Se interrogato su quale sia la funzione precipua di una cornice, e in che cosa consista la sua prestazione di base, il senso comune dispone subito di un ventaglio di risposte possibili. Ritagliare un frammento di spazio nell’ambiente, per isolarlo e meglio distinguerlo al suo interno. Dividere lo spazio in due parti, un interno e un esterno incommensurabili, eterogenei l’uno all’altro. Isolare una porzione di spazio dichiarandola irreale (di contro ad uno sfondo che si presume reale) e istituire così un luogo separato dallo spazio ordinario (in cui pure si trova calato). Distinguere l’opera dall’ambiente che la contiene, in tal modo integrandovela. Ma anche valorizzarla, porla in risalto e fare in modo che lo sguardo si concentri su di lei: istituzionalmente, distingue l’artistico dal non-artistico (non sempre: può trattarsi della cornice di uno specchio, o di quella data dai margini di una finestra). Sono solo approssimazioni, tutte più o meno efficaci, e tutte più o meno inadeguate a cogliere l’essenziale del meccanismo che regola il funzionamento di un dispositivo dallo statuto teorico difficilmente precisabile, e tuttavia dotato di una precisa efficienza simbolica.

Sono anche, inevitabilmente, alcuni dei temi da cui muovono gli autori che formano l’esigua ma illustre compagine che ha dato luogo, lungo tutto il secolo scorso, ad una linea di riflessione attorno al ruolo della cornice nell’arte, e i cui contributi possiamo ora leggere riuniti nel volume La cornice. Storie, teorie, testi, a cura di Daniela Ferrari e Andrea Pinotti (Johan & Levi, Monza 2018). Facendo seguito a un’ampia ricognizione delle metamorfosi e dell’evoluzione della cornice pittorica (ad opera dell’altra curatrice del libro), il saggio di Pinotti che introduce i testi antologizzati offre una puntuale ricostruzione storico-genealogica del concetto, dalle prime formulazioni di matrice sociologica, dovute a Simmel e Ortega y Gasset, fino alle sofisticate teorie semiotiche di Meyer Schapiro e del Gruppo μ, passando per le voci di Arnheim, Ernst Bloch, Derrida, Louis Marin, Stoichita, nelle quali lo sguardo sull’oggetto si articola a partire da un’eterogeneità di paradigmi disciplinari (storia dell’arte, psicologia della forma, ecc.). In tutti questi casi, sia pure all’interno di una pluralità di registri differenti, il tentativo è quello di restituire dignità filosofica a un oggetto tutto sommato bizzarro perché costitutivamente ancillare rispetto al quadro, e sul quale da oltre due secoli grava l’etichetta che Kant gli attribuisce nella terza Critica (in cui la cornice si trova liquidata come mero parergon, ornamento superfluo e capace di nuocere tanto all’opera quanto al puro giudizio di gusto che su di essa è chiamato a pronunciarsi).

Da un approccio all’altro, si misura piuttosto il mutare degli atteggiamenti: da quello prescrittivo caratteristico di una certa filosofia dell’arte (incarnata in maniera esemplare da Simmel), che individua nella semplice cornice di legno o di metallo un telos e una norma estetica, alla più prudente fenomenologia descrittiva utilizzata dai protagonisti di uno “scarto retorico”, che in quello stesso formato riconoscono non un tipo ideale ma una semplice norma statistica. Non c’è dubbio che per tutti la cornice rappresenti una figura della demarcazione, del limite, della soglia. «Strumento di mediazione», secondo la definizione lapidaria del Gruppo μ, mentre Ortega preferisce sottolineare la sua funzione di «oggetto neutro» o di «natura terza», il cui spessore marca il confine tra due regioni e circoscrive il dominio incantato dell’«isola estetica». Nei primi anni del Novecento, la duplicità insita nella nozione di limite – il suo essere al contempo disgiunzione e congiunzione tra due elementi costituiva l’orizzonte generale delle ricerche di Simmel nell’ambito di una più ampia analisi dei processi socioculturali della modernità, e si può supporre che la cornice del quadro gli apparisse come una figura persino tipica di tale dialettica; lei, «custode dell’insularità dell’opera», deve allontanare innanzitutto un pericolo:

Che il quadro possa uscire nel mondo, o che viceversa il mondo possa entrare nel quadro: è questo doppio movimento che la cornice deve scongiurare, se si fa salva – come Simmel richiede rigorosamente di fare – un’idea di arte come mondo di valori a sé stante, avulso nella sua separatezza dalla vita ordinaria e dalle sue implicazioni pratiche. Proprio quella separatezza che le pratiche artistiche del Novecento si avviavano a contestare (Ferrari Pinotti 2018, p. 56).

In altre parole, la teoria si accorge della cornice e sceglie di darle rilievo nel momento in cui la pratica artistica si accinge a metterla in discussione (dipingendovi sopra, dilatandola a dismisura, ecc.), fino a negarla e abolirla. Come per molti fenomeni, i suoi caratteri più specifici tendono ad emergere nei momenti di crisi e nelle rotture; ma è anche, come nota Derrida, il destino paradossale di questa cesura stabilita per convenzione tra l’arte e la vita, che la sua funzione si manifesti proprio quando la sua esistenza si trova minacciata, nel momento in cui le due sfere che ha il compito di tenere separate tendono a debordare l’una nell’altra.

Se invece, come sostiene Louis Marin, in quanto astratta delimitazione dell’immagine essa funziona in primo luogo come un operatore di riflessività e di discorsività (che permette al quadro di enunciarsi da sé come tale, di modo che la sua funzione sarebbe di carattere eminentemente retorico), noi, qui, possiamo provare a prolungare quest’intuizione ipotizzando un diverso livello di analisi, che permetterebbe di pensare alla cornice come all’effettuazione di una riflessività più profonda, inerente non alla produzione di un discorso visivo, ma al manifestarsi stesso della realtà, al suo apparire. Sembra essere di questo avviso un filosofo come Slavoj Žižek, che scrive nel suo The Parallax View (2006):

Vista attraverso la cornice, la realtà si tramuta nella sua propria apparenza. […] Non c’è nessuna realtà “neutrale” entro cui ha luogo la spaccatura, entro cui le cornici isolano dei domini di apparenze. Ogni campo di “realtà” (ogni “mondo”) è già-sempre incorniciato, visto attraverso un’invisibile cornice (cit. in Senaldi 2008, pp. 15-16).

Avremmo a che fare, insomma, ben prima di ogni considerazione estetica, con una specie di dispositivo “ontologico” che presiede ad una rivelazione del reale. Che cosa può dirci il cinema a questo riguardo? La questione merita di esser posta seriamente, dal momento che una teoria della cornice che si limiti a repertoriarne i modi di apparizione nella composizione filmica (ossia a dare un inventario delle sue iscrizioni nell’immagine e dei suoi effetti formali e retorici in relazione a quella cornice più esterna che è costituita dai margini dello schermo: sovrainquadrature, procedimenti di mise en abyme, ecc.) rischia di vedere smorzata la pregnanza delle proprie analisi, nel momento in cui non collochi tale elaborazione nella prospettiva più generale di uno studio delle condizioni che rendono possibile una definizione della nozione stessa di inquadratura. Si tratta certamente di recuperare il ripensamento e la riformulazione che, in modi diversi, due studiosi come Pascal Bonitzer e Jacques Aumont hanno dato della famosa tesi baziniana esposta nell’articolo Peinture et cinéma del 1951; ma se l’alternativa tra cornice e finestra (o mascherino, come amava dire Bazin) «non è mai stata sufficiente» (Deleuze 2001, p. 294) a restituire l’insieme delle operazioni attivate attorno ai limiti del quadro al cinema, è perché forse non si riflette abbastanza sul principio che sta al fondo di questa distinzione.

In tempi più recenti, il tentativo da parte di Thomas Elsaesser e Malte Hagener di offrire una sistemazione innovativa dei discorsi teorici sul film – organizzata attorno a una serie di paradigmi concettuali, condensati in altrettante diadi – prende le mosse proprio da una discussione di quella dualità di finestra e cornice che ha finito per imporsi come una via d’accesso privilegiata ai problemi posti dall’inquadratura cinematografica (assegnando di conseguenza un posto d’onore, nel confronto del cinema con le altre arti, alla comparazione tra l’immagine filmica e il quadro pittorico). Il discrimine tra i due termini è chiaro, molto meno le sue implicazioni: la finestra si apre su un mondo che si suppone esista indipendentemente da essa, mentre quello delimitato dalla cornice del quadro è stato fabbricato apposta per incastonarsi al suo interno; la prima affaccia idealmente sulla Natura, la seconda è la presentazione di un artefatto. Le polarità corrispondenti sarebbero definite, pertanto, dalle categorie di trasparenza e di composizione; ma le opposizioni che tradizionalmente ne derivano – realismo vs costruttivismo, Bazin vs Ejzenštejn –, e che i due autori vorrebbero denunciare come mistificanti, non vi si trovano forse risolte del tutto.

È noto, del resto, che non ci sono semplicemente due tipi di immagine, quella filmica e quella pittorica, che darebbero luogo rispettivamente all’istituzione di un fuori-campo e di un fuori-quadro. Ci sono semmai due funzioni della cornice che coesistono, spartendosi in maniera molto diversa da una forma espressiva all’altra il campo delle proprie operazioni. E in tal senso il décadrage di cui parla Bonitzer vale innanzitutto per la sua capacità di distogliere la cornice filmica dal suo valore di finestra. Al cinema, infatti, è in primo luogo il decentramento della composizione a far “apparire” la cornice, ovvero a rendere sensibili i margini del quadro come elemento strutturale dell’immagine: è la perdita di quella centratura (di cui hanno parlato storici del cinema come Bordwell e Burch) che è la cifra compositiva dell’inquadratura classica a far sì che l’immagine perda progressivamente la sua tradizionale trasparenza, si opacizzi, tenda al quadro.

In tal senso, una proposta come quella deleuziana rappresenta forse uno dei casi più emblematici di un superamento della dicotomia di realismo e formalismo (che, da Kracauer in avanti, ha esercitato un pesante condizionamento sulla ricezione delle teorie filmiche), e ci consente di scendere un po’ più in profondità nella comprensione dell’operatività del dispositivo della cornice nelle immagini in movimento. Seppure implicito, il rinvio al concetto di automa spirituale, che Deleuze riprende da Leibniz e Spinoza, è quello che consente ancora ad Elsaesser e Hagener di collocare la sua teoria sotto il segno della coppia “mente-cervello”, facendone l’esempio principe di un approccio costruttivista (secondo il quale l’automatismo materiale delle immagini troverebbe un “compimento” nell’automatismo intellettuale che ha luogo nella mente dello spettatore). Nella prospettiva costruttivista, il cinema presenta un doppio riferimento di realtà: al mondo e ai suoi osservatori, dal momento che un film non può riprodurre qualsivoglia oggetto senza al tempo stesso documentare la realtà del soggetto che lo osserva; l’affinità con quanto Deleuze dice a proposito dell’esistenza «di un doppio regime di riferimento delle immagini», appunto al mondo e ai soggetti che lo percepiscono, è evidente (Deleuze 2002, p. 81).

Ma non si potrebbe obiettare che la convergenza è solo superficiale e che Deleuze, al contrario, assegna all’immagine una realtà intrinseca e univoca, che non è il frutto di un’illusione soggettiva della coscienza, di cui soltanto un’osservazione ulteriore potrebbe esplicitare le condizioni (come nei due ordini di osservazione del costruttivismo radicale)? Certo, a prima vista sembrerebbe non potersi dare nulla di più lontano da una concezione della realtà come observer dependent (elaborata, fra gli altri, da Luhmann in ambito sociologico) del luminoso piano di materia che il quarto capitolo di L’immagine-movimento presenta come concepito nei termini di un campo trascendentale impersonale, composto «d’immagini in sé che non sono per nessuno e non si rivolgono a nessuno.  […] Sono le cose a essere luminose per se stesse» (ivi, pp. 78-79). Tuttavia, se in effetti «nelle formulazioni di Deleuze entrerà in gioco il costruttivismo radicale» (Elsaesser Hagener 2009, p. XVII), ciò non dipenderà dal fatto che il film trovi ogni volta nella mente dello spettatore il luogo della propria realizzazione cognitiva; bensì, per l’appunto, dal modo in cui nella presenza di un soggetto percipiente è rinvenuta la condizione che presiede allo stesso apparire della realtà, alla sua rivelazione (esse est percipi).

Per Bergson, com’è noto, affinché la realtà si manifesti bisogna che uno schermo nero giunga a interrompere l’infinita diffusione della luce, che definisce il regime di variazione continua che è la qualità essenziale di questo universo del tutto trasparente e privo di centro. Il cervello è esattamente questo, e Deleuze non si stanca di ripetere che è solo un’immagine fra le altre, sebbene si tratti di un’immagine speciale, capace di offrire proprio quell’opacità necessaria a che la luce si riveli (è in questo senso, e solo in questo, che altrove Deleuze può affermare che le cerveau c’est l’écran). È solo allora che la percezione si distingue in oggettiva (totale e coincidente con la cosa) e soggettiva (parziale e coincidente con un punto di vista sulla cosa, con un suo “aspetto”), stabilendo così un doppio sistema delle immagini: in relazione al mondo delle cose, che sono luminose di per se stesse, o al ritaglio di volta in volta operato localmente dal soggetto. Quest’ultima operazione «consiste esattamente in un’inquadratura», ossia in un’operazione di incorniciamento, e la definizione estesa dell’immagine-percezione come “percezione di percezione” suona: «È una percezione nel quadro di un’altra percezione» (Deleuze 2002, p. 81).

Se l’immagine è un segno, in quanto “sta per” l’oggetto che ritrae e ne offre una rappresentazione, essa lo è anche e nello stesso tempo in quanto “sta per” l’osservazione del mondo da parte di qualcun altro. La comparsa di un intervallo sul cosiddetto piano d’immanenza induce una costituzione simultanea del soggetto e dell’oggetto, in quanto determinazioni secondarie e “derivate” rispetto al piano stesso, come termini presi in un rapporto di mutua dipendenza. È un vecchio tema di sapore fenomenologico (malgrado tutte le precauzioni adottate dallo stesso Deleuze al riguardo) che qui trova una riformulazione – quello di una relazione di sguardo come atto costitutivo dell’identità individuale, che si definisce attraverso lo sguardo dell’altro su di sé, nel momento in cui ci si vede guardati. Già Simmel, prima di Sartre e Merlau-Ponty, era consapevole del fatto che due sguardi che s’incrociano testimoniano di una intrinseca riflessività del mondo; la mossa, al tempo stesso retorica e speculativa, compiuta a questo livello da Deleuze consiste allora nel virtualizzare la realtà di cui l’immagine filmica restituisce un “aspetto”, determinato secondo una certa “prospettiva”: ma, nell’operare questa virtualizzazione, egli non cancella affatto la realtà intrinseca dell’immagine, semmai la lascia in sospeso.

Il peculiare prospettivismo che Deleuze condivide con l’orientamento costruttivista non è una forma di relativismo, ossia una semplice variazione di punti di vista esterni su un oggetto invariabile: il punto di vista è interno all’oggetto ripreso e varia con esso, esibendone la modulazione nel tempo. E se le inquadrature “ossessive” di Il deserto rosso (1964) di Antonioni – che già a Pasolini ricordavano i segni di un mondo regolato da un mito di pura bellezza pittorica – gli fanno dire che i limiti geometrici del quadro sono in certo modo «preliminari all’esistenza dei corpi di cui essi fissano l’essenza» (ivi, p. 26), ciò è dovuto al fatto che, sul piano, «certe azioni subite sono isolate proprio dal quadro, e allora […] esse sono precedute, anticipate» (ivi, p. 81). Ma questa divaricazione tra essenza e apparenza, eredità del platonismo, è destinata a risolversi in una teoria che forma una polifonia dei punti di percezione; e qualsiasi opposizione tra realismo e formalismo finisce, a quest’altezza, per venir meno.

In ultima analisi, il dispositivo della cornice sembra alludere a questa infinità di “tagli” e “prensioni” possibili sul visibile, cui sia Bergson che Deleuze e Žižek paiono riferirsi: il suo comportamento, si direbbe, è quello dell’operatore di una conversione – quella della realtà «nella sua propria apparenza», ossia in spettacolo – che trova il suo presupposto fondamentale nell’idea di una infinita divisibilità della materia, di cui Simmel (che parlava, a tal proposito, di un principium dividuationis) è stato per certi versi il teorico.

Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Ubulibri, Milano 2001.
Id., L’immagine-movimento. Cinema 1, Ubulibri, Milano 2002.
Th. Elsaesser, M. Hagener, Teoria del film. Un’introduzione, Einaudi, Torino 2009.
D. Ferrari, A. Pinotti, a cura di, La cornice. Storie, teorie, testi, Johan & Levi, Monza 2018.
M. Senaldi, Doppio sguardo. Cinema e arte contemporanea, Bompiani, Milano 2008.

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