Tradurre parole straniere inusuali servendosi di termini troppo correnti può compromettere la fedeltà al dialogo che la traduzione instaura, cancellando un’alterità essenziale. Con questo presentimento, Henry Corbin ha coniato dal latino l’espressione mundus imaginalis per designare, a partire dai testi arabi e persiani che studiava, una realtà di forme, colori e visioni in cui sogni, gesti e cosmogonie trovano la propria verità e validità. È una scelta teoretica, di campo, atta a enfatizzare una discontinuità dalla tradizione occidentale, la quale avrebbe tendenzialmente relegato l’immaginazione e l’immaginario a una dimensione di finzione. In Corbin, al contrario, l’immaginale è ciò che sospende, prima di tutto l’ossessivo dualismo tra materia e spirito: come in uno specchio, le immagini non duplicano un originale, ma generano un modo d’essere intermedio, simbolico.

Per accedere a questo immaginale, Corbin indica quanto più di provocatorio e inaccettabilmente metafisico si possa udire: il potere immaginativo dell’anima umana deve scoprirsi indipendente dal corpo fisico materiale e divenire ricettivo verso quei datori di forme che sono gli angeli. Ma purificata dal contemptus mundi e riconciliata con la Terra, questa metafisica estetica può ispirare oggi i tentavi di andare oltre un certo antropocentrismo, per una urgente attenzione alla potenza formativa delle immagini. Esse ci plasmano e ci interrogano, provenendo da un mondo altro – o da una immanenza ripensata dalle immagini stesse. Possono imprigionarci, come potenze “ahrimaniche”, algoritmiche, o liberarci, come forze ludiche e creative, per un’emancipazione, dove si è chiamati a scegliere i propri colori in conformità a cosa si vuole essere, alla propria forma di vita. E allora bisogna conoscere il demone che ci insegue, temere costruttivamente i suoi attacchi – «e se anche un angelo a un tratto mi stringesse al suo cuore: la sua essenza più forte mi farebbe morire» (Rilke, 1978) –, per affrontare quel combattimento biblico con l’angelo e che per Corbin deve diventare combattimento per l’angelo poiché, dopo tutto, l’immensa potenza e strapotenza delle immagini non solo ci guarda sempre e da sempre – «prospettiva rovesciata», ricorda Florenskij (2020) –, ma ancora anela a essere guardata da noi per una comune salvezza (la gnosi di Corbin).

«Siamo reti sospese sull’abisso» – dice Sohrab Sepehri – e soprattutto ne siamo l’immagine. Per Corbin, la responsabilità più alta dell’immaginazione consiste pertanto nella sua dimensione escatologica: si salva chi salva le immagini, alle quali peraltro mai si dovrà rinunciare. Nella vita oltre la vita non vivremo in un mondo di pura luce indifferenziata, come in qualcosa che acceca i nostri occhi ed è come un nero assoluto, un’acqua non più composta di gocce ognuna con la sua forma. Ritroveremo semmai le forme e i colori che abbiamo amato, trasfigurati in uno stato celestiale. Un mondo promesso e soprattutto già goduto, qui, da tutti i visionari della Terra.

Riferimenti bibliografici
H. Corbin, Mundus imaginalis, or the imaginary and the imaginal, Golgonooza Press, New York 1972.
P. Florenskij, La prospettiva rovesciata, Adelphi, Milano 2020.
R. M. Rilke, Prima Elegia, in Elegie Duinesi, Einaudi, Torino 1978.
S. Sepehri, Indirizzo, in Un’oasi nell’attimo. Poesie scelte, Jouvence, Milano 2022.

*Lo speciale “Immaginale” raccoglie alcuni degli interventi nati nell’ambito di Immagine, immaginale, inimmaginabile. La potenza dell’immaginazione tra Oriente e Occidente, ciclo di seminari di Estetica organizzati dall’Accademia delle Belle Arti di Urbino e dall’Università di Urbino.

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