Le immagini sono qualcosa di più di un oggetto per la filosofia. Sono una sfida con cui confrontarsi criticamente: la loro esplorazione non finisce di affascinare pensatori di epoche diverse; su di esse si gioca lo statuto stesso del pensiero filosofico. Per questa ragione i curatori Mauro Carbone e Raoul Kirchmayr hanno intitolato il numero 396 (dicembre 2022) di “aut aut” La filosofia come sapere visuale. Da Platone in avanti l’immagine è l’occasione per interrogarsi su quale sia l’oggetto di una vera conoscenza della realtà. La prospettiva del numero non è limitata alla fenomenologia e alla filosofia francesi del XX secolo, che pure hanno dato un contributo importante alla questione delle immagini e di cui i due curatori sono specialisti: il punto di vista è più profondo e vasto, toccando oltre ad autori come Merleau-Ponty (Mauro Carbone) e Deleuze (Jacopo Bodini), temi e pensatori dall’antichità (Plotino, Roberto Diodato) a Nietzsche (Pina De Luca), passando per Kant (Pietro Montani) e Schopenhauer (Raoul Kirchmayr). Venendo ai classici del Novecento, un’attenzione particolare va anche alla Germania, con Husserl (Emmanuel Alloa) e Benjamin (Andrea Pinotti).
I dispositivi e le pratiche dell’immagine sono in effetti un focus particolare di questo numero monografico: il “visuale” (Stefano Catucci) è una categoria imprescindibile per comprendere l’età contemporanea, sia in chiave di archeologia dei media, analizzando ad esempio l’immagine-caleidoscopio (Marie Rebecchi), che analizzando gli usi politici della fotografia (Annarosa Buttarelli), o riscoprendo il contributo di un pensatore originale come Vilém Flusser (Graziano Lingua). Nell’introdurre il numero, i curatori indicano le sue finalità:
Inventariare i luoghi classici in cui la discorsività filosofica lascia alle tecnologie del visuale uno spazio di cui si è cercato di descrivere i caratteri specifici […]; analizzare lo statuto epistemologico di tali caratteri, in modo da evidenziarne il senso, la portata e le eventuali conseguenze sugli sviluppi della discorsività filosofica stessa […]; analizzare gli effetti discorsivi e testuali […] legati all’impiego di riferimenti ad apparati e media visuali (Carbone, Kirchmayr 2022, p. 5).
L’intento è di andare oltre le divisioni tra filosofia e “scienza dell’immagine” per sviluppare un metodo di interpretazione a tutto tondo del visuale. La scansione tematica scelta dai curatori per le diverse sezioni rende l’idea del percorso, plurale ma coerente, qui prospettato. Non essendo possibile ripercorrere tutti i contributi, cercherò di ricostruire un filo rosso attraverso alcuni di essi. La prima sezione, I filosofi e il visuale, può essere letta come un ripensamento dell’ontologia dell’immagine non come ontologia “regionale”, bensì come riflessione sull’essere a partire dall’essere dell’immagine. Mauro Carbone rilegge il pensiero di Merleau-Ponty a partire dal rapporto con l’estetica kantiana. In questa prospettiva l’immagine è pensata come idea «allo stato nascente»: «Pensiero poietico e analogico, insomma, che può rendere sensibile quanto eccede il sensibile grazie all’eccedenza del sensibile stesso» (ivi, p. 19). Di questa trama sensibile Roberto Diodato dà conto attraverso una genealogia che ha origine in Plotino. Lungo questa linea l’immagine è concepita come «un logos-chair trasgressivo che prende forma in esempi di intrecci tra materia e idea» (ivi, p. 70): l’immagine non restituisce l’essere attraverso una percezione passiva, ma invita a una partecipazione radicale, un uscire fuori di sé per fondersi con ciò che incontriamo. Il neoplatonismo anticipa in questo senso la realtà virtuale.
Nella seconda sezione, Immagini e pensiero, Pietro Montani torna su Kant e la questione dello schematismo, attraverso cui l’immaginazione sintetizza i dati sensibili in vista dell’esperienza. Questa funzione, riletta come momento decisivo nel processo evolutivo di homo sapiens, rende ragione dell’emergere di due capacità proprie della specie umana: la facoltà di linguaggio e l’incomparabile abilità tecnica. Lo schematismo opera infatti come una “semantica fondamentale” che fa da «interfaccia, continuamente aggiornata, grazie alla quale le forme espressive (linguistiche o prelinguistiche) si garantiscono un riferimento costante e sistematico alla materia dell’esperienza e, insieme, partecipano efficacemente alla sua riorganizzazione» (ivi, pp. 82-83). Schematizzare la realtà configurandola in immagini del mondo significa anche aprirsi a un’esperienza della temporalità, appresa o anticipata. La fenomenologia, a partire da Husserl, riprende la questione dello schematismo sotto il segno del tempo: Emmanuel Alloa rilegge alcuni testi meno frequentati di Husserl sulla scorta delle interpretazioni di Fink, Kittler, Maldiney e Ricoeur. Schematizzando il tempo, il soggetto ne elabora un’immagine diagrammatica, di cui tuttavia già Husserl coglie una fondamentale “fallacia”: «Non ci orientiamo nel tempo come ci orientiamo nell’immagine» (ivi, p. 119). La “ragione grafica” che presiede a tale operazione comporta infatti una spazializzazione del tempo, che si traduce in uno scarto tra il contenuto dell’immagine e quello dell’esperienza.
Nella terza sezione, Il visuale tra tecnologie e teorie, Marie Rebecchi ricostruisce a cavallo tra XIX e XX secolo – il caleidoscopio è annunciato da Brewster nel 1817 – l’emergere di un immaginario che va al di là della tecnologia, investendo estetica e politica. Prende forma l’idea di una «modernità allucinata» (ivi, p. 157), che si riflette in immagini astratte e oniriche, in un altro da sé fantastico e tuttavia capace di cogliere lo spirito dell’epoca. L’inversione tra tecnologie e teorie è un tratto caratteristico del visuale moderno: ora sono le prime a fornire i paradigmi della visione alle seconde. Stefano Catucci rintraccia i sintomi di questo nuovo modo di concepire i rapporti tra sapere e tecnologia del visuale in alcuni degli eventi e dei processi che portano verso la dimensione biopolitica dell’organizzazione pianificata della vita, dall’esperienza della Grande Guerra fino alla creazione di dispositivi di controllo attraverso la pratica medica e clinica. Se ne ricava il bisogno di un ripensamento dell’estetica, con e oltre Foucault, di fronte a un’immagine che non appartiene più al regno delle belle apparenze. Va al contrario riconosciuta la «costitutiva instabilità dell’immagine, un’ambivalenza che la espone a tecniche di decodificazione il cui rapporto con ciò di cui sono segno non è lineare» (ivi, p. 190).
Il numero è concluso da Andrea Pinotti, che ricostruisce una delle categorie fondamentali per comprendere lo stabilirsi di questa relazione tra tecnologie e teorie del visuale: quella di “innervazione”. Il concetto, coniato da Georg Simmel e sviluppato da Walter Benjamin, ma con un importante antecedente nelle considerazioni che Marx fa nei Manoscritti del 1844 a proposito dei sensi come “organi sociali” e con un’apertura agli studi iconologici che stavano rinascendo in quegli stessi anni, ci riporta al tema di apertura: la capacità che hanno le immagini di ridisegnare i modi e le forme della sensibilità attraverso l’innesto di pratiche e tecnologie del vedere. La sensibilità innervata tecnicamente non è più solo un medium ricettivo, ma diventa un “medium di trasporto” al centro di una relazione di scambio tra il mondo che colpisce i sensi e il soggetto che esprime affetti ed emozioni. Questa condizione rivoluzionaria, colta profeticamente da Benjamin, ci porta direttamente all’oggi e all’idea che l’immagine non funziona più come rappresentazione-cornice di una presenza assente, bensì come “teletrasporto” – pensiamo alla realtà virtuale o al Metaverso – che ci immerge in una presenza immaginata che anticipa e plasma ciò che accade nel mondo. L’immagine si offre dunque come bussola per orientarsi nella complessa evoluzione della rete e nella continua produzione di nuove tecnologie di visualizzazione, e simulazione, del reale.
Mauro Carbone, Raoul Kirchmayr, a cura di, Aut aut n. 396: La filosofia come sapere visuale, il Saggiatore, Milano 2022.