Laudate et benedicete mi’ Signore
et ringratiate et serviateli cum grande humilitate.
Laudes creaturarum
…fra le mie gambe secche
da sanfrancesco.
Paolo Volponi, Il cesto largo
«Se un giorno – pura ipotesi della fantasia – battesse alla nostra porta san Francesco d’Assisi che cosa potrebbe succedere?». È con questa domanda bruciante che Carlo Bo inizia uno dei suoi saggi più intensi, Se tornasse San Francesco (1982), in cui modernità e spiritualità arrivano a un ineludibile corpo a corpo. Conscio dell’assoluta novità della proposta francescana per il nostro tempo difficile, Bo riconosce al poverello di Assisi la capacità di contraddire e addirittura ribaltare, con la sua idea evangelica, «il principio stesso della nostra economia»:
Il suo discorso – prosegue Bo – è centrato sulla negazione: non possedere, non avere, non accettare. Il che porta a dare, a fare accettare, a scovare quello che è più povero in noi. Il tema della "vera letizia" è proprio questo: è lieto, è sereno chi viene lasciato fuori di casa in una notte di tempesta, chi bussa invano alla porta del convento. San Francesco di questa sua domestica parabola fa lo strumento principe della sua facoltà di individuazione spirituale, è quando il mondo ti abbandona che trovi la salvezza.
Sulla linea dello stimato maestro, anche Paolo Volponi ha letto nell’opera di san Francesco i segni di un inquieto superamento delle trappole del contemporaneo. Sorprendente (ma non troppo) fu la rivelazione a Francesco Leonetti nel dialogo dell’inverno 1994, Il leone e la volpe (Volponi, Leonetti 2023, p. 99):
La lezione di San Francesco è sempre attuale, e oggi più attuale che mai. Il Cantico delle creature, la prima poesia della nostra letteratura, resta forse ancora la più bella. C’è ancora una scrittura limpida, che serve per elencare, prendere, usare, sentire la materia [...] Oggi che il mondo è smarrito, quella poesia resta veramente come una stella luminosa, alla quale più spesso dovremmo fare ricorso.
La sostanza materica del Cantico si ricollega al rapporto oggetto-parola, a una precisa nominazione che benjaminianamente riporta l’essenza (direbbe Heidegger: la «cosalità della cosa») alla sua precisa consistenza linguistica (donde la «scrittura limpida» che sente la materia), evitando così i vuoti e i punti di discontinuità della decostruzione. È evidente che anche in tal caso il vigore del progetto francescano appare di natura ontologicamente “economica” (e, in senso generico, ecologica). Se il mondo dei consumi «è smarrito» nell’usurante reificazione delle relazioni, le nude elencazioni (lodazioni) del Cantico servono a ricalibrare il nostro essere-nel-mondo, opponendo alla logica del possesso la gioia della giustapposizione (un accostarsi che è giusta posizione).
Volponi vede inoltre nel suo interlocutore, con occhi nitidamente marxisti, la «lezione di un grande rivoluzionario in nome della bellezza della Terra»: «San Francesco è l’idea della felicità e della verità nel nuovo, della rivoluzione, del presente possibile […]. Francesco è un eretico, un materialista» (di fatti, Guido Santato in Follia e utopia, poesia e pittura nella narrativa di Volponi evidenzierà «la prospettiva di un diverso sfruttamento della natura e della sue risorse, ovvero di un diverso ordine economico del pianeta»).
Al di là della portata provocatoria di tali considerazioni, il confronto che Volponi instaura con il santo ha radici molto lontane: in Cantonate di Urbino (1995) lo scrittore sottolinea senza mezzi termini che san Francesco è stato una delle letture più importanti dell’adolescenza-giovinezza. Per di più, nell’intervista rilasciata a Emanuele Zinato in Scritti dal margine (1995) Volponi traccia addirittura una “genealogia poetica” legata all’Appennino, riconducendo San Francesco e le Laudes a quel “misticismo materiale” di cui è impastata la sua stessa lirica (Volponi 1995, p. 180):
Esiste nella mia letteratura una spinta "appenninica" nel senso dell’affetto per quei santi e quei poeti, ed esiste nella mia vita una spinta in fondo anche regressiva, verso quelle corti e quei conventi. È mio questo misticismo molto materiale. San Francesco scrive una delle più belle poesie della letteratura italiana, piena di materia, e dà soggetto e identità alle cose, parla con gli animali. Questo è anche nella mia letteratura [...]. Da me parlano gli animali e le cose: questa presenza e innocenza creaturale al mondo la do agli animali come ai meravigliosi oggetti costruiti dall’uomo, al paesaggio e alle piante.
Oltre al già affrontato rapporto di soggettualità e identità delle cose, è interessante notare come l’«innocenza creaturale» coincida con il tentativo – certamente utopico – di rianimare quel misterioso «conflitto di bene», rivelato da Volponi nell’intervista a Elena Marongiu. In tal modo la condizione stessa della poesia, la «chiara fantasia» divengono sistemi di realtà più fluidi, più aperti di quelli della ragione stessa. Come ribadisce in due saggi scritti negli anni del Pianeta irritabile (1978) – Natura ed animale e, guarda caso, Commento alla Regola non bollata di san Francesco – è proprio la poesia a mettere in moto il cambiamento, a farsi materiale propulsore per decrittare il reale e rinnovarlo con la spinta di una ritrovata autenticità.
Il Commento alla Regola non bollata di san Francesco (1982) è un testo che riafferma, ancora, la «forza tremenda» della «lama del volgare» francescano, capace di tagliare «nelle cose e nella bocca […] la vita stessa quale cardine di un ordine precedente da abbandonare per diventare discepoli della verità sviscerata ed eterna». Sembrava che dal Rinascimento alle «guerre continentali interminabili» l’immagine di san Francesco si fosse assottigliata. Ma ecco che egli è ora «intero davanti a noi», ecco la sconcertante modernità del suo messaggio (Volponi 2002, p. 701):
Come se le sue parole si fossero rinnovate attraverso i spaventosi diluvi dell’orgoglio dell’autorità, anche paterna, e delle ricchezze, del disprezzo degli umili, dello spreco e della distorsione della conoscenza e del lavoro, della confusione delle lingue. Lo ritroviamo accanto con la sua Regola bollata, ma non scaduta; e sentiamo battere la sua parola non solo poeticamente perché l’universale cerchio del mondo atomico sfrigge sopra di noi minacciando di bruciare i nostri orizzonti nella misura di quello "intra Tupino e l’acqua che discende / del colle eletto del beato Ubaldo".
L’epoca atomica è forse la più adatta a riesumare il rispetto per il creato di Francesco, il suo disprezzo per il «turpe guadagno» («la ricchezza è un feudo falso»), il vivo desiderio di pace e di comunanza con gli altri esseri e con gli animali. Da quest’ultimi l’opera in versi di Volponi è, peraltro, letteralmente invasa, più che in autori come Saba e Montale: sin dal Ramarro (1948) un foltissimo bestiario popola la lirica volponiana sino all’horror vacui: la rondine, i pesci, il cuculo, il corvo, i tordi, i grilli, la civetta, l’oca, il cane, l’asino, il bove, la biscia, l’ape, l’orso, la cicala et cetera. La poesia stessa, rivestita di emblemi (che proseguono senza soluzione di continuità nel Giro dei debitori, 1953-54, nell’Antica moneta, 1955, e nelle Porte dell’Appennino, 1960), si configura come inno e partecipazione dell’uomo nell’animale: «Suona la mia banda, / la mia grande banda d’uccelli / e di rospi, d’acqua, di cavallette, di sassi. / In ogni luogo è l’inno costernato».
Un “realismo creaturale” che avvicina Volponi a Betocchi, ai cui fini è però aggiunta l’incandescenza della corporalità (chissà se ci possa essere un contatto diretto tra «sora nostra morte corporale» e il titolo del terzo romanzo volponiano). Del resto, come ricorda Santato, il pensiero di Francesco assomma in sé l’identica «poesia della materia» posta dallo scrittore urbinate in apertura della Macchina mondiale (1965). Barbagli sparsi di francescanesimo (ça va sans dire, “materialistico” e lato sensu) sono ravvisabili nel già citato Pianeta irritabile, nelle Mosche del capitale (1989), nella Strada per Roma (1991). Anche per Volponi, come per Pasolini, occorre reagire radicalmente al presente, ma in una maniera del tutto diversa. Non la perduta civiltà contadina, bensì l’impulso a una presa di contatto primigenia, robusta.
* Si ringraziano Sara Serenelli e Salvatore Ritrovato per la gentile consulenza.
Riferimenti bibliografici
C. Bo, Se tornasse san Francesco, Castelvecchi, Roma 2013.
E. Marongiu, Intervista a Paolo Volponi, Archinto, Milano 2003.
G. Santato, Follia e utopia, poesia e pittura nella narrativa di Volponi, “Studi Novecenteschi”, 25, 55, 1998.
P. Volponi, Poesie, a cura di Emanuele Zinato, Einaudi, Torino 2024.
Id., Francesco Leonetti, Il leone e la volpe. Dialogo nell’inverno 1994, Einaudi, Torino 2023.
Id., Poesie giovanili, a cura di Salvatore Ritrovato e Sara Serenelli, Einaudi, Torino 2020.
Id., Cantonate di Urbino, Besa Muci, Nardò 2019.
Id., Romanzi e prose, II, a cura di Emanuele Zinato, Einaudi, Torino 2002.
Id., Scritti dal margine, a cura di Emanuele Zinato, Manni, Lecce 1995.