L’Arte con la A maiuscola è finita. I musei sono istituzioni al servizio del capitalismo. Le opere sono beni rifugio per investimenti miliardari. I criteri estetici non hanno più valore. Le fiere, le biennali, le fondazioni vivono per l’Artentainment; eventi moralmente edificanti, che discutono delle esigenze sociopolitiche più attuali senza dire niente, senza cambiare le cose o avere intenzione di farlo. Non è un quadro in divenire quello tracciato da Yves Michaud in L’arte è davvero finita. Saggio sull’iper-estetica e le atmosfere (2024), tradotto e curato da Giulia Cervato per Mimesis. Comprendere l’arte di oggi vuol dire fare i conti con la stagnazione di un’«illusione di prestigio» (Michaud 2024, p. 113). Ai valori dell’arte di un tempo, si sostituisce la triade di denaro, divertimento e morale. Il patto tra arte impegnata ed estetizzazione delle apparenze è saltato. L’attitudine critica che ha contrassegnato le arti visive del Novecento si è mutata in stanchezza, ripetizione, disgusto, ricerca spasmodica della novità, nostalgia. L’arte gira perciò a vuoto.

Ma se in questo panorama si sarebbe tentati di riconoscere nei responsabili l’imperialismo del mercato dell’arte occidentale, l’accelerazione del post-modernismo, la turistificazione del patrimonio; questa diagnosi non soddisfa Michaud, che si incammina lungo un’archeologia della fine dell’arte. Il saggio rimonta così alle origini del sentimento estetico, delle esperienze pre-atmosferiche di perdita dell’io, della percezione empatica. Michaud giunge a mostrare che, se l’arte in qualche modo doveva finire nell’estetizzazione del quotidiano, ora è tempo di ribadire che questa fine è avvenuta davvero. Ma questa macabra insistenza sulla morte è giustificata dal fatto che ancora esistono operatori e vere e proprie tecniche per occultare questo cadavere.

Cosa resta dell’arte? Avete presente le ZAD? Zone a difendere anarchiche, spazi di libertà tagliati fuori dalla violenza e la disuguaglianza statale. O le TAZ, le zone temporaneamente autonome descritte da Hakim Bey? Il fenomeno che più riassume le tendenze dell’arte (con la a minuscola) di oggi è, secondo Michaud, quello delle ZEP, Zone Estetiche Protette. Si tratta di quegli spazi ben delimitati, che inequivocabilmente ci segnalano di fare attenzione, perché “qui è arte”. Zone confinate da dispositivi come l’ampolla che delimita l’Aria di Parigi (1919) di Marcel Duchamp, o la lattina della Merda d’artista (1961) di Piero Manzoni. Michaud lo indica con tutta l’ironia che questo comporta. Ciò che resta dell’arte è un semplice confine; un guscio che non dà importanza a ciò che contiene e a come si distingue dal fuori non artistico. Insomma, per capire la fine dell’arte, bisogna comprendere perché ciò che è fuori dalla ZEP è divenuto anch’esso estetico e perché ciò che è all’interno ha perduto, per noi, ciò che Hegel avrebbe definito “serietà”.

Nel suo saggio più noto, L’arte allo stato gassoso. Saggio sul trionfo dell’estetica (2003), Michaud aveva descritto due processi, quello di vaporizzazione dell’arte e quello di estetizzazione del quotidiano. “Bellezza ovunque! questo è il mantra dell’iper-estetizzazione, che si realizza nel decorativo, nell’abbellimento superficiale, nella cosmesi, nella glassatura. Al tempo stesso l’estetizzazione dipende dall’atteggiamento dello spettatore, che si dispone davanti al reale adornato alla ricerca di un piacere edonistico. È un’estetica come atteggiamento. Il piacere dell’iper-estetizzazione è reale, ma protetto, privo di rischi o di imprevisti.

Dopo l’introduzione rivolta all’attualità, Michaud avvia un percorso archeologico sull’inizio dell’estetica moderna. Il testo assegna ampio spazio alle atmosfere come luogo in cui l’iper-estetizzazione giunge a compimento.

La parola “atmosfera” deriva dalla meteorologia e designa lo strato gassoso di una trentina di chilometri di spessore che avvolge la terra. Secondo il dizionario Littré, la parola è usata in senso figurato fin dal XIX secolo: parliamo di atmosfera di un paesaggio, di una stanza, di una riunione familiare (ivi, p. 134).

Per Michaud non è possibile stilare una tassonomica delle atmosfere che assegni loro una valenza ontologica. Solamente una descrizione delle diverse esperienze che le realizzano, di concerto con le tecniche che di volta in volta le producono, permette una loro analisi. Nell’atmosfera ciò che conta non è il contenuto dell’esperienza, ma la tonalità emotiva che essa assume.

Ma quale concezione del rapporto tra essere umano e mondo accompagna l’estetica delle atmosfere? Michaud si rivolge a Gilbert Simondon e Gernot Böhme. È il Simondon meno noto dei corsi di psicologia tenuti alla Sorbonne tra 1963 e 1983 che attira la sua attenzione; in particolare nel corso del 1964-1965, in cui la percezione è riconosciuta come funzione del vivente in stretta correlazione con il movimento. La percezione è un’organizzazione del rapporto con il mondo in cui il vivente fissa dei punti salienti che saranno fondamentali nel mantenimento dell’omeostasi e dunque della sopravvivenza. Attraverso la percezione, lo spazio è già da sempre polarizzato dal vivente. Per questo si può dire che la relazione percettiva con il mondo assume un carattere atmosferico. L’atmosferologia di Böhme ha mostrato la necessità di «una nuova estetica incentrata sulla sensibilità piuttosto che sul significato» (ivi, 158). L’atmosfera è la mescolanza di un ambiente e di una situazione affettiva vissuta.

Nell’interesse di filosofi e psicologi per i fenomeni di sinestesia e di cenestesia Michaud riconosce il compimento dell’atmosfera come sentimento che non coinvolge solamente il cervello, ma il corpo nella sua interezza. Nell’atmosfera si realizza l’intersezione tra percezione e fantasia, l’io si imbeve della sua esteriorità, baratta i suoi confini con un sentimento che si mescola alle cose stesse, si perde nell’oggetto. Michaud riconosce in Arthur Schopenhauer il pensatore di questa condizione pre-atmosferica in cui «l’individuo si inabissa nell’oggetto» (ivi, p. 219). La sinestesia non è perciò semplicemente l’unione di serie sensoriali separate, ma una «totalità percettiva primaria» (ivi, p. 160), un fare tutt’uno di corpo e ambiente nell’esperienza. L’atmosfera è un’esperienza originaria di indifferenza che precede – e rende possibile – il mondo delle cose come oggetti distinti e dotati di caratteristiche proprie.

La fine dell’arte è dunque, a parità di condizioni, il restringimento obbligato del campo dell’estetico dell’arte rispetto all’immenso regno dell’estetico che si è espanso ovunque. C’è qui una questione di proporzione o, piuttosto, di sproporzione: le ZEP non rappresentano assolutamente più niente di fronte a tutta la vita iper-estetizzata. Il loro impero si è sbriciolato e assomiglia a tutto il resto (ivi, p. 297).

Non è un caso che il libro si concluda con un ritorno a Hegel, perché è l’Hegel delle lezioni di estetica l’interlocutore sotterraneo dell’intero saggio. Dell’arte, una volta compiuto il suo ciclo, che dall’arte simbolica conduce all’arte classica e si conclude nell’arte romantica, non è più possibile godere in modo immediato. Perciò il compimento hegeliano dell’arte avviene quando essa diviene pensiero. L’arte davvero finita è l’arte che non pensa che se stessa ed è libera di assumere ogni cosa, anche la più comune, come contenuto.

Michaud ci spinge perciò a vedere che nella separazione tra un’arte autoreferenziale e un mondo iper-estetizzato non è poi così facile tracciare una linea. L’arte finisce per confondersi con l’estetizzazione della nostra intera forma di vita. In questa diagnosi lucida e pessimista c’è speranza per una ripresa dell’arte, magari al di fuori dei canali prestabiliti del mercato? Michaud vuole mostrare che prendere sul serio l’iper-estetizzazione ci costringe a fare i conti col suo carattere totalizzante. Perciò il saggio si conclude con una risposta negativa: non ci resta che riaffermare quel “davvero“, attestando che l’arte appartiene ormai al nostro passato.

Riferimenti bibliografici
G. Böhme, Atmosfere, estasi, messe in scena. L’estetica come teoria generale della percezione, Marinotti, Milano 2010.
Y. Michaud, L’arte allo stato gassoso. Saggio sul trionfo dell’estetica, Mimesis, Milano-Udine 2001.
G. Simondon, Cours sur la perception (1964-1965), Puf, Parigi 2013.

Yves Michaud, L’arte è davvero finita. Saggio sull’iper-estetica e le atmosfere, Mimesis, Milano-Udine 2024.

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