La bellezza congiunge i due opposti stati del sentire e del pensare, e pure tra tutti e due non v’è assolutamente nulla d’intermedio. La prima proposizione è accertata dall’esperienza, la seconda immediatamente dalla ragione. Questo è il vero punto cui si riduce, infine, tutta la questione intorno alla bellezza, e se ci riesce di risolvere tale problema in modo soddisfacente, abbiamo contemporaneamente trovato il filo che ci conduce attraverso tutto il labirinto dell’estetica (Schiller 2004, p. 184). 
Il grande artista, potrebbe quindi dirsi, ci mostra l’oggetto (la sua rappresentazione ha una pura oggettività), l’artista mediocre mostra se stesso (la sua rappresentazione ha soggettività), il cattivo artista la sua materia (la sua rappresentazione è determinata dalla natura del medium e dal limite dell’artista). Tutti e tre questi casi diventano evidentissimi in un artista drammatico (ivi, p. 292).

L’idea di un teatro filosofico non è nuova ed è anzi una naturale espressione di quella simbiosi che, fin dai loro albori, lega la filosofia e il teatro in una diade sia stilistica che d’intenti. Il sottotesto sarebbe quello di una pedagogia umana, assimilabile alla Bildung cara al pensiero classico tedesco, di cui pure le considerazioni estetiche schilleriane in esergo sono una stimabile testimonianza.

L’uomo “completo” (e aggiungiamo, la donna), sarebbe per Schiller colui che avesse ritrovato l’armonia tra facoltà intellettive e sensibili, tra il ragionare e il patire, rinvenendo infine una sintesi morale delle proprie facoltà nella conoscenza pratica della bellezza. Questo significa perciò resistere all’egemonia e dei sensi, e della ragione, a favore di un equilibrio dinamico che tenga vivi i concetti. In termini filosofici si parlerebbe di empirismo e idealismo, mentre in ambito teatrale si potrebbero opporre, tra le varie, il mimetismo e l’epica brechtiana. O ancora, la rappresentazione drammatica sarebbe già di per sé la mediazione tra l’astrazione testuale e la concretezza gestuale.

Seguendo la suggestione schilleriana, il “grande artista”, tra cui il “grande” attore, ci mostrerà l’oggetto della rappresentazione e non la propria soggettività o i limiti dell’artificio scenico. Questo significa che l’opera non deve essere interpretata né empaticamente, né meccanicamente: è necessario che l’attore riesca a porre in scena una matura armonia tra intenzione ed emozione, un equilibrio retto sul perno dell’universale performato in quell’atto singolare. Il pubblico deve, brechtianamente, poter riflettere e rendersi critico rispetto a ciò cui sta assistendo. Lo straniamento è trasversale. Non si tratta di un’educazione meramente sentimentale, tramite una catarsi emotiva e patetica, mimetica, né di una pedagogia fredda e scolastica, macchinica.

Questa regola aurea dell’equilibrio varrebbe anche in ambito speculativo, soprattutto quando ci si occupi di questioni etiche e politiche, ove le virtù umane convergono alla ricerca del retto agire e convivere. È perciò una questione eminentemente estetica, per cui il singolo è chiamato a rappresentarsi un mondo. La lettera e la parola devono farsi tutt’uno nella voce, pur mantenendo le proprie specificità: solo così sarà possibile trasmettere e ricevere un messaggio che aneli a divenire comune.

Rosario Diana ha cercato di inscenare un simile progetto col riadattamento teatrale di un testo altamente filosofico quale La città del Sole di Tommaso Campanella (2023), tentativo poi culminato nella pubblicazione del volume La città del Sole di Campanella. Fra filosofia e teatro (Mimesis, 2024). Come spiega Diana, «la traduzione teatrale o musicale di un testo o di una questione di filosofia implica una mutazione morfologica da una struttura argomentativa, peraltro pensata per la lettura in solitudine, a un mezzo espressivo […] centrato sulla visione e l’ascolto pubblico e per nulla adeguato a intenzioni dimostrative» (Bertolini, Diana 2024, p. 51). Si tratta quindi di attuare ciò che definisce come una “trasposizione interformale” tra i generi, che permette di «distendere il problema teorico che si vuole rappresentare nell’esperienza vissuta di un personaggio reale o immaginario, il quale in questo caso assumerà […] la funzione di individuale fantastico» (ivi, pp. 51-52).

Risulta perciò coerente la scelta di un testo utopico come materiale per tale trasposizione: nell’utopia convergono difatti i tratti della fantasmagoria con quelli della progettualità razionale, l’afflato della passione politica si scontra con le congetture di un’immaginazione per altro pragmatica. Ma perché proprio il testo campanelliano, e non l’Utopia mooriana o un dialogo socratico della Repubblica di Platone, per altro già formalmente drammatico? Nella sua nota introduttiva, Manuel Bertolini ripercorre le vicende storico-biografiche del Campanella: il pensatore stilese fu infatti pienamente partecipe delle questioni politiche del tempo e attivo fautore della causa antispagnola nelle terre del Regno di Napoli, specie nella sua nativa Calabria.

Nonostante la formazione teologica e domenicana, Campanella fu pure un fervente sostenitore del naturalismo, accarezzando talvolta posizioni eretiche, a partire dal suo incontro con la filosofia sensualista di Telesio. L’adesione a tali posizioni non scardina però l’impianto propriamente teologico della sua teoria politica, per cui i sacramenti cristiani portano a compimento e perfezione le leggi naturali, sebbene non vi aggiungano altro che il proprio sacro suggello (Campanella 2023, p. 75).

L’utopica Città del Sole sintetizza quindi un pensiero gestato al contempo tra le fila antagoniste dei ribelli meridionali e quelle della scuola domenicana, tra le celle delle varie carceri in cui fu imprigionato e il teatro della ragione dove pure poté rappresentarsi il compimento di quel «programma di una insurrezione fallita e la sua idealizzazione filosofica» (Bertolini, Diana 2024, p. 39), come Bertolini suggerisce citando un commento del Bobbio. La scelta di Diana è perciò perfettamente giustificata dall’ancipite natura, pratica e teorica, del progetto civile campanelliano. Di coerenza, la “trasposizione interformale” si risolve in una performance che riesce a rappresentare la Città oggettivamente, nel senso schilleriano suddetto, e questo grazie all’equilibrio tra momenti patetici e diegetici, all’alternarsi di atti drammatici, recitati o danzati, e momenti oculati di lettura testuale.

L’intenzione del regista (nonché attore unico e lettore, assieme alla coppia di ballerini) sarebbe quella di rendere esplicite le circostanze biografiche in cui Campanella scrisse quelle pagine, segnate dalla tortura inquisitoria e dall’isolamento. Nello sconforto esistenziale, il filosofo sarebbe stato per certi versi sopraffatto dalle proprie stesse suggestioni, inscenando un progetto sì comunistico ma anche totalitario ed eugenetico.

Nell’avanzare dello spettacolo, la transizione dai lati più promettenti a quelli più aberranti viene presentato gradualmente tramite una selezione di passaggi che vengono accompagnati dalla reazione via via più incalzante e resistente da parte dei ballerini che rispondono col proprio corpo all’asfissiante razionalità del personaggio-Campanella. Rimane da chiedersi se non fosse auspicabile una maggiore intensità epica: in fondo, sebbene la danza sia un invito muto alla critica attiva da parte dello spettatore, ci si ritrova comunque imboccati in una determinata direzione morale che non lascia margine di dubbio, ambiguità o problematicità, quanto invece un messaggio chiaro, e nondimeno essenziale: «Il sogno della ragione genera mostri». Questa didascalia, esplicita deformazione di un titolo di Francisco Goya (El sueño de la razón produce monstruos), chiude scenograficamente l’ultimo quadro dello spettacolo.

Mantenere aperto il problema, ma approcciarlo nella sua singolarità: se questa è l’intenzione della filosofia, com’è possibile trasporla in teatro? L’originale e stimolante ricerca drammaturgica di Diana mira forse a trovare un’alternativa all’infinita attesa di tutti quei Godot materiati dal “sogno della ragione”.

Riferimenti bibliografici
T. Campanella, La Città del Sole, Feltrinelli, Milano 2023.
F. Schiller, Lettere sull’educazione estetica dell’uomo. Callia o della bellezza, Armando Editore, Roma 2004.

Manuel Bertolini, Rosario Diana, La città del Sole di Campanella. Fra filosofia e teatro, Mimesis, Milano-Udine 2024.

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