsi attiva, desiderante, solo sullo sfondo della rinuncia al tutto. Lacan su un simile argomento non concedeva spiragli: il desiderio di tutto è talmente pieno da percepirsi come realizzato, e un desiderio realizzato è semplicemente un desiderio morto. La novità del messaggio di Gesù rispetto alla fraintendibile interpretazione di Mosè, l’aggiunta cruciale all’imperativo di non essere Dio, consiste nel decretare che il vero nome della Legge è proprio il desiderio. La scommessa etica del soggetto non si gioca nella contrapposizione muscolare tra la Legge e il desiderio, in quella febbre che faceva dire a San Paolo che è il divieto a infiammare le nostre più segrete aspirazioni, quanto nella realizzazione ultimativa che il desiderio è la (sola) verità della Legge.
Con buona pace di quei sistemi politici che Lacan incapsulava nell’adagio “per il desiderio ripassate un’altra volta”, la Legge è, esiste, affinché il desiderio vi adibisca il suo spazio. «Il giudizio non deve più riguardare – scrive Recalcati – la conformità o meno della vita alla Legge, quanto il rapporto della vita con se stessa, con il suo proprio desiderio» (Recalcati 2024, p. 7). Il desiderio si stacca dalla Legge nella misura in cui non può essere condiviso con nessun altro. Eppure, il desiderio si realizza pienamente soltanto nella sua adesione differita alla Legge, nell’apertura sovrabbondante di chi non teme le ripercussioni dell’incontro con l’estraneo, il dissimile, l’eccedenza del Sé. Quel prossimo che inorridiva persino Freud, che da un lato si cela nel comandamento dell’“ama il prossimo tuo come te stesso” – l’altro troppo vicino e troppo umano – e, dall’altro lato, rovescia il prossimo nel metipsimus, ciò che vi è in me più di me, l’altra scena, lo straniero del godimento.
Non perché il desiderio debba, alla fine dei conti, patteggiare con la Legge, derogare a essa «tutto ciò che la ragione strumentale non può governare» (ivi, p. 435). Quanto perché il desiderio, proprio in quanto singolare, dissidente, non risponde ad altro che alla (propria) Legge. Il desiderio non è il messaggio criptato che ci convoca da un passato lontano ma, in modo simile alla parola di Gesù, è l’adesso che si impone con il carattere urgente dell’evento, è la chiamata che nessuna archeologia potrà mai esaurire.
Lo vediamo bene nello statuto dell’interpretazione, sia esso del lavoro analitico o della rivelazione della verità incarnata da Gesù, della parola che, libera dal lavoro a senso unico del concetto (la necessità), si fa carne (il reale come orizzonte della vita, dell’indistruttibile che resiste a tornare polvere). In un percorso che ricalca per certi versi l’utilizzo che Recalcati fa del Qohelet tra un libro e l’altro, troviamo lo stesso Freud dirsi via via più scettico nei confronti della verità dell’interpretazione. Al punto che, negli ultimissimi anni della sua vita, egli arriverà a contrappore questo strumento a un altro a essa simile, ma non per questo equivalente, e cioè la costruzione.
Un esercizio rischioso, precipitoso, che consiste nel presentare all’analizzante una verità preformata, una verità che – ribatte Freud – forse esiste solo nel giudizio dello psicoanalista: tu sei questo, eccoti rivelato il senso delle tue disavventure. Lacan raccoglierà il pessimismo di Freud assottigliandone ancora di più la funzione ermeneutica. E illustrandola attraverso la vertiginosa logica della profezia che l’oracolo fa a Edipo: l’interpretazione non come verità inerte, anticipazione inscalfibile del proprio destino, bensì come effetto di verità, qualcosa che si avvererà solo se il soggetto ci avrà messo del suo. Ecco perché, in fin dei conti, la chiamata etica del fine analisi, che consiste nel limitarsi a mostrare al soggetto il punto in cui è impietrito, tocca le stesse note del sacramento gesuano dell’Effatà, della parola ebraica che invece di prescrivere, di imporre all’interlocutore il suo dover essere, si limita a dire “Apriti!”. Apriti affinché il desiderio possa occupare nuovamente il posto in cui un tempo non vedevi che la Legge.
Se vogliamo, è il medesimo sottotesto che alimenta la formula freudiana del “laddove era l’Es, io debbo avvenire”, per lo meno prima che decadesse nella sua triste accezione di bonifica, di incivilimento dell’inconscio: l’io che non si barrica più dal desiderio inconscio come un pericolo, una minaccia dall’altrove, ma lo riconosce come la Legge che può rendere possibile il suo rapporto con l’Alterità. Con l’eteros – il diverso, lo straniero – che è in lui ancor più che al di fuori di lui.
Concludo con una constatazione. Che i biblisti non me ne vogliano. In uno dei testi cardine dell’etica della psicoanalisi, il criptico Kant con Sade, Lacan elogia il Gesù ritratto da Ernest Renan nel suo Vita di Gesù: tutt’altro che composto o cattedratico, il Messia renaniano è per Lacan un trickster, un abile giocatore che per strigliare i suoi interlocutori non risparmia loro provocazioni e prese in giro. A ben vedere però, e ci perdoni anche Lacan, il ritratto di Renan non è affatto caricaturale. Non è poi così sopra le righe come l’arte romanzata richiederebbe. Anzi, rispecchia forse, senza eccessi e senza iperbole, l’ambiguità della persona di Gesù rispetto a chi lo circondava. Il suo essere restìo, come Recalcati sottolinea più volte, a compiere i tanto rinomati miracoli, a spettacolarizzare il famoso verbo che fa le cose a detrimento dell’etica del desiderio.
La sfrontatezza nell’aggirare l’ingiunzione medicalista alla cura per soffermarsi sulla domanda che, oggi, pochi clinici avrebbero il coraggio di pronunciare: “Ma tu, vuoi davvero guarire?”. La sua reputazione dissacrata dai dottori della Legge, dagli scribi e dai farisei che lo descrivevano come un farabutto, un impostore, un delirante è, se volete, la cifra freak della figura di Gesù, quella che Nietzsche avrebbe definito la sua intempestività, il senso della terra prima di quello del cielo o, per dirla alla Recalcati, la sostanza della sua chiamata anti-religiosa: perché se la religione è, etimologicamente, ciò che lega, chiude e sigilla, la parola di Gesù chiama la vita ad aprirsi. La scuote affinché essa assuma su di sé «ciò che i greci chiamavano buona o cattiva sorte, tyche, che poi stranamente, per vie diverse, si collega all’ananke, vale a dire alla necessità del destino di tutti» (Fachinelli 2012, p. 112). Il desiderio, appunto.
Riferimenti bibliografici
E. Fachinelli, Imprevisto e sorpresa in analisi, in Su Freud, Adelphi, Milano 2012.
Massimo Recalcati, La legge del desiderio. Radici bibliche della psicoanalisi, Einaudi, Torino 2024.