Sul sito ufficiale della Biennale di Venezia campeggia lo statement scritto dal curatore Hashim Sarkis per la XVII Mostra Internazionale di Architettura dal titolo How will we live together? Leggere oggi il documento provoca lo stesso effetto straniante di vedere in televisione immagini di stadi pieni o affollati concerti: l’occhio e le sinapsi richiedono un momento di aggiustamento per ricordare che non più tardi di due anni fa quella era la normalità. Il testo, ricchissimo di spunti interessanti e intrigante nelle modalità di presentazione, sembra provenire da un passato tanto recente quanto remoto, la stessa sensazione che si prova nel varcare le soglie delle corderie e iniziare il percorso (quest’anno obbligato per ragioni sanitarie) della mostra. Le parole di Oliver Wainwright scritte per The Guardian nella loro semplice elencazione degli oggetti riescono a restituire il senso di straniamento delle prime sale:
Un braccio robotico si contorce sopra un paesaggio bitorzoluto di terra compatta, butterato da piccole cavità da cui emergono ciuffi rosa di funghi. […] Nelle vicinanze, vasche ribollenti di luride alghe verdi, mentre una nuvola di piume acriliche si libra sopra una misteriosa costellazione di colonne che emettono un ronzio inquietante (Wainwright 2021)
Non si riesce ad entrare nel merito della bontà o meno delle proposte perché queste sembrano provenire da un’altra civiltà, sono rese ininfluenti dal cambiamento totale delle condizioni a contorno. Il primo grande evento post-pandemico nella iper-globale Venezia ignora bellamente l’esistenza stessa della crisi sanitaria, le sue domande pressanti sullo spazio, sul suo significato e sulle necessarie forme di ripensamento. Non deve di certo essere stato facile, per Sarkis come per i centinaia di invitati e curatori, rincorrere il balletto continuo dell’evoluzione delle norme, della chiusura e riapertura dei confini, della possibilità (e opportunità) di cancellazione dell’evento ma la resilienza sbandierata ovunque come necessità impellente per il futuro non trova certo una dimostrazione pratica nelle opere esposte.
Tra la totale dimenticanza dell’inizio delle corderie e il ricordo pressante del padiglione tedesco, che con pragmaticità teutonica si limita ad esporre QR-code su pareti bianche, la pandemia fa capolino ovunque ma non è da nessuna parte. Se la Biennale negli anni si era fatta portavoce della iperglobalizzazione neoliberista delle archistar o del riscatto eco-chic dei Sud del mondo, oggi di fronte ad una condizione globale che chiede di rimettere al centro la capacità del progetto di incidere sulle vite di tutti e di ognuno, le risposte sembrano mancare. Tornando allo statement iniziale la parte più efficace è senza dubbio la scomposizione del titolo per singola parola ma il gioco cade già alla prima: «How, parla di approcci pratici e soluzioni concrete, evidenziando il primato del problem solving nel pensiero architettonico» (Sarkis 2020).
Ripartire dal progetto e dalla concretezza poteva rappresentare un punto di unione tra i mondi pre e post pandemia ma è proprio la concretezza la grande assente nel lungo corridoio delle corderie. I temi del corpo e della casa, idealmente rappresentati nella manica lunga, mostrano una confusione espositiva e concettuale dove gli insediamenti lunari di SOM e le tavolette archeologiche di Lina Ghotmeh stanno fianco a fianco e le convolute spiegazioni testuali forniscono al visitatore appigli troppo fragili per consentire una minima comprensione. Giunti al gomito e svoltato sulla sinistra il livello sembra alzarsi: le sale dedicate alle comunità affrontano i problemi con maggior piglio analitico e i casi di Pristina, Beirut o Sao Paulo hanno quantomeno il merito di definire un possibile campo operativo per il futuro a partire dalla mappatura critica del presente, svolta con i mezzi dell’organizzazione dei dati, del survey video o del ridisegno critico.
I padiglioni delle artiglierie denotano il grado di adattamento e modifica del progetto originario previsto per l’anno passato. Dalla totale conferma del piano A del Bahrain con l’efficace messa in mostra del lungo progetto di restauro urbano della Pearl City di Muharraq, fino alla totale (ma temporanea) rinuncia di Cina, Kuwait e Perù che costringe il visitatore allo straniante attraversamento di stanze vuote e buie, passando per l’intelligente compromesso cileno che risolve l’intero spazio con una sequenza minuta ma potente di 500 illustrazioni pittoriche. Sulla via che conduce all’uscita si incontra la risposta (negativa) alla domanda se sia possibile una Biennale senza Alejandro Aravena e poi il Padiglione Italia, certamente il più discusso perché quello che rende maggiormente esplicito il richiamo alla resilienza.
La volontà ecumenica di rappresentanza quasi totale del variegato mondo dell’architettura italiana, e di spingersi talvolta ai limiti della disciplina, genera uno spazio densissimo in cui l’operazione di recupero dei materiali del padiglione 2019 deve essere esplicitata testualmente per essere compresa. I temi à la page della contemporaneità, a partire dal ruolo delle donne e dello sguardo femminile, passando per la ricerca di soluzioni ecologiche che mettano a frutto le lezioni del mondo naturale, per arrivare alla prospettiva decoloniale nel rapporto con il Sud globale ci sono tutti e sembrano costruire un “ce l’ho, ce l’ho, manca” forse più adatto alle figurine che all’approfondimento dei contenuti.
Sembra totalmente mancare ogni tentativo di curatela, sia a livello di contenuti che di messa in mostra: la paletta colori e la grafica rendono le didascalie semplici orpelli inintelligibili e la sensazione di grande interesse di alcuni temi proposti è continuamente frenata dall’impossibilità oggettiva di approfondimento. Il Padiglione Italia riesce, in maniera non so quanto volontaria, a sintetizzare il caos, distruttivo e creativo insieme, di questi tempi e di questa mostra «as confusing as it is confused» (Wainwright 2021). Contiene migliaia di spunti e nessun affondo, apre mille ragionamenti e non ne conclude nessuno, agisce come gabinetto di curiosità e mai come metro di giudizio.
I padiglioni nazionali dei Giardini intensificano quest’anno la consueta sensazione di sregolata eterogeneità ma sono in alcuni casi le proposte di maggiore impatto: la Gran Bretagna affronta il tema spinoso della privatizzazione dello spazio pubblico con un approccio forse eccessivamente formale teso verso un’estetica neo-postmodern, gli Stati Uniti individuano nell’umile ma potente tecnologia ballon-frame lo strumento duttile per immaginare un futuro dai contorni ancora sfocati mentre la Danimarca avanza forse la proposta più innovativa rendendo esplicite le connessioni materiali e logiche che sottendono i processi produttivi degli oggetti di uso comune.
I presupposti molto ben intenzionati esposti da Sarkis nel 2020 erano quelli di ricercare nel mondo del progetto risposte che quello della politica non sapeva dare:
Stiamo ponendo questa domanda agli architetti perché crediamo che abbiano la capacità di presentare risposte più stimolanti di quelle che la politica ha offerto finora in gran parte del mondo. Chiediamo agli architetti perché gli architetti sono buoni unificatori di diversi attori ed esperti. Chiediamo agli architetti perché noi, come architetti, siamo preoccupati di plasmare gli spazi in cui le persone vivono insieme e perché spesso immaginiamo questi ambienti in modo diverso rispetto alle norme sociali che li dettano (Sarkis 2020).
Si può affermare senza alcuna paura di smentita che l’operazione sia fallita. La pandemia poteva rappresentare l’occasione pratica per il mondo dell’architettura di imporre riflessioni alte e altre alla politica ma tra l’Arsenale e i Giardini se ne incontrano pochissime. Si respira chiaramente la scissione tra un mondo professionale e accademico introflesso, che continua dialoghi iniziati prima del cambio di paradigma, e una realtà che è già corsa in avanti, già sfuggita.
Un titolo più adatto per l’evento sarebbe forse stato «Will we live together?» ponendo in forma dubitativa la capacità delle comunità del progetto di radicarsi nella società, nella piena consapevolezza che l’unica politica possibile per gli architetti sia quella del controllo, faticoso e negoziato, delle trasformazioni continue dello spazio. Nel mondo post-pandemico e post-neoliberista che ci attende, in cui la necessità di nuove forme progettuali è sempre più evidente, si richiederà agli architetti di fare politica tramite i progetti, invadendo meno gli altri campi disciplinari e ascoltando di più le sollecitazioni della società. La Biennale 2021 rimarrà come testimonianza di una fase di passaggio in un contesto dove poco si sa di quello che era e nulla di ciò che sarà.
Riferimenti bibliografici
O. Wainwright, Venice Architecture Biennale 2021 review – a pick’n’mix of conceptual posturing, in “The Guardian”, 21 Maggio 2021.
H. Sarkis, Statement by Hashim Sarkis Curator of the 17th International Architecture Exhibition, Venezia: Biennale di Venezia 2020.
Biennale Architettura 2021 | Venezia, 22.05, 21.11-2021