Che cosa è successo nel XX secolo? Domanda monstre, che farebbe cadere nel panico chiunque. Impossibile e inutile lanciarsi in un’elencazione di eventi, tragedie, conquiste, massacri, vittorie, mutamenti, crisi; criticabile – per ingiustificato arbitrio e ineliminabile vizio di prospettiva – ogni tentativo di selezionare un solo piano, un livello, un evento da considerare decisivo, in grado cioè di essere principium individuationis di un secolo – di cui si discute persino la durata temporale, breve o lunga che sia (Hobsbawm 2014; Arrighi 2014).

Domanda da un milione di dollari che Sloterdijk pone addirittura a titolo del suo ultimo testo, uscito nel 2016 in Germania e l’anno successivo in Italia per Bollati Boringhieri; un libro-collage che raccoglie dodici saggi originali e d’occasione composti nel decennio 2005-2015. Nessuna ricostruzione evenemenziale, ma nemmeno l’ennesima tesi su quale episodio del Novecento sancisca l’eccezionalità di un secolo che «in quanto epoca della chiacchiera [Gerede] a tutto campo, […] ha già detto tutto e il contrario di tutto a proposito di se stessa» (Sloterdijk 2017, p. 80). La mossa di Sloterdijk è quella di approcciarsi al XX secolo da filosofo con la passione per la macrostoria: impegnato a cogliere il proprio tempo con il pensiero nella consapevolezza che l’essenziale si sviluppa nei tempi lunghi e negli spazi larghi. Nessuno stupore quindi se per capire il XX secolo Sloterdijk ritenga necessario dedicare un saggio al Rinascimento e un altro a Odisseo in veste di sofista, alla globalizzazione nautica della prima modernità e alla domesticazione culturale dell’umano.

Impossibile (per me) ricostruire esaustivamente un testo sovrabbondante di stimoli e suggestioni – ci sono invece riusciti Antonio Lucci su Doppiozero e Federico Francucci su Alfabeta2 –; vorrei provare piuttosto a sviluppare e collegare tra loro alcune intuizioni disseminate in diversi saggi, provando a comporre ex post una possibile stringa implicita.

Nel contributo che dà il titolo al volume Sloterdijk individua nella “passione del reale” l’habitus psicopolitico distintivo del secolo passato; il lemma è mutuato da Badiou, ma decisamente problematizzato, in un certo senso quasi “sdoppiato”. Secondo Badiou, infatti, “passione del reale” è stata quell’impaziente volontà novecentesca di attivare subito, in maniera fulminea, una versione più “dura” di realtà: svelare il mondo-vero, la struttura autentica della realtà, è l’obiettivo di ogni radicalismo e fondamentalismo, intesi etimologicamente come il tentativo di andare alla radice e al fondamento delle cose, liberandosi di tutte le illusioni, i fantasmi e le false-coscienze che confondono la scena e indirizzano l’azione lontano dai veri obiettivi. Sloterdijk condivide la diagnosi ma con due decisivi caveat: in primo luogo retrodata la genesi di tale mania del disvelamento al giacobinismo e al suo mix di fondamentalismo aggressivo e retorica della rivoluzione incompiuta (pp. 85-86); secondariamente inverte il vettore assiologico: mentre Badiou, a suo avviso, guarda nostalgicamente a quella passione che nel Novecento ha raggiunto il suo apice, Sloterdijk ne sottolinea il portato disinibente, il ruolo che ha avuto nello sdoganare e giustificare la violenza estrema: «laddove prendono la parola i profeti e gli apostoli del reale, non possono essere lontani neppure i martiri del reale, e di conseguenza non può neppure mancare la persecuzione dei nemici del reale» (p. 87).

La questione fondamentale è però un’altra: la sinonimia realismo-radicalismo-fondamentalismo condivisa dagli “appassionati” moderni e novecenteschi si basa su una concezione pesante della realtà, come elemento duro e solido che non-può-essere-altrimenti; una «metafisica della gravità, secondo cui le cose sostanziali, importanti e di gran peso tendono verso il basso» (p. 91). E mentre i profeti della pesantezza del reale occupavano la scena pubblica e politica del Novecento, un nuovo “reale” leggero, etereo e antigravitazionale conquistava la società (occidentale). Questo secondo “reale” è quello del Palazzo di Cristallo (vedi il saggio La politica di Heidegger. Rinviare la fine della storia, p. 188): un elaborato sistema di sgravi possibile grazie al vertiginoso aumento del comfort e della ricchezza disponibile. Spreco strutturale, opulenza, sovrabbondanza di energia, esonero dalla pesantezza sono le esperienze fondamentali del nostro tempo (pp. 93-105). In questo senso l’alchimia e il Rinascimento sono le due esperienze storiche recuperate da Sloterdijk per descrivere la situazione contemporanea; epoca “alchemica”, perché avvera il sogno di un capitalismo senza ascesi: l’investimento borsistico è quanto di più simile ci possa essere alla pietra filosofale, che crea ricchezza senza interposta prestazione lavorativa. Epoca (quasi) rinascimentale (vedi il saggio Rinascimento permanente, p. 149) perché lascia i profeti a gridare soli nel deserto: non crede più nell’onnipotenza umana per via politica, è consapevole che la fortuna è arbitra di (almeno) metà delle azioni nostre.

Tale enorme opera di sgravio è stata resa possibile dallo sfruttamento intensivo e spregiudicato delle risorse naturali, e in particolar modo dei combustibili fossili. Il Palazzo di Cristallo è quindi l’esito estremo non solo della rivoluzione industriale, ma più in generale di quei circoli virtuosi di autopotenziamento che Sloterdijk analizza nel primo saggio di questa raccolta (vedi il saggio L’antropocene, pp. 16-19) e che descrivono l’esplodere repentino e l’ampliarsi smisurato, in epoca moderna, degli effetti della ricerca scientifica, della tecnologia, dell’interventismo fiscale e assistenziale dello Stato (tra le altre cose). Esito estremo in quanto la crisi climatica e ambientale impone un radicale e immediato cambiamento di rotta: siamo come Phileas Fogg – segnala Sloterdijk –, stiamo bruciando la stessa nave su cui navighiamo, ma per di più non abbiamo un porto esterno alla Terra in cui approdare.

Come evitare la catastrofe imminente? Le prospettive a cui Sloterdijk fa esplicitamente riferimento sono di due tipi: da un lato la strategia etico-ascetica (p. 28), la metanoia sempre possibile che ci fa “cambiare la nostra vita” in direzione di un puritanesimo ecologico – poco probabile e certamente poco affascinante; dall’altro lato l’opzione di uno spinozismo terrestre e tecnoscientifico: se nessuno sa che cosa può il corpo, a maggior ragione nessuno sa cosa può il corpo della Terra: «non sappiamo ancora quali sviluppi diverranno possibili, se la geosfera e la biosfera venissero ulteriormente sviluppate da una tecnosfera e una noosfera intelligenti. Non è escluso a priori che queste sfere possano produrre effetti tali da equivalere a una moltiplicazione della Terra» (p. 33).

È però possibile individuare anche gli elementi di una terza strategia, che definirei “politico-narrativa”. Il Rinascimento per Sloterdijk è anche il momento in cui l’umanità reagisce al crollo rovinoso del proprio mondo cercando «fonti di ispirazione alternative per dare slancio alla volontà di vivere» (p. 153); la modernità nasce quindi con Boccaccio e le sue novelle: di fronte alla peste e a un Dio eclissatosi, l’unica alternativa è raccontarsi storie per contagiarsi positivamente, per sfuggire alla malinconia, per ricreare un’atmosfera – naturale e simbolica – vivibile. Un atto simile di rinascimento lo si può notare nella stesura della Grundgesetz tedesca, cui non a caso è dedicato il saggio Quasi una Sacra Scrittura. Saggio sulla Costituzione (p. 233); dopo la devastazione del nazismo e della guerra la Grundgesetz è la testimonianza della possibilità di rigenerarsi utilizzando il linguaggio – e la performatività tipica del linguaggio giuridico – per creare una nuova atmosfera abitabile dopo la distruzione.

Forse è di un nuovo rinascimento, di un nuovo Decameron e di una nuova Costituzione, ciò di cui abbiamo bisogno: di fronte alla catastrofe ambientale possiamo tornare a raccontarci storie per vivere meglio, elaborare «una politica a favore della Terra», integrando nelle nostre Costituzioni «la CO2, il livello dei mari, le alghe, i computer, i microbi, i tonni, le meteoriti, gli antibiotici, gli algoritmi, il metano, i diritti umani, le pale eoliche, il mais transgenico, il trapianto di reni» (p. 35); inventando quindi nuovi organi costituzionali e nuovi titolari diritti. Consapevoli che quest’opera di rinascita e rifondazione è già stata fatta, ed è quindi sempre possibile. Consapevoli che questa è l’unica Terra su cui possiamo vivere e che quindi lo stress che fa da collante alle società, «l’unità di sopravvivenza percepita» (p. 48), deve essere ormai in grado di tenere insieme l’umanità intera.

Riferimenti bibliografici
G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano 2014.
E.J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991, BUR, Milano 2014.
P. Sloterdijk, Che cosa è successo nel XX secolo?, Bollati Boringhieri, Torino 2017.

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