«La storia della poesia», scrive Harold Bloom nel 1973, «dev’essere considerata indistinguibile dall’influenza poetica, poiché i poeti forti costruiscono tale storia travisandosi l’un l’altro, in modo da liberare un nuovo spazio alla propria immaginazione» (Bloom 2014, p. 15). Anche la storia dell’arte cinematografica – che evidentemente è solo una sottoparte specifica, e sempre da definire e ridefinire, della storia dell’industria audiovisiva mondiale – dovrebbe corrispondere ad una genealogia delle forme (e delle formule, in senso warburghiano) il cui albero è spesso un rizoma di difficile ricostruzione. La successione delle scuole nazionali, o la filiazione bergsoniana dei generi in azione nella ricostruzione di Deleuze, deve lasciare il campo alla dialettica complessa che collega fra loro i “registi forti”, non sempre (data la giovane età del cinema rispetto al teatro e alla poesia) attraverso relazioni di stampo edipico.
Sappiamo dei buoni rapporti personali fra Stanley Kubrick e Federico Fellini, fatti di telefonate (come raccontato da Emilio D’Alessandro, l’autista italiano del regista stabilitosi in Inghilterra) e telegrammi (come quello spedito dopo la prima di 2001, in cui Fellini scrive senza virgole: «I need to tell you my emotion my enthusiasm»); ma come ricostruire un’eventuale “influenza poetica” eventualmente reciproca? Partiamo da una piccola nota biografica:
Nel 1963, quando la rivista «Cinema» gli chiese di nominare i suoi dieci film preferiti, Kubrick – che ancora rispondeva a richieste così triviali – restò prudentemente nel campo dei film d’autore. Le sue scelte furono: “I vitelloni” di Federico Fellini, “Il posto delle fragole” di Ingmar Bergman, “Quarto potere” di Orson Welles, “Il tesoro della Sierra Madre” di John Huston, “Luci della città” di Charlie Chaplin, “Enrico V” di Laurence Olivier, “La notte” di Michelangelo Antonioni [ecc.] (Baxter 1999, p. 27).
1963 significa che il quarantatreenne Fellini ha già vinto due oscar per il migliore film straniero, con La strada (1954) e Le notti di Cabiria (1957), e sta per vincerne un altro con 8½; mentre il trentacinquenne Kubrick è riuscito a passare da un filmetto indipendente come Fear and Desire (1953, giustappunto l’anno dei Vitelloni) ad un kolossal come Spartacus (1960, l’anno della Dolce vita), permettendo ad Orson Welles di dichiarare ad André Bazin nel 1958: «Tra i giovani registi americani non vedo altri che Kubrick».
Proviamo allora a rivedere I vitelloni – o magari The Young and the Passionate, titolo con cui ha circolato a New York a partire dal 1956 – guardandolo con gli occhi di un aspirante auteur: cosa ci troviamo? Intanto, un inizio in cui la voce fuori campo di Riccardo Cucciolla introduce i personaggi presenti in un locale notturno genericamente chiamato Kursaal: “Naturalmente ci siamo anche noi, i vitelloni: questo è Alberto; questo è Leopoldo l’intellettuale; ed ecco Moraldo che è il più giovane della nostra compagnia; e il tenore che sta cantando è Riccardino […] Ed ecco Fausto, il nostro capo e la nostra guida spirituale”. Il che non può non ricordarvi l’inizio di Arancia meccanica, in cui i personaggi che fanno gruppo all’interno del bar Korova vengono presentati dalla voce narrante del protagonista: “Eccomi là, cioè Alex, e i miei tre drughi: cioè Pete, Georgie e Tim”. Nomi e qualifiche, con il gusto del termine slang destinato a straripare fuori dallo schermo: in fondo i vitelloni sono una banda giovanile di provincia, in fondo i drughi sono dei pulcinella (costume disegnato dall’esordiente italiana Milena Canonero, che è stata presentata a Kubrick dal comune amico Riccardo Aragno, già amico di gioventù di Fellini) che però bevono latte addizionato con droghe.
Ma non c’è bisogno di questo salto nel futuro – anche se è il futuro il tempo dell’influenza – perché in Lolita (1962) troviamo un’interessante scena ambientata in un drive-in: seduto in mezzo fra la signora Haze e la figlia teenager, entrambe spaventate dal film horror che stanno guardando, le mani del professor Humbert Humbert trascurano la prima a favore della seconda. Si tratta di una scena veloce e significativa, che ha una caratteristica che non ci deve sfuggire: è un episodio che non si trova nel romanzo e nemmeno nella sceneggiatura consegnata da Vladimir Nabokov alla Metro Goldwyn-Mayer nel 1961 (consultabile in traduzione italiana nell’edizione Bompiani 1997); si tratta dunque di un inserimento di Kubrick, ma da dove arriva? Ebbene, questa scena di un tradimento al cinema – lui seduto fra la moglie e una signora sola, nel buio galeotto di una sala – è nei Vitelloni, dove dura molto più a lungo e dove ha un seguito al di fuori della sala, poiché il latin lover Fausto abbandona la povera moglie con una scusa (se ne ricorderà Cuarón in Roma, un film ambientato nel Messico del 1971 che ha lo stesso titolo del film girato da Fellini nel 1971).
Quando Fellini esprime emozione ed entusiasmo difronte a 2001: Odissea nello spazio, non è che il suo inconscio sta riconoscendo – in questo che è un film di fantascienza, come quello che avrebbe dovuto girare l’alter ego Guido Anselmi – qualcosa di familiare? Esempio: l’inquadratura finale, in cui il feto astrale subisce una torsione che porta i suoi occhi a fermarsi esattamente in asse rispetto allo sguardo spettatoriale, è il rifacimento dell’inquadratura finale di La dolce vita, dove la giovane Valeria Ciangottini guarda prima verso il fuori campo di destra (in lontananza si presume ci sia Marcello che si allontana raggiungendo il gruppo) ma poi ruota lentamente fino ad avere lo sguardo in macchina.
Lo sguardo in macchina, l’attivazione del fuori-spazio, l’enunciazione enunciata, la chiamata in causa dello spettatore all’interno del ciberspazio della finzione, il cortocircuito fra lo schermo e la realtà: qualcosa che forse viene da lontano, ma che nella modernità cinematografica trova una significazione ben diversa dal futuro abuso televisivo. Fellini e Kubrick lanciano uno stilema destinato ad essere ripreso da tutti gli aspiranti autori (un esempio recente è nel finale di Revenant).
Ma anche l’inizio di La dolce vita – con la sua commistione fra sacro e tecnologico, Cristo che vola grazie ad un elicottero – è il punto di partenza per una permutazione all’interno di 2001 (un numero che a sua volta è una permutazione delle cifre che compongono il numero 8½): quando Bowman va a recuperare il corpo dell’astronauta perso nello spazio (staccato dal suo cordone ombelicale come il protagonista all’inizio di 8½), la deposizione di quel corpo sulle braccia meccaniche dello shuttle configura una Pietà che non ha nulla di parodico.
Soluzioni: questo è ciò che cerca qualunque autore cinematografico che intenda la regia come problem solving. Quello che Kubrick cerca e trova in Fellini non sono problemi – ogni autore ha i suoi problemi, anche se non sfuggirà che l’ultimo film di Kubrick è la riproposizione del primo film di Fellini (il rapporto fra matrimonio e immaginario, casa ed erranza, intimità e messa in scena) – ma soluzioni: le soluzioni possono cambiare di mano, come gli ossi e le astronavi.
Alle volte si tratta di dettagli come la forma di un oggetto: il bicchiere di latte che appare al protagonista di Le tentazioni del dottor Antonio è identico a quello che il drugo Alex stringe nella prima inquadratura di Arancia meccanica; e certo non è un caso che si tratti di bianco senza innocenza, vista la connessione metonimica da una parte con il corpo provocante di Anita Ekberg e dall’altra con l’arredo erotico del Korova Milk Bar. A volte si tratta del découpage di una scena: circola in rete un montaggio che accosta giustamente la corsa notturna della decappottabile di Alex e i drughi (fari a illuminare stradine di campagna fuori Londra) con il forsennato giro notturno in Ferrari, lungo sentieri di campagna romana perturbati da Poe, di Toby Dammitt (Tre passi nel delirio, 1968). A volte si tratta di atmosfere: Asa Nisi Masa, redruM…
Tutto questo è detto nel centenario di Fellini (e di Rohmer!) non per glorificare la supremazia del genio italico, ma al contrario per ribadire che la politique des auteurs è da subito e per sempre un clima intellettuale che si vuole internazionale e non competitivo. E se la modernità cinematografica esiste ancora, bisogna che gli studiosi apprestino ciò che ancora manca: una storia influenzale dei film.
Riferimenti bibliografici
J. Baxter, Stanley Kubrick la biografia, Lindau, Torino 1999.
H. Bloom, L’angoscia dell’influenza, Abscondita, Milano 2014.
Federico Fellini, Rimini 1920 — Roma 1993.