A oltre un quarto di secolo dalla sua distribuzione, come possiamo storicizzare Forrest Gump? Lavorare sul cinema degli anni novanta non è semplice. Per prima cosa, la percezione di continuità con il cinema di oggi, e dunque la comune appartenenza a quel continente storiografico ormai cronologicamente troppo ampio che va sotto il nome di cinema contemporaneo, ostacola un posizionamento definitivo. In secondo luogo, anche il regista — Robert Zemeckis — possiede una natura ambivalente di autore e di cineasta fortemente legato al mercato e alle sue logiche, ma anche di sperimentatore delle nuove tecnologie. Insomma, il suo statuto non è affatto accolto in maniera univoca, e vive della contraddizione di essere un po’ troppo spettacolare per i cinefili e un po’ troppo teorico per gli appassionati del cinema americano tradizionale.
La vita di Forrest attraversa l’intera storia americana, dai dorati anni cinquanta di Presley e della Guerra Fredda fino agli anni novanta della new economy, passando principalmente attraverso gli anni sessanta dell’omicidio Kennedy, delle Pantere Nere, del Vietnam. La nostalgia con cui Zemeckis racconta i periodi più contrastati del proprio paese (punteggiata dalle innumerevoli canzoni d’epoca), tradisce un animo ancora segnato dalle inquietudini della cultura sessantesca da cui proviene. Sembra quasi, insomma, che al regista interessi sperimentare come questi ideali siano mutati nel corso degli anni, e come gli uomini reagiscano allo scorrere implacabile del tempo. Nel film, infatti (cui non sarebbe estraneo né forzato un paragone con la trilogia di Ritorno al futuro) tutto diventa ciclico, e non per caso Forrest ritrova alla fine un piccolo Gump uguale a lui, ma più intelligente, attraverso cui la storia personale, famigliare, e forse collettiva, può continuare.
Quindi, il successo e la longevità di Forrest Gump non possono essere giustificati esclusivamente con la dimensione melodrammatica e fantastica del racconto. O con il sentimentalismo dell’assunto. Forrest non è un estraneo come E.T., cui è paragonabile per l’infantile adesione a uno spirito di bontà, fratellanza e altruismo. È un figlio dell’America profonda. Ma per essere così innocente ha bisogno di venire rappresentato come un uomo non sbocciato, uno sciocco del villaggio, un uomo candido (appunto) incapace di scorrettezze. In questo senso – e per comprendere fino a che punto sia fuori strada chi immagina Forrest Gump come apologia dell’everyman ubbidiente e conservatore — è interessante sottolineare un passaggio del film. Forrest si è appena laureato, principalmente per meriti sportivi (corre velocissimo, e tanto basta). Un reclutatore dei marines lo approccia appena ricevuti gli onori pubblici e uno stacco di montaggio ci avverte che Forrest, senza arte né parte, accetta al volo la proposta di arruolarsi volontario. Appena arrivato sul pullman che lo porterà nella caserma dell’addestramento, viene maltrattato dall’autista: il primo di una serie di urlacci e cattiverie da parte di sergenti brutali, che ricordano quello di Full Metal Jacket (Kubrick, 1987). A quel punto la voce narrante di Forrest […] spiega che, dopo gli iniziali problemi di adattamento, la vita militare gli si addice. Basta obbedire senza riflettere troppo.
Se Zemeckis (con lo sceneggiatore Eric Roth, che ha adattato il bel romanzo di Winston Groom) avesse voluto celebrare le doti di un soldato in grado di replicare per esempio le gesta del sergente York — citando l’omonimo film del 1941 di Howard Hawks con Gary Cooper — avrebbe raccontato un percorso di crescita e di convinzione personale. Invece Forrest si trova perfettamente a suo agio da subito, o meglio non appena comprende che l’esercito lo deresponsabilizza, in quanto dispositivo perfettamente oliato dove le asperità della società complessa, con le sue divisioni ideologiche e culturali, vengono tenute a bada.
Insomma, Forrest è l’idiota perfetto, così come l’amico e commilitone Bubba, per fare tutto quel che gli dicono. Inoltre, il già citato fantasma di Full Metal Jacket conferma questa interpretazione. Là un ottuso provinciale sovrappeso — soprannominato “Palla di Lardo” dal suo detestabile sergente — viene più volte traumatizzato, fino a che, a un certo punto, sembra intuire che tenendo il becco chiuso e seguendo alla lettera le regole, le cose per lui miglioreranno. […] Tuttavia, in un caso (Palla di Lardo) la follia endemica dell’esercito esplode nella testa del giovane. Nell’altro, le cose vanno per il verso giusto (si fa per dire) e Forrest sopravvive al Vietnam salvando anche la vita di tanti compagni. Quelle di Zemeckis verso Kubrick non sono citazioni, ma vaghe — seppur volontarie — analogie che servono per capire quale sarebbe stato il destino del personaggio di Forrest se solo non fosse stato completamente stupido e incapace di essere davvero ferito nel profondo dalla disciplina militare (anche perché non grasso, e nemmeno afroamericano o omosessuale o qualsiasi altra minoranza poco tollerata).
Nella più lucida lettura del film — firmata da Franco La Polla — il critico bolognese spiega che sarebbe sbagliato inserire superficialmente il personaggio di Gump all’interno del mito letterario del “sempliciotto”, colui che alimenta la bandiera della piccola comunità e rappresenta in tralice la filosofia dei buoni valori americani. Come spiega giustamente La Polla, «Forrest Gump non interpreta nulla, non catalizza nulla, non avvalora nulla», non è cioè un personaggio che agisce secondo il modello capriano, frankliniano, per ristabilire i fondamenti sociali a stelle e strisce. Ancora: «Forrest Gump non è tanto la storia del suo protagonista quanto quella degli Stati Uniti dell’ultimo mezzo secolo» (La Polla 1994, p. 61). Nel lungo saggio, si analizza la capacità di Forrest di essere al tempo stesso motore immobile e causa della Storia americana, che ne viene sempre toccata sebbene Forrest non faccia nulla per farla accadere. Il protagonista è una persona per bene, non intelligente ma nemmeno cattiva. Forse la sua connaturata ingenuità è l’unica difesa dalla violenza della Storia, che si ripresenta ossessivamente nel corso del film e che sembra colpire la Nazione più che Gump, che possiede lo scudo della sua stranezza.
[…] Forrest Gump è anche un esempio — e questo sì, lo possiamo riconoscere a così tanta distanza — di cinema americano che cerca una nuova classicità durante la temperie postmoderna. A nessuno sfugge che lo stesso anno esce Pulp Fiction (1994) di Quentin Tarantino, un film di un cineasta che sbalordiva per la sua disinvoltura cinefila e per la carica innovativa del suo patchwork enciclopedico. Quanto di più lontano dall’apparente cedevolezza emozionale di Forrest Gump. […] Un film celibe, senza troppi figli, poco raccolto dall’industria hollywoodiana, che cominciò dal giorno dopo a perdere un pezzo di identità.
Riferimenti bibliografici
F. La Polla, Forrest Gump di Robert Zemeckis, in “Cineforum”, n. 338 (1994).
Forrest Gump. Regia: Robert Zemeckis; sceneggiatura: Eric Roth; montaggio: Arthur Schmidt; interpreti: Tom Hanks, Robin Wright, Gary Sinise, Sally Field, Mykelti Williamson, Haley Joel Osmen; produzione: Paramount Pictures, Wendy Fineman Productions; origine: USA, 1994; durata: 142′
∗ Estratto dal numero 40 di “Fata Morgana” dedicato a Stati Uniti d’America (in corso di stampa).