Qual è il rapporto tra democrazia e verità? Democrazia e finzione? Democrazia e menzogna? Ecco le questioni chiave, interamente eluse, che si celano dietro le polemiche attorno alla decisione di Mark Zuckerberg di abbandonare, su Facebook e Instagram, il sistema di moderazione basato sul fact-checking adottato a partire dal 2016. Senza entrare troppo nei dettagli tecnici: i contenuti non verranno più verificati da controllori scelti tra giornalisti, organizzazioni come l’International Fact-Checking Network o anche università e istituti di ricerca. Si passa a un altro modello (Community Notes Model), già adottato su X: gruppi di utenti autorizzati potranno aggiungere note o chiarimenti a contenuti considerati controversi. Tutto questo in nome di una maggiore libertà di espressione e di parola.
Zuckerberg si è riposizionato politicamente dopo la vittoria di Trump per tutelare i suoi interessi? Probabile. Ma occorre valutare la portata politica, o meglio, filosofico-politica di questo cambiamento invece di liquidarlo immediatamente come pericoloso cedimento all’egemonia trumpiana o, come piace dire oggi, al tecno-capitalismo di Musk.
Non appena Zuckerberg ha comunicato la sua decisione, gli intellettuali di sinistra hanno immancabilmente reagito con i consueti toni apocalittici. Uno per tutti: Saviano ha affermato, sul suo canale YouTube, che il CEO di Meta avrebbe ucciso Facebook e Instagram perché, con la fine del fact-checking, verrebbe meno la possibilità di “contenere le fake-news, l’orrore della propaganda”. Il cuore della polemica intellettuale è tutto qui: il venir meno del controllo, affidato a terzi, della veridicità di dichiarazioni e notizie intesa come adeguazione di ciò che viene detto ai fatti.
L’idea di verità che è alla base del fact-checking è l’idea aristotelico-scolastica di verità come adaequatio rei et intellectus, o se si preferisce, come adeguazione tra la proposizione e la cosa. Un’idea che non viene interrogata, quasi fosse un semplice fatto naturale, scontato, incontrovertibile. Anche quando sono coinvolti esperti che si occupano di questi temi, è il caso del dialogo pubblicato su Lucy tra Nicola Lagioia e Francesca Lagioia, il discorso non cambia: il fact-checking viene difeso a spada tratta come sistema di classificazione della notizia come “vera, falsa, parzialmente vera, fuorviante o non verificabile” sulla base di “prove raccolte” a partire da fonti quali “documenti ufficiali, dati statistici o articoli scientifici”. In poche battute vengono sollevati, senza nemmeno accorgersene, tutta una serie di problemi su cui in filosofia si è discusso moltissimo, almeno a partire da Nietzsche.
Ora, se c’è qualcosa che nello spazio del pensiero contemporaneo, non solo filosofico, è guardato come un inutilizzabile ferro vecchio (con l’eccezione di qualche nostalgico realista ingenuo) è proprio questa idea di verità come adeguazione tra parola e cosa, discorso e realtà, proposizione e stato di cose. Di più. Se c’è qualcosa di reazionario, dal punto di vista del pensiero, è proprio la nostalgia di questa idea di verità che ha sempre alimentato il potere di chi si arroga il diritto di stabilire cosa è vero e cosa non lo è, di chi controlla l’ordine del discorso. Perché i fatti, da soli, non hanno mai parlato.
Che cosa difende dunque chi difende il fact-checking su Facebook e Instagram e vede nella sua fine una catastrofe? Un vecchio mito, una favola, che ha una peculiarità: si presenta come unica favola possibile, unica narrazione legittima, come favola vera con i suoi guardiani a cui è stato delegato il potere di stabilire che cosa è vero e che cosa è falso, che cosa è accettabile e che cosa è sospetto, senza che nessuno si sia posto il problema: “Quis custodiet ipsos custodes?”, “Chi sorveglia i sorveglianti?”. Tutto questo naturalmente per il nostro bene di utenti: il fact-checking è una piccola pedagogia della verità per un popolo pensato non come attore democratico, ma come potenziale vittima da proteggere di fake-news.
L’ossessione per il fake è l’ossessione per l’unicità di una narrazione che non prevede contro-narrazioni, ed espunge il resto come falso, come parola che non ha diritto di cittadinanza, in nome della difesa di un popolo-potenziale-vittima che, non avendo gli strumenti per giudicare, deve essere guidato nel cammino verso la verità dai guardiani. Dietro questo discorso c’è l’idea di uno spazio democratico come spazio dell’Uno: dell’accordo dialogico attorno a una Verità-Bene che deve essere difesa dalle minacce del falso e della finzione che rischiano di corromperla sviando il demos e conducendolo sulla via dell’errore e della perdizione. È questa idea di democrazia, non la fine del fact–checking, a essere pericolosa.
La democrazia nella sua opposizione a dittature e totalitarismi è l’antitesi dello spazio della narrazione vera in primo lugo perché è lo spazio che ha un debito costitutivo con la finzione a cui si lega il diritto di dire tutto. Non è un caso che questa ossessione per il discorso vero sia andata di pari passo, in questi anni, con la messa in discussione della libertà di espressione. Il dominio del politicamente corretto e del discorso Woke ha coinciso con la progressiva erosione del diritto alla libertà di espressione in nome di una narrazione presentata come vera e buona.
Che fare? Tornare ai fondamentali. Occorre riprendere i fondamentali di una filosofa che nel corso del Novecento ci ha insegnato a diffidare dei guardiani di presunte verità, delle narrazioni che si presentano come vere, dell’esistenza di fatti: sono tutti dispositivi di potere. Come ricordava Derrida, la democrazia è altro: è uno spazio aperto, plurale, irriducibile all’Uno e alla verità, lo spazio del dissidio e delle differenze irriducibili, costitutivamente abitato dalla finzione. Nel corso del confronto con Elisabeth Roudinesco pubblicato in De quoi demain… Derrida afferma: «La legittimazione performativa di una finzione, la legittimazione come finzione, l’istituzione di uno Stato di diritto, e per esempio del diritto di dire tutto pubblicamente, dipende da un potere di finzione, e da un credito accordato a una certa finzionalità» (2001, p. 209).
È questa struttura che garantisce a tutti, anche a chi a mio giudizio propaganda fake news e menzogne, e incarna quello che considero il peggio e il peggior pericolo, di parlare e di scrivere. Anche perché le forme di censura più o meno esplicite avranno un solo effetto: la martirizzazione dei censurati che attaccheranno così la democrazia che rinnega la propria natura. Prosegue Derrida: «Bisogna al contempo rispettare la libertà e non provocare i raggruppamenti martirologici di persone che si sentono censurate e rischiano allora di denunciare, a buon diritto, la società democratica nella quale vivono» (ivi, p. 215) . Per questo Derrida arriva a dire: «So che non bisogna rischiare di legittimare nello spazio pubblico la propagazione di un discorso negazionista o che fa appello all’odio raziale. Ma bisogna imperativamente lasciare parlare chiunque. E scrivere chiunque, nello spazio pubblico, e permettergli di cercare di raggiungere un destinatario» (ibidem).
Il fact checking è stato in questi anni il tentativo egemonizzare, attraverso l’ideologia Woke, uno spazio che è costitutivamente aperto e conflittuale. “Conflitto” è la parola che dovremmo recuperare al posto di “verità”. Lo spazio della democrazia è lo spazio non del dialogo irenico controllato dai guardiani della verità, ma lo spazio in continua trasformazione e mai pacificato del conflitto delle interpretazioni. Questo vuol dire che è in gioco la forza? Certo, come da sempre accade non appena c’è atto di parola e confronto con l’Altro.
In questi anni la sinistra orfana delle grandi narrazioni novecentesche ha pensato di controllare la circolazione dei discorsi e della parola nello spazio democratico affidandosi ai propri fantasmi politicamente corretti di cui è diventata schiava. E in questo si è comportata come Jorge, il guardiano cieco della biblioteca creato da Eco ne Il nome della rosa: «Jorge ha compiuto un’opera diabolica perché amava in modo così lubrico la sua verità da osare tutto pur di distruggere la menzogna. Jorge temeva il secondo libro di Aristotele perché esso forse insegnava davvero a deformare il volto di ogni verità, affinché non diventassimo schiavi dei nostri fantasmi» (Eco 1980, p. 494).
La democrazia non è lo spazio della difesa della verità, ma lo spazio che ci libera dal suo fantasma: è lo spazio della salutare deformazione della verità, come riscrittura attiva e interpretazione costitutivamente aperta. Ecco, sempre con le parole di Eco, il compito a casa per gli intellettuali politicamente corretti che si strappano le vesti per la fine del fact-checking: «Forse il compito di chi ama gli uomini è di far ridere della verità, fare ridere la verità, perché l’unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana per la verità» (ibidem).
Riferimenti bibliografici
U. Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano 1980.
J. Derrida, E. Roudinesco, De quoi demain… Dialogue, Fayard-Galilée, Paris 2001.