La domanda posta nel titolo sembra ancora più decisiva oggi, in un periodo in cui la frase “io resto a casa” è diventata affermazione ed esibizione di una virtù, meritevole di approvazione ed elogi. La prima osservazione, la più ovvia, è che sappiamo ormai molto bene che la rappresentazione della casa come rifugio sicuro, luogo di esistenze felici e scambi armoniosi, non funziona più. Non funziona anche andando oltre l’associazione oggi purtroppo immediata con il tema dei femminicidi, tema importante ma già molto presente in quegli stessi discorsi giornalistici che, con sprezzo della contraddizione, lo propongono proprio accanto al suggerimento di rimanere a casa. Ma che quegli stessi luoghi, stanze, oggetti domestici che ci circondano nella nostra quotidianità possano essere anche testimoni di solitudine, depressione, frustrazione, rabbia, lo aveva già capito il pensiero femminista fin dalle sue origini, denunciandolo in vari modi ed elaborandolo poi anche nelle pratiche letterarie ed artistiche. Valga per tutti il video Semiotics of the kitchen dell’artista Martha Rosler (1975), parodia di programmi culinari televisivi con protagonista la donna nel suo ruolo tradizionale di casalinga e che evoca invece con ironia un uso violento di quegli stessi strumenti del ripetitivo lavoro domestico. Ci parla ancora oggi quel video, non certo perché le donne siano relegate nelle cucine, ma perché l’immagine retorica (e spesso volutamente morbosa) della donna vittima diffusa sui giornali viene qui sostituita da un’altra immagine, molto diversa e, per così dire, affermativa.
Vale la pena però allargare la questione dell’abitare dal privato al pubblico, dalla casa alla città, dalla città all’intero pianeta (dalla casa al cosmo, si potrebbe dire, come scrivevano Deleuze e Guattari in Mille piani), o forse vale la pena provare ad andare al di là di questi binomi e di queste separazioni e provare a parlare dell’abitare come qualcosa di più complesso, che supera queste alternative e le fonde insieme. In effetti, quello che sembra essere entrato in crisi nella nostra contemporaneità è più in generale il rapporto tra i corpi e lo spazio in cui si muovono, vivono e muoiono, uno spazio abitato da altri corpi, di tutte le specie, umani, non umani, virus e vegetali, organici e inorganici.
Due libri recentemente pubblicati, molto diversi tra loro, mettono al centro il nostro rapporto con i luoghi che abitiamo e attraversiamo, proponendone una descrizione e una narrazione molto lontane dall’idea di casa come luogo separato e identitario, come rifugio o proprietà privata. Il primo, L’architettura come archè. Appunti sull’hortus apertus di Edoardo Fabbri (Efesto, Roma 2020), ragiona sulla possibilità di un’alternativa al discorso occidentale sull’architettura. A partire dal testo di Vitruvio, l’Occidente ha infatti legato inscindibilmente la questione dell’abitare all’architettura intesa come principio, progetto e comando, come «costruzione significante, in grado di intimare e promuovere un comportamento» (Fabbri 2020, p. 4). Questa idea, fondata sulla separazione tra pubblico e privato, viene messa in questione dall’autore a partire dall’analisi di una esperienza differente, quella monastica.
Fabbri sottolinea come l’esperienza monastica della vita comune, della proprietà collettiva, nel passaggio duecentesco dal monastero al convento – da hortus conclusus a hortus apertus – approda ad una dimensione ancora più ampia. «Se infatti il monastero era il centro della vita dei monaci, gli ordini mendicanti capovolgono il rapporto con lo spazio. L’idea di salvezza si sposta da uno spazio chiuso e delimitato allo spazio aperto, esteso e potenzialmente illimitato del paesaggio» (ibidem). La vita di Francesco d’Assisi e dei suoi compagni rappresenta in questo libro un passato che si può benjaminianamente riattivare come via di fuga per il nostro presente. L’altissima povertà dei frati – quella evocata da Giorgio Agamben nel suo testo omonimo – evoca infatti un uso dei luoghi differente e lontano da ogni possesso, un abitare da pellegrini e da forestieri, «che passa la soglia, l’attraversa, la mantiene attraversabile» (ivi, p. 114). In questo contesto il convento – la cui etimologia rimanda al riunirsi, allo stare insieme, piuttosto che a un luogo specifico, fisso e chiuso – è infrastruttura, ponte, punto d’appoggio che intensifica il rapporto degli abitanti con lo spazio intorno.
Il secondo testo cui mi riferisco è Civita. Senza aggettivi e altre specificazioni, di Giovanni Attili (Quodlibet, Macerata 2020). Il libro, che è in realtà una riflessione ampia sul tema dell’abitare, racconta la particolare storia di Civita di Bagnoregio, borgo laziale sospeso su una piattaforma di tufo, minacciato sin dalla sua nascita dalla instabilità e dall’erosione, dalle frane e dai terremoti. Di questa precarietà, che non ha mai indotto però i suoi cittadini ad abbandonare totalmente il paese, si occupa la prima parte del libro, indagando gli archivi e il liber consiliorum di Bagnoregio e anche intervistando i tenaci abitanti. Simbolo di questa storia di resistenza è il ponte che collega Civita a Bagnoregio, e la sua vicenda caratterizzata da un avvicendarsi di crolli e rifacimenti. Attualmente il ponte è divenuto l’ingresso, a pagamento, di quella che Attili chiama una «terra di spettacolo», come recita il titolo della terza parte, dove viene descritta la trasformazione del centro storico in un non luogo assediato dai turisti.
Inserite tra queste due sezioni sono le pagine più eccentriche del libro, e forse anche le più feconde nel tentativo di produrre una riflessione sul nostro tema che parta da un punto di vista inaspettato. Attili racconta infatti l’arrivo nel borgo nei primi anni Sessanta di Astra Zarina, architetta di origine lettone naturalizzata statunitense. Zarina ha fatto di Civita la sua “terra d’adozione”, stabilendosi nel centro storico e creando qui una scuola residenziale per studenti di urbanistica ed architettura delle università di Washington e Pittsburgh. L’architetta ha saputo accordarsi con le storie, gli usi e i desideri dei civitonici superando la loro diffidenza e ascoltandoli, senza rinunciare alla sua fisionomia differente, ha saputo rivalutare il passato del borgo affiancandovi nuove abitudini, nuovi incontri, una nuova comunità. Come scrive Agamben, autore della prefazione del libro, «è come se un nuovo modo di abitare il borgo prendesse forma accanto all’antico» (Attili 2020, p. 13), un modo non passatista né falsamente aderente al luogo. Lo sguardo straniero e curioso di Zarina e dei suoi studenti, chiamati ogni anno letteralmente a convivere con i sessanta abitanti di Civita, ha prodotto così un cambio di prospettiva negli stessi civitonici, che – come raccontano nelle varie interviste raccolte nel libro – hanno iniziato a guardare al loro borgo in un modo diverso.
La comunità che si crea a Civita è una comunità «porosa, allargata, innestata da presenze transitorie» (ivi, p. 140) tanto quanto la comunità francescana descritta da Fabbri è aperta e in movimento, costituita attorno a un luogo che non è un rifugio ma un ponte – magari minacciato e instabile quanto il ponte di Civita – verso lo spazio intorno. Significativo e forse persino commovente che questi due volumi siano usciti nell’anno della pandemia, del distanziamento e del lockdown, tornando però a proporre un’esperienza dell’abitare collettiva e aperta verso il fuori.
Riferimenti bibliografici
G. Attili, Civita. Senza aggettivi e altre specificazioni, Quodlibet, Macerata 2020.
E. Fabbri, L’architettura come archè. Appunti sull’hortus apertus, Efesto, Roma 2020.