L’apparente semplicità del caso che il giudice Fiona Maye si trova ad affrontare ne Il verdetto, film del 2017 di Richard Eyre (tratto dal romanzo La ballata di Adam Henry di Ian McEwan, anche sceneggiatore della pellicola), assume nelle sue pieghe la complessa questione del rapporto tra diritto e cultura. Il quasi diciottenne Adam, affetto da una grave forma di leucemia, deve sottoporsi ad una trasfusione di sangue per proseguire le uniche cure in grado di salvargli la vita. Ma Adam e la sua famiglia rifiutano i trattamenti medici poiché in contrasto con i principi religiosi dei Testimoni di Geova, a cui aderiscono, che vietano il mescolamento del sangue. Il verdetto appare scontato, il ragazzo, ancora per pochi mesi minorenne, è per legge soggetto ai poteri decisionali degli adulti, la decisione è, allora, tutta nelle mani del giudice. Eppur Fiona Maye esita, sceglie di parlare direttamente con il giovane e si reca in ospedale, inaugurando una prassi del tutto inusuale per la cultura giuridica anglosassone. Fra dubbi ed esitazioni il verdetto del giudice autorizza a procedere con le trasfusioni di sangue necessarie alla sopravvivenza del giovane, sancendo il primato della vita sulla morale, rendendo secondarie le motivazioni individuali.

Quella che può sembrare la fine scontata di un legal thriller, però, è in realtà l’inizio di una nuova vita per entrambi, l’altra faccia della linearità della ragione legale, alle prese con cambiamenti profondi che li coinvolgono reciprocamente. Fiona Maye, giudice dalla ferrea integrità morale, la cui esistenza fuori dal tribunale sembra irrigidirsi sempre più fino ai limiti dell’incomunicabilità, e Adam Henry, giovane ma fervente testimone di Geova che la legge restituisce alle cure ma a cui sottrae la fede e in definitiva la vita stessa. L’interrogativo cruciale che sottilmente permea la vicenda giudiziaria è, allora, fino a che punto può spingersi il diritto e qual è il suo ruolo di fronte all’influenza delle culture sulla condotta del singolo individuo nell’odierna società multiculturale. Questo tipo di tensione culturale è protagonista del ricco testo di Alessandro Provera, Tra frontiere e confini (2018), che declina la questione nell’ambito del diritto e specificatamente da una prospettiva penale.

Che posizione deve assumere il diritto penale innanzi ai reati culturalmente orientati? Di fronte, cioè, alle condotte individuali determinate da specifiche appartenenze culturali? Il tema è quanto mai attuale oltre che controverso e il volume ha come primo merito quello di mettere ordine a concetti tutt’altro che scontati come “società multiculturali”, “reati culturalmente motivati” e “cultural defense”. Tutte nozioni che, però, sembrano sottostare al chiarimento preventivo della nozione di cultura. Nella sterminata galassia polisemica a cui il termine fa riferimento, l’unica definizione che sembra avere profili di rilevanza in ambito giuridico è quella di «cultura etnica» (Provera 2018, p. 15). La definizione che ne viene proposta implica il concetto di identità come agente modificatore della cultura, di cui è al contempo parte integrante, configurandosi quindi come prodotto dinamico dall’interazione tra individuo e società. Nel tentativo di specificare ulteriormente dal punto di vista penale il reciproco movimento di influenza tra cultura e identità, Provera segue le argomentazioni di Thorsten Sellin, individuando due principali fattispecie di conflitti culturali: «primari» e «secondari». La prima tipologia riguarda i casi in cui due culture collidono; la seconda, invece, la circostanza in cui un gruppo dominante impone le proprie norme ad altre comunità con il risultato di promuovere sottoinsiemi sociali in conflitto tra loro. Nell’ambito di queste due categorie, però, non si esauriscono tutti i casi possibili di conflitto culturale. Occorre, allora, distinguere ancora tra conflitto internal ed external: «Ossia un’antitesi mentale tra due norme, o un contrasto esterno tra due codici» (ivi, p. 31).

Una concezione – questa – che si riflette nelle dottrine giuridiche che affrontano la questione, sia in ambito internazionale sia per quanto riguarda i sistemi penali europei. Nell’ordinamento statunitense da tempo si affrontano i problemi derivanti dal rapporto tra diritto penale e multiculturalismo. Questo sistema giurisprudenziale avrebbe compreso prima di altri il ruolo del contesto sociale rispetto a chi commette reati. Nella variegata casistica di sentenze affrontate – dall’educazione dei bambini, alla gestione delle relazioni familiari fino al concetto di onore – la cultura sembra assumere le sembianze di una patologia che ottenebra le facoltà mentali. Una sorta di disturbo emozionale che determina specifici comportamenti (ivi, p. 145). Dunque l’idea di fondo della giurisprudenza americana è che l’orientamento culturale viene considerato, almeno in parte, una sorta di condizionamento mentale. Una prospettiva che permette riduzione di pena ma quasi mai esclusione di responsabilità. La proposta della dottrina statunitense è allora di una cultural defense formale, frutto cioè di un bilanciamento tra garanzia dell’ordine pubblico, diritti fondamentali e orientamento culturale (ivi, p. 162).

Su un versante quasi opposto sembra invece collocarsi la giurisprudenza israeliana, che per la sua complessa stratificazione multiculturale, dettata dalla ostica interazione tra popoli e religioni, offre un importante punto di vista. Qui l’elemento culturale, infatti, risulta un’aggravante delle responsabilità penali degli individui non appartenenti alla cultura dominante, vale a dire, quella ebraica (ivi, p. 175). Se il modello francese delle politiche di integrazione viene considerato fallimentare tanto quanto il modello inglese di impronta multiculturale, per quanto riguarda la legislazione italiana, i reati culturalmente orientati non sono quasi mai presi in considerazione. Una eccezione citata è quella che riguarda le mutilazioni genitali femminili, regolamentate da una norma specifica del codice penale (l’art. 583-bis c.p.). Una norma che però risulta eccessivamente generica e ambigua, poiché utilizza al contempo una terminologia medica accanto ad una non scientifica. Qualsiasi convincimento personale del reo è assolutamente irrilevante, non si dà alcuno spazio ad altro che non siano esigenze di tipo terapeutico, in conformità alla scienza medica comunemente ritenuta valida (ivi, p. 196). Eppure, fatta salva la costante storica dei flussi migratori, la contemporaneità, in Italia come in Europa, sembra investita da una richiesta sempre più pressante di riconoscimento giuridico di culture altre.

Riprendendo le argomentazioni sociologiche di Durkheim, nella prospettiva di Provera, all’evolversi della società, anche in virtù delle sempre maggiore differenziazione di diversi gruppi etnici, risulterebbe necessario il passaggio da una «solidarietà meccanica», cioè dalla spontaneità solidale di individui appartenenti ad un gruppo etnico, ad una «solidarietà organica», segnata cioè da aumento della normazione (ivi, p. 121). Se ciò non accade, si rischia di andare incontro all’anomia, una situazione in cui si genera uno scarto tra mezzi e fini: la società imporrebbe delle mete da raggiungere, ma mentre gli scopi, cioè la struttura culturale, sono mete generalmente condivise e costanti, i mezzi, ossia le strutture sociali dei quali gli individui si servono per perseguire tali fini, sono variabili. Ci si potrebbe dunque trovare a non avere mezzi congrui ai risultati richiesti dalle strutture culturali e quindi ad avere come ultima risorsa lo scombinamento radicale del sistema sia dei fini che dei mezzi, come dimostra il caso emblematico delle rivolte delle banlieau parigine del 2005. Ma se la democrazia è il sistema politico che garantisce la tutela, il rispetto e la convivenza pacifica di tutte le differenze di identità (Ferrajoli 2018), il diritto, e in particolare quello penale, dovrebbe contribuire proprio a tale progresso giuridico nell’attuale contesto multiculturale e globalizzato.

È in quest’ottica che Provera invoca allora, con Gadamer, il dialogo come generatore di una coscienza collettiva, primo atto di un incontro tra culture e memorie differenti (Provera 2018, p. 287). Tanto più che il contrasto culturale, dal punto di vista giuridico, ricadrebbe nell’ambito del conflitto piuttosto che del dissidio, poiché quasi sempre i diversi sistemi culturali esprimono valori conciliabili, sarebbero, invece, differenti le modalità con cui tali valori vengono perseguiti. Si guardi, ad esempio, l’idea di dignità in gioco per quanto riguarda le mutilazioni genitali femminili. Tali pratiche hanno infatti la loro ragion d’essere proprio nella garanzia della dignità della donna che altrimenti non verrebbe considerata degna di essere sposata, con tutto quello che ne consegue in certe organizzazioni sociali. Risulta essenziale allora comprendere a fondo tali motivazioni anche solo per vietarne la pratica, se l’obiettivo è l’integrazione e non la semplice punizione. In questo orizzonte sembra utile l’idea di Habermas dell’interazione dei «mondi di vita» come condizione pre-interpretativa, che garantisce, se non la giustizia, «il riconoscimento dell’esistenza di una ragione dell’agire altrui» (ivi, p. 288). Questo processo favorirebbe quello che Sellin chiama biological make-up, ovvero la capacità di mantenere la propria convinzione attraverso il confronto tra le differenti regole dei sistemi culturali: il riconoscimento dell’altro come elemento del sé.

Il dialogo dunque non è lo strumento per scrivere la norma, ma certo è la precondizione necessaria senza la quale certe condotte culturalmente orientate risulterebbero incomprensibili, tanto quanto oscure apparirebbero le sanzioni per il reo. Solo a partire da questa altezza può iniziare la riflessione politico-criminale. I reati culturalmente orientati, e veniamo ad un altro merito del volume di Provera, sarebbero cioè uno dei primi momenti di complementarietà tra giustizia riparativa e punitiva, una proposta politico-criminale che si avvale della restorative justice, creando momenti di integrazione tra il sistema punitivo e quello riparativo. La prevenzione e la cooperazione contro controllo e repressione sono gli elementi più idonei in particolare per i reati culturalmente orientati, non relegando al diritto penale il ruolo di risolvere qualsiasi conflitto della società contemporanea, ma consegnandogli una funzione di secondo piano: l’extrema ratio (ivi, p. 295).

Una proposta, quella di Provera, che risulta ancora più significativa davanti alle politiche di integrazione degli Stati occidentali, che ci hanno riportato ai tempi delle frontiere invalicabili e delle espulsioni di massa, relegando il destino di donne, uomini e bambini alla clandestinità come strategia di sopravvivenza e all’invisibilità da qualsiasi forma di diritto.

Riferimenti bibliografici
L. Ferrajoli, Manifesto per l’uguaglianza, Laterza, Roma-Bari 2018.
A. Provera, Tra frontiere e confini. Il diritto penale nell’età multiculturale, Jovene, Milano 2018. 

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