Molti racconti di Robert Walser possono essere letti come monologhi silenziosi, e così perfino un breve dramma come L’Etang (Lo stagno), scritto dall’autore per sua sorella e di cui Gisèle Vienne ha realizzato una potente riscrittura scenica andata in scena al Teatro Vascello di Roma. Lo spettacolo era inserito in Prisma: Gisèle Vienne, una vasta panoramica, sulla regista, coreografa, e artista visiva franco-austriaca organizzata nell’ambito dell’edizione 2022 del festival Short Theatre. Questo dramolette, “piccolo dramma”, così lo definiva lo scrittore svizzero – pubblicato in Italia nella raccolta Commedia da Adelphi nel 2018 –, narra il racconto di un finto suicidio per annegamento messo in scena da un ragazzino che si sente poco amato dai genitori.
Il testo si dipana attraverso le conversazioni tra dieci diversi personaggi, – l’adolescente Fritz e sua sorella Clara, sua madre, suo padre, cinque ragazzi e la madre di uno di loro – e sintetizza il conflitto tra i due modi di essere opposti, figlio da un lato, e genitore dall’altro. Questa polarizzazione viene potenziata dalla regista mediante un artificio drammaturgico e sonoro che riduce da dieci a due il numero degli attori, anzi le attrici: Adèle Haenel – vincitrice di due Premi César e protagonista del film Ritratto della giovane in fiamme (2019) di Céline Sciamma – che dà voce al figlio Fritz, ma anche ai suoi coetanei, e Henrietta Wallberg che è la madre, ma al tempo stesso anche i tre genitori.
In apertura, il palcoscenico di L’Etang si presenta come una grande scatola bianca rifrangente con al centro un letto che ricorda la camera di un adolescente, con junk food, lattine di coca e birre sparse per terra. Sul letto e intorno ad esso giace un gruppo di giovani accasciate e abbandonate in pose diverse: sembrano dormire, immobili e fredde come corpi morti. Bianca e cadaverica come la stanza è anche la loro carnagione, mentre i loro abiti – felpe griffate, sneakers e cappellini che ricordano l’abbigliamento dei personaggi di un film di Gus Van Sant – brillano colorati e fluorescenti in mezzo a tanto freddo biancore.
Solo dopo un attento sguardo, e quando un inserviente entra da una apertura laterale per prenderle in braccio e portarle via, ci si rende conto che la loro è la rigidità di manichini, bambole a grandezza naturale, le cui articolazioni restano inerti, lasciando lo spettatore sconcertato per la rivelazione della loro non umanità. Difficile misurarsi con la potenza teatrale innaturale delle marionette, direbbe Kleist, e infatti le attrici in carne e ossa che subentrano in scena lo fanno con movimenti che la regista ha voluto meccanici, tanto lenti da farle sembrare non reali, quasi fossero proiettate in un video ralenti sullo schermo bianco delle pareti. Gisèle Vienne concepisce le sue Poupées a grandezza naturale come autentici personaggi – come si è potuto vedere nella sua installazione 40 Portraits (2003-2008) al Mattatoio – i cui visi mostrano espressioni che le assimilano a corpi umani allucinati, intontiti, in bilico tra la vita e la morte, presentando anche le attrici come se fossero attraversate da questa tensione verso l’innaturale, che si impossessa del loro movimento e delle loro voci.
Quando iniziano a parlare con voci amplificate, infatti, sullo sfondo di un bordone elettronico che da quel momento in poi accompagnerà tutta l’opera mischiandosi con singhiozzi e gemiti – sound design di Adrien Michel con musiche originali di Stephen F. O’Malley e François J. Bonnet –, lo spettatore rimane spiazzato e confuso di fronte ai cambiamenti di tono vocali, e deve continuamente risintonizzare il proprio ascolto, soprattutto su Adèle Haenel, la cui voce all’inizio sembra quello di un solo personaggio-figlio, ma poi assume colori e timbri diversi per diventare quella degli altri adolescenti. Spesso l’attrice parla rivolta verso il muro, lasciando in dubbio se le parole amplificate provengano dal suo corpo, quasi lei fosse anch’essa una marionetta a cui un ventriloquo nascosto abbia offerto il proprio addome come cassa di risonanza.
La regista costruisce una drammaturgia sonora con una pratica decostruttiva che sembra traslata da quella del novecentesco Bellmer con le sue Poupées, i cui corpi femminili cadaverici esibivano crudeli anatomie ricombinate mediante articolazioni tra organi diversi: le voci ritagliate dai personaggi diversi del dramma di Walser si assemblano infatti in due sole figure dolenti.
Anche se non muore nessuno, questo spettacolo è tutto costruito intorno alla morte, sebbene solo desiderata, immaginata, annunciata e simulata dal protagonista Fritz, come se fosse l’unica possibilità di stimolare le sue emozioni e quelle degli altri adolescenti. Manca qui, purtroppo, l’ironia e l’irrisione struggente di Walser, ma per i corpi anorganici delle bambole anoressiche di Gisèle Vienne non c’è speranza di alcun sarcasmo, ridotte a oggetti dalla loro vulnerabilità nei confronti del potere. Il desiderio di insubordinazione che spingeva il personaggio di Robert Walser ad inventare con punte di comicità il teatro di un annegamento possibile di un individuo, assume per la regista una connotazione fortemente politica e sociale che sfocia in una drammatica interrogazione aperta sull’angoscia e il disagio esistenti nelle relazioni famigliari.
L’Etang. Testo: Robert Walser; ideazione, direzione, scenografia, drammaturgia: Gisèle Vienne; luci: Yves Godin; sound design: Adrien Michel; musiche originali: Stephen F. O’Malley, François J. Bonnet; costumi: Gisèle Vienne, Camille Queval; interpreti: Adèle Haenel, Henrietta Wallberg; durata: 140′.