Qui l'introduzione di Giorgio Fazio allo speciale dedicato ai 100 anni della Scuola di Francoforte.

Fra le molte discipline che compongono il campo quanto mai vasto e articolato della filosofia, l’estetica sembra godere della singolare caratteristica di essere al contempo una disciplina antica e recente: antica, cioè, nel senso che almeno alcuni dei suoi problemi fondamentali erano già stati al centro dell’interesse dei pensatori greci e medievali (bellezza, arte, ecc.); recente, invece, quanto al suo “battesimo” ufficiale come disciplina filosofica specifica, nel senso che tale evento, com’è noto, avviene solo alla metà del Settecento grazie ad Alexander G. Baumgarten. Ad ogni modo, nel corso degli ultimi secoli l’identità disciplinare dell’estetica è stata legata soprattutto all’idea della riflessione filosofica sulle arti, ovvero l’estetica è stata concepita perlopiù come filosofia dell’arte. Tuttavia, osservando rapidamente la storia di questa disciplina filosofica, è possibile individuare anche altre concezioni fondamentali dell’estetica che sono state fornite nel corso del tempo – ad esempio, accanto alla definizione dell’estetica come teoria dell’arte, anche quelle dell’estetica come filosofia dell’esperienza e come teoria della sensibilità (D’Angelo 2011, p. 133 ss.).

Inoltre, riflettendo sulla fisionomia che deve assumere oggi un’estetica del contemporaneo – e, dunque, adeguata alla nostra epoca e capace di mantenere un contatto vivo con le incessanti trasformazioni in atto – si può dire che l’indagine filosofica su diverse pratiche ed esperienze estetiche di grande rilevanza nel nostro tempo esiga un ampliamento di prospettiva rispetto al mero paradigma “arte-centrico” che era stato predominante soprattutto tra l’inizio dell’Ottocento e la fine del Novecento (Matteucci 2018, pp. 5-21). Un’estetica adeguata alla nostra contemporaneità, ad esempio, sembra non potersi esimere dal confrontarsi anche con le sollecitazioni poste da pratiche ed esperienze come quelle legate alle industrie culturali e alla loro capacità di penetrazione e diffusione nella nostra quotidianità sempre più estetizzata (e, forse, anche sempre più mercificata).

L’analisi delle dinamiche e dei processi che riguardano la dimensione estetica è sempre stata al centro dell’interesse dei teorici appartenenti alla Scuola di Francoforte – là dove, utilizzando l’espressione «dimensione estetica», intendo appunto fare riferimento a una vera e propria «dimensione costitutiva dell’esperienza» (Desideri 2011, p. XXI) che può comprendere anche la dimensione artistica ed è strettamente in contatto con essa, ma che al contempo non è riducibile sic et simpliciter all’arte (in particolare, nel senso del sistema tradizionale delle belle arti). Di tutto ciò sono sempre state ben consapevoli le teorie estetiche concepite dai pensatori francofortesi all’interno della cornice di una teoria critica della società.

È celebre, ad esempio, la definizione dell’estetica proposta da Walter Benjamin (2012, p. 88) come «dottrina della percezione» – in esplicito riferimento alla parola aisthesis, da cui deriva etimologicamente il termine stesso “estetica” –, con l’ulteriore aggiunta, da parte di Benjamin, del tema decisivo della storicità (e non solo naturalità) della percezione umana, che rende possibile parlare di vere e proprie «trasformazioni della percezione» strettamente connesse ai «rivolgimenti sociali» (ivi, p. 52). Quanto a Herbert Marcuse, anch’egli afferma chiaramente che «il termine “estetico”» ha una «duplice connotazione di “legame ai sensi” e “legame all’arte”», senza che il secondo uso del termine (storicamente prevalente nell’estetica moderna) debba offuscare il primo, dato che anzi «la radice dell’estetica affonda nella sensibilità» (Marcuse 2002, pp. 121, 133).

Nel caso di Theodor W. Adorno, poi, è importante tenere conto della sua ambizione di operare una «liquidazione dell’arte […] in senso intraestetico» (lettera di Adorno a Benjamin del 20 maggio 1935) ed è significativo notare come, dal suo punto di vista, «estetica non significa […] soltanto teoria dell’arte», bensì «una posizione del pensiero nei riguardi dell’obiettività» (Adorno 1983, p. 12). Sotto questo punto di vista, una teoria estetica come quella di Adorno può anche essere intesa come una filosofia dell’arte (com’è stata intesa innanzitutto e perlopiù dagli interpreti, in effetti); tuttavia, in modo più ampio, al fine di rendere giustizia alla sua vastità e complessità, essa va intesa soprattutto come una filosofia dell’estetico che, in un certo senso, cerca di rendere estetica la stessa teoria. Infatti, com’è stato notato,

nel termine “estetica” utilizzato da Adorno risuona prepotentemente l’etimo aisthesis, che indica quanto ha a che fare con la componente sensibile-percettiva dell’esperienza. […] [E]stetica è una teoria che vuole imparare dall’estetico qualcosa di utile al pensiero concettuale […]. Una teoria diventa estetica nella misura in cui compie uno sforzo estremo per riconoscere nel concetto e nell’estetico i due termini di una medesima relazione (Matteucci 2012, pp. 100-101).

Focalizzandomi per rapidità solo su Adorno e sul suo approccio dialettico-negativo al filosofare, è importante notare il ruolo svolto all’interno del suo pensiero dal riferimento all’estetico, alla componente sensibile-percettiva dell’esperienza e, in questo contesto, alla nozione di mimesis: una nozione, quest’ultima, strettamente collegata al discorso generale sulla dimensione estetica nella sua ampiezza a cui ho accennato poc’anzi, se è vero che «mimesis […] non è forse che un altro modo per aisthesis» (Desideri 2018, p. 11). In generale, la nozione di mimesis – la quale svolge un ruolo centrale, del resto, anche in Benjamin e in Marcuse – sta a indicare in Adorno uno strato o una componente irrinunciabile dell’esperienza ai fini dell’elaborazione di un atteggiamento diverso nei confronti della realtà da parte del soggetto: cioè, un atteggiamento capace di ristabilire un rapporto improntato all’affinità e alla prossimità con ciò che è altro da sé e, per questo motivo, tendente a sottrarsi alla presa di una razionalità strumentale sempre più soffocante e reificante.

In questo senso, è stato notato che «nella prassi percettiva della manifestazione si attua quel “comportamento mimetico” primitivo che Adorno descrive in relazione [al] sentire non reificato» (Matteucci 2019, p. 14). Sotto questo punto di vista, la questione della mimesis e del riscatto del «comportamento mimetico» assume una rilevanza centrale per Adorno ai fini di una «trasformazione della filosofia» stessa che si basi sul «disincanto del concetto» e ristabilisca una connessione col «momento espressivo integrale, mimetico, non concettuale» dell’esperienza umana (Adorno 2004, pp. 14, 19).

Ciò non toglie, naturalmente, che per Adorno la questione della mimesis, da questione centrale al livello della comprensione della dimensione estetica in senso ampio, diventi anche questione centrale per l’interpretazione della dimensione artistica in senso stretto – dato che, nonostante la succitata irriducibilità dell’estetico all’artistico nelle teorie estetiche dei pensatori francofortesi, comunque non c’è dubbio sul fatto che Adorno, Benjamin, Marcuse e in misura minore anche Horkheimer siano stati sempre molto attenti all’importanza dell’arte e alle implicazioni delle trasformazioni artistiche della loro epoca. Non a caso, in Teoria estetica l’adombramento della possibile instaurazione di un atteggiamento diverso verso il reale sfocia in quello che Adorno chiama «il modo mimetico di comportarsi» e che si connette anche a un’idea stessa dell’arte come «rifugio del comportamento mimetico» e «modo di comportarsi» (Adorno 2009, pp. 29, 72, 311).

Condizione fondamentale dell’arte, per Horkheimer e Adorno (1997, p. 26), è infatti la capacità di «istituire un cerchio proprio e in sé concluso, che si sottrae al contesto della realtà profana, e in cui vigono leggi particolari». Si tratta di una condizione che l’arte, secondo i teorici critici della società, condivide con la magia e che, anzi, l’arte avrebbe mutuato originariamente proprio da quest’ultima. Il saldarsi insieme delle dimensioni esperienziali dell’espressività e dell’affinità con l’alterità può essere inteso quindi come una forma di eredità della fase magica dell’umanità che sarebbe costitutiva della mimesis e dell’aisthesis in quanto tali e che, in forma secolarizzata (ma non per questo estinta), sarebbe gradualmente trapassata nel dominio dell’arte.

Sotto questo punto di vista, l’enfasi costantemente posta da Adorno (così come, in termini non identici ma comunque affini, anche da Marcuse) sulla componente mimetica dell’esperienza artistica, lungi dal configurarsi come un tardivo e anacronistico attaccamento a una nozione, come quella di mimesis, definitivamente messa in crisi dalle trasformazioni e provocazioni delle avanguardie (come avviene quando si declina il concetto di mimesis nel senso della cosiddetta «teoria mimetica dell’arte»), si rivela essere ancora oggi un prezioso e intrigante strumento di riflessione, anche al cospetto di produzioni che poco o nulla sembrano avere in comune con ciò che tradizionalmente è stato inteso con la parola “arte”, e anche al fine di verificare la possibilità o meno che l’arte, per dirla con Anselm Kiefer (2018), si riveli oggi in grado di «sopravvivere alle sue rovine».

Riferimenti bibliografici
T. W. Adorno, Kierkegaard. La costruzione dell’estetico, Longanesi, Milano 1983.
Id., Dialettica negativa, Einaudi, Torino 2004.
Id., Teoria estetica, Einaudi, Torino 2009.
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Tre versioni (1936-39), Donzelli, Roma 2012.
P. D’Angelo, Estetica, Laterza, Roma-Bari 2011.
F. Desideri, La percezione riflessa, Raffaello Cortina, Milano 2011.
Id., Premessa, in C. Wulf, Homo imaginationis, Mimesis, Milano-Udine 2018.
M. Horkheimer, T. W. Adorno,  Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997.
A. Kiefer, L’arte sopravvivrà alle sue rovine, Feltrinelli, Milano 2018.
H. Marcuse, La dimensione estetica, Guerini, Milano 2002.
G. Matteucci, L’artificio estetico, Mimesis, Milano-Udine 2012.
Id., Elementi per un’estetica del contemporaneo, Bononia University Press, Bologna 2018.

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