I lettori di Giorgio Agamben sono abituati all’alternarsi, nei suoi libri, delle lunghe esplorazioni archeologiche, che passano in rassegna una molteplicità apparentemente disparata di autori e testi del passato, e della folgorazione improvvisa che le raccoglie tutte nell’evidenza di una costellazione o nella semplicità apparente di una formula magica. È questo stesso ritmo che percorre La follia di Hölderlin, benché non si tratti qui di archeologia, ma della cronaca di una vita abitante (1806-1843) – come recita il sottotitolo del libro. Anche qui, infatti, il dipanarsi lungo e sinuoso della vita del poeta (dal momento del suo ritiro nella casa-torre sul Neckar, presso il falegname Zimmer, sino alla morte) è come incastonato tra un Prologo e un Epilogo in cui Agamben prova ancora una volta a fissare il problema che da diversi anni i suoi studi cercano di circoscrivere: quello di una forma di vita alternativa al modo della vita attiva.

In verità è già la cronaca, o almeno una parte di essa, a presentare icasticamente l’opposizione tra i due modelli: da una parte, nelle pagine di sinistra, gli eventi storici degli anni 1806-1809, intercalati dalle pagine del diario di un Goethe che è pubblico e diplomatico anche quando si tratta della sua minzione («31 gennaio [1806]. Goethe, che come consigliere segreto, esercita la funzione di ministro della cultura del ducato di Weimar e soffre di disturbi urinari, esclama in una conversazione: “Ah, se il buon Dio volesse farmi dono di uno di quei sani reni russi caduti a Austerlitz!”»), d’altra parte, nelle pagine di destra, gli accadimenti di una vita chiusa in se stessa che, per quanto sia quella di un folle attestato da medici, parenti e amici, trascorre per lo più in pace e contenta, come usa dire il buon Ernst Zimmer. Ma è soprattutto in alcune brevi pagine del Prologo e dell’Epilogo che Agamben prova a pensare attraverso la vita e la follia di Hölderlin.

L’enigma che avvince il pensatore è formulato dal poeta nel primo verso di quella che è forse la sua ultima veduta dalla torre di Tübingen: «Quando lontano va la vita abitante degli uomini (Wenn in die Ferne geht der Menschen wohnend Leben)». Che cos’è, dunque, una vita abitante? Qual è il lascito – «propriamente politico» (Agamben 2021, p. 221) – che il poeta consegna qui al pensiero? Che cosa si cela e che cosa si manifesta in questa vita che pretende di trasfigurare lo stesso nome proprio di chi la vive nei nomi apocrifi (Scardanelli, Scarivari, Salvator Rosa, Scaliger Rosa, Killalusimeno, Buonarroti) che firmano le ultime poesie? Sono almeno due le direzioni che Agamben cerca di percorrere.

La prima punta verso la commedia. Ed è già un paradosso estremo, se si ricorda sino a che punto Hölderlin si sia impegnato non solo a riflettere sulla tragedia greca, ma a tradurla sino all’esaurimento delle sue potenzialità linguistiche e speculative – ma un paradosso del tutto fondato, considerando l’identità che lo stesso Hölderlin (in una lettera a Böhlendorf) sembra stabilire tra l’idillio (genere poetico eminentemente anti-tragico) e quella che chiama «tragedia moderna» (ivi, pp. 35 e sgg.). L’idea di Agamben è che Hölderlin, pur avendo in qualche modo esaurito la tragedia, cioè il genere letterario (che è per lui anche, inseparabilmente, un genere di vita) fondato sulla colpa dell’individuo come tale:

Non vedesse ancora altro varco al di là del tragico se non attraverso la follia – ma questa doveva allora assumere i caratteri e le maniere di una commedia, di una “beffa sublime”. Di qui l’esagerata cortesia con cui accoglie e tiene a distanza i visitatori (…); di qui le parole insensate con cui si diverte a sorprenderli: Pallaksch, pallaksch (…); di qui la sublime ironia con cui a chi gli chiede una poesia risponde: “Devo scrivere sulla Grecia, sulla primavera o sullo spirito del tempo?” e al visitatore a cui sta leggendo una pagina dell’Iperione fa bruscamente notare: “Guardi, gentile signore: una virgola!” (ivi, p. 41).

Così la vita del poeta nella torre appare come la risposta estrema, certo, ma concretissima, alla domanda sul come sottrarsi al destino colpevole che pesa sulle nostre stesse vite, in quanto protagonisti di un’esausta tragedia moderna. E allora proprio il rifiuto del nome proprio («Sì, le poesie sono autentiche – spiega il poeta a chi gli mostra l’edizione delle sue opere – ma il nome è stato falsificato, io non mi sono mai chiamato Hölderlin, ma Scardanelli», ivi, p. 213) testimonia della svolta poetica ed esistenziale dalla tragedia alla commedia, se è vero che «mentre nella tragedia il nome, in quanto esprime il nesso destinale fra l’uomo e le sue azioni, è unico e immutabile, nella commedia i nomi, che non identificano un destino o una colpa, sono casuali, sono sempre e soltanto nomignoli, mai veri nomi» (ivi, p. 215).

La seconda via lungo la quale si spinge Agamben cercando di custodire il lascito della vita di Hölderlin (una via che in fondo non fa che ricalcare i sentieri della prima) lo conduce all’abitare come paradigma di una vita, per così dire, indistruttibile, di una vita che non venga sottratta a se stessa, mutilata dalla boria dell’azione e della storia. Abitare significa, fondamentalmente, prendere l’abitudine di stare in ciò che si ha di più proprio e, insieme, di più comune: la capacità di essere, cioè di godere o di fruire della propria stessa natura. In questo senso, abitare è l’unico modo di resistere non tanto alle sirene che vorrebbero trascinarci sempre altrove, verso altri lidi e verso altri modi di vivere, ma alle pretese del nostro stesso desiderio e delle nostre stesse ambizioni – quelle che ancora ci rendono meritevoli o colpevoli, autori del nostro successo o del nostro fallimento. E se è vero che abitare è l’unico modo che abbiamo per mettere al riparo la vita dalla sua e dalla nostra furia devastatrice, si comprende in che senso non possa che essere l’oggetto di una veduta comune e dunque un compito eminentemente politico. Se quella attuale non è l’ora della sua necessità, pallaksch, pallaksch.

Giorgio Agamben, La follia di Hölderlin, Einaudi, Torino 2021.

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