Proviamo, per esperimento, a visualizzare “il” nazista. È probabile che esso si presenti alla nostra mente come una figura gelidamente composta, efficiente, imperturbabile. Una strana creatura aliena di ghiaccio o acciaio che inquieta il nostro immaginario per la sua incomprensibilità. Eppure, scorrendo anche rapidamente le fonti, è possibile notare come questa rappresentazione del nazista come tutto corazza sia pericolosamente vicina alla figura dell’”uomo nordico” vagheggiata e pubblicizzata dagli stessi teorici fascisti. La caduta. Fascismo e macchina da guerra realizza la difficile impresa di andare al fondo dei mitologemi con cui il nazismo si è compreso e di cui anche il lettore contemporaneo, pur non avvedendosene, finisce per servirsi. Senza perdere fermezza né perdersi in inutili imbarazzi, Tommaso Tuppini accetta di mettersi in ascolto del monologo nazista, di seguirne il filo così da annotare ricorsività, vicoli ciechi, contraddizioni, momenti di lucidità e accessi di delirio.
Nei diversi capitoli che compongono il libro, egli analizza il corpus delle teorizzazioni filosofiche, degli ideali e delle produzioni estetiche, dei rituali collettivi, delle istituzioni e delle res gestae belliche. Questa vasta ricostruzione ci consegna un’immagine del nazismo non come dramma pre, post o sovra-umano, ma come esperienza, certamente tragica, di soggettivazione individuale e collettiva. Ciò non vuol dire confondere le carte in tavola giustificando il nazista perché sofferente o dichiarando l’esistenza potenziale di uno “spirito fascista” in ognuno di noi. L’obbiettivo di Tuppini è quello di ricostruire e cogliere nelle sue conseguenze, senza sentimentalismi o vaghezze, un preciso modus vivendi. La delicatezza con cui la vita nazista viene maneggiata dall’autore è un fatto di chirurgia, non di morale. Poste queste precisazioni, è possibile entrare nel merito del testo.
Da La caduta il nazista emerge come essere umano essenzialmente fragile. Vi è stato un qualche errore nella sua nascita, egli l’ha in un certo senso mancata, e il mondo esterno (l’esistenza degli “altri”, percepiti come massa decadente) e l’universo interiore (le oscillazioni emozionali e il moto forsennato della pulsione) sono per lui una minaccia da arginare inspessendo la pelle. In altri termini, il fascista tedesco non regge la giostra dei toccamenti, l’incertezza della sensazione e la variabilità dell’esperienza percettiva. Egli sviluppa una corazza per difendersi dalla terrorizzante tendenza della realtà a riconfigurarsi di continuo. Persino la morte dovrebbe essere, nel suo ideale, autarchia: una sorta di bomba intelligente che esplode solo quando e per come è stata progettata. Questo stato di necessità viene tradotto in teoria e reso criterio regolativo per la prassi, estetizzato nelle forme dell’antropologia e della filosofia, dell’arte e della fisiognomica/fisionometria.
Eppure, nel fascista tedesco alberga una smania oscura: quella di sperimentare l’intensità non addomesticabile del fuoco che divora pelle e carne. Egli in fondo avverte che l’involucro che lo protegge non gli permette di vivere davvero. Ed ecco allora che le pulsioni represse si accumulano e diventano una valanga che acquista sempre più velocità e forza d’urto. La fame di vita si traduce in uno slancio ingordo di autodistruzione. Questa catastrofe individuale trova il proprio corrispettivo su larga scala nella disfatta totale della Germania: dal punto di vista politico e militare, i tedeschi dissipano programmaticamente risorse, obiettivi, effettivi. La guerra si fa assoluta, come una macchina impazzita non segue più altra logica che quella dell’autoannientamento.
La ricerca di Tuppini mostra che in fondo era questo l’evento verso cui ci si dirigeva, nemmeno così nascostamente se si vagliano le fonti dell’epoca, mentre si costruiva la “grande nazione tedesca”. L’estetica delle rovine (Speer progettava gli edifici in vista dell’effetto che essi avrebbero fatto una volta decaduti) non era che un preludio alla voluttà delle macerie. Se i nazisti hanno perso la guerra, non è stato in virtù di un rovescio storico imprevedibile, ma piuttosto per le conseguenze logiche del loro funzionamento psichico-esistenziale. Aborrendo infatti ogni forma di adattamento e mescolanza dell’esperienza (le teorie della razza non sono che una manifestazione di questa tendenza), il fascismo tedesco stabiliva un binarismo senza uscita tra il vivere e il morire, presto destinato a risolversi nel passaggio isterico dall’uno all’altro polo. La Germania nazista è caduta a causa di questa patologica rigidità nell’affrontare il reale. Tuppini dedica gli ultimi passaggi del suo saggio all’immagine céliniana del “mulino di Jules” (tratta da Normance, 1954). La reazione del mulino di fronte alla tempesta dei bombardamenti, alla tragedia della materia, è l’esatto contrario dell’attitudine che ha finito per dominare il nazismo:
Il mulino assorbe gli urti delle bombe e raccoglie attorno a sé gli sguardi, l’attenzione, gli oggetti. Il cardine non è pietrificato e immobile, se fosse troppo rigido si spezzerebbe. Si lascia attraversare da tutte le correnti di forze, è elastico, si allunga e si accartoccia, le esplosioni lo piegano, gli fanno toccare il suolo e poi lo raddrizzano, mentre le cose che gli si avvicinano subiscono una metamorfosi: le grucce di Jules si assottigliano, diventano fulmini e prendono d’infilata il cielo, gli aerei si trasformano in lingue di fuoco che lambiscono la terra.
In questa recensione, ho deciso di escludere i riferimenti più prettamente filosofici utilizzati dall’autore. Non perché essi non siano importanti (le categorie deleuziane di molarità, molecolarità e fuga, così come quella kristevaiana di abiezione, sono fondamentali per entrare nella complessità di un testo che una recensione non è in grado di restituire), ma perché ritengo che La caduta abbia una portata che va ben al di là degli interessi di settore. Essa risiede nella capacità di scuotere il nostro immaginario collettivo sul nazista e sradicare l’illusione, persistente nonostante tanta letteratura, che esso di fatto non appartenga in quanto soggetto che agisce e patisce a ciò che chiamiamo “esperienza umana”. È probabile che il saggio in questione susciti qualche indignazione superficiale per il metodo poco abituale con cui il tema viene avvicinato; che la sensibilità con cui l’autore coglie il lato umano del nazismo venga frainteso per un pericoloso eccesso di vicinanza.
In verità, sono convinta che l’indagine di Tuppini offra i migliori strumenti non solo per decodificare il fenomeno del fascismo, ma anche per fronteggiarlo nel suo potenziale più insidioso di seduzione. Da La caduta si possono trarre ragioni non afferenti al terreno della moralità (e proprio in quanto tali, per certuni più persuasive) per cui rigettare il nazismo: il punto non è qui che esso sia male, ma che risulti, in definitiva, nient’altro che la strategia disfunzionale di un animo malato. Il fascismo tedesco è incapace di esistere e di affrontare l’esistenza – lo è stato in passato e lo sarebbe in futuro – e la vicenda nazista non narra di una grande potenza sconfitta, con la patina di gloria che questa idea rischia di portarsi dietro, quanto piuttosto di una debolezza, di uno sradicarsi e marcire da sé. La caduta. Fascismo e macchina da guerra è un libro importante sul piano teoretico e un grande strumento politico. Esso ci insegna infatti chiaramente come solo sciogliendo la corazza di ghiaccio dei nostri incubi sia possibile sottrarsi ai bagliori che essa emana e non rimanere accecati.
Riferimenti bibliografici
L. Céline, Normance, Einaudi, Torino 1988.
Tommaso Tuppini, La caduta. Fascismo e macchina da guerra, Orthotes, Napoli-Salerno 2019.