Una delle principali caratteristiche della lingua intesa nel suo senso più generale consiste nella capacità di affermare i contrari, di lasciare emergere il gioco delle opposizioni. Freddo/caldo, bello/brutto, vicino/lontano, sopra/sotto sono solo alcune tra le numerose coppie di opposti che organizzano e determinano i campi semantici intorno ai quali si sviluppano le varie lingue. Nella scienza linguistica, ogni unità di significato contraria a un’altra è tale da potersi definire un “antonimo”: con questo termine è possibile individuare sia le contrapposizioni lessicali, in cui la coppia è formata da parole etimologicamente differenti, sia quelle grammaticali, in cui l’opposizione è ottenuta mediante prefissi (certo/incerto, onore/disonore, attaccare/staccare, ecc.). Tali binomi, sicuramente funzionali alla costruzione del nostro linguaggio, possono allora ritenersi validi anche nell’esperienza? Oppure ne costituiscono semplicemente una sua diminuzione?
Da Friedrich Nietzsche in poi, la grande accusa rivolta alla metafisica occidentale è stata quella di aver trasformato le contraddizioni tipiche della lingua in opposizioni dell’Essere; in altre parole, di aver convertito gli “antonimi” in vere e proprie dicotomie del pensiero, annullando così ogni momento inatteso di creatività e imprevedibilità. In questo modo, «ci si è resi involontariamente prigionieri, tanto si è bloccati da uno schema di tipo oppositivo, da opzioni alternative che scindono la vita, mutilandola in base alla loro dicotomia e facendo perdere definitivamente l’innocenza» (Jullien 2020, p. 43). L’esistenza sembra improvvisamente perdere la sua autenticità: le coppie di opposti, certamente necessarie all’interno della lingua, dividono in frammenti l’esperienza, esponendola a un antagonismo che esclude l’alterità, considerando i contrari sempre e soltanto come avversari.
Queste riflessioni accompagnano il lettore nella parte iniziale dell’ultimo libro scritto dal filosofo e sinologo François Jullien, intitolato significativamente L’apparizione dell’altro. Lo scarto e l’incontro (Feltrinelli 2020). Il volume, che si pone in una relazione di continuità con gli altri testi appartenenti alla lunga produzione dell’autore francese, mette in risalto la questione dell’incontro e del dialogo tra culture diverse, cogliendo nel concetto di “scarto” una feconda sollecitazione per la ricerca filosofica contemporanea. Sulla strada già tracciata dal greco Eraclito, definito l’“oscuro” per la sua proverbiale ostinazione nel sostenere l’unità degli opposti, Jullien illustra la necessità di un pensiero «singolare e solitario» (ivi, p. 48), che possa fare a meno della pretesa di senso cui inevitabilmente conduce il nostro linguaggio. Una riflessione capace di concepire «un’armonia più potente di quella apparente che, anziché separarli, tiene in tensione coerente gli opposti» (ibidem).
Questa “tensione coerente” è ben evidente nella lingua cinese, caratterizzata principalmente da correlazioni e non da costruzioni sintattiche, in cui i contrari si scoprono tra loro complementari. Ed è particolarmente visibile anche nella pittura, come dimostrano le opere dell’artista Shitao, pittore e poeta vissuto in Cina al tempo della dinastia Quing (1642-1707), in grado di rappresentare l’intrinseca vitalità della natura su un semplice foglio di carta. Con l’inchiostro e il pennello, Shitao trascrive figure di torrenti e abissi, di stretti precipizi e ampie vallate, di montagne e mari che arrivano a toccarsi, di spazi che sembrano entrare l’uno nell’altro. Seguendo i due principi del Tao, lo yin e lo yang, l’artista cinese riproduce l’alternanza dei vuoti e dei pieni, le separazioni e le vicinanze in un movimento ininterrotto all’interno dei fenomeni: la pittura, infatti, «pur essendo fatta di segni immobili, riesce a essere l’arte più vicina alla vita» (Shitao 2014, p. 23).
Che cos’è, allora, un incontro? Per rispondere a un simile interrogativo Jullien percorre strade differenti, giungendo infine ad accogliere una definizione comune: l’incontro contiene in sé ciò che è imprevisto. Richiamandosi all’etimologia del sostantivo francese rencontre, che mantiene una certa affinità con il suo significato originale di “colpo di dadi”, il filosofo insiste sul carattere inaspettato dell’incontro. Quest’ultimo, infatti, non perde mai il legame con l’ignoto, con lo sconosciuto, anche quando il soggetto di fronte a noi appare vicino e del tutto familiare; scrive a tal proposito Jullien come l’essenza di ogni incontro risieda proprio nel «mantenere lo scarto o, meglio, nell’aprirlo continuamente, in seno alla più intima prossimità» (Jullien 2020, p. 152).
Nel ritmo sempre uguale e ripetitivo che scandisce la quotidianità, diviene possibile dischiudere un varco e far emergere l’inaudito: quel che credevamo conosciuto e prevedibile, si rivela all’improvviso sfuggente, inafferrabile. In questa tensione continua, in cui il vicino è parimenti totalmente altro, l’incontro lascia spazio all’indeterminato, rinnovandosi ogni volta. Anche l’esperienza artistica, in particolare la pittura, è in grado di afferrare «quanto vi è contenuto d’immensità incontenibile, d’insostenibile stranezza, nonostante si tratti di ciò che in maniera più immediata abbiamo sotto gli occhi» (ivi, p. 159). Ecco allora l’esempio di van Gogh, capace di scorgere frammenti di eccezionalità pur nelle cose più semplici, dipingendo i verdi cipressi del Midi (insieme delle regioni a sud della Francia assai differenti dal Nord) sullo sfondo di un cielo offuscato, o di Gauguin, che nella sua dimora sull’isola polinesiana di Hiva Oa si mette alla ricerca dell’ignoto in pittura. L’inaudito, che nulla ha in comune con le categorie del meraviglioso o dello straordinario, emerge nei momenti ordinari, facendo vacillare certezze consolidate e lasciando trasparire l’infinito nel finito. Questo è il compito più complesso per la filosofia: continuare a incontrare, nel quotidiano, lo sconosciuto.
Riferimenti bibliografici
F. Jullien, Strategie del senso in Cina e in Grecia, a cura di M. Porro, Meltemi, Milano 2004.
Lao-Tzu, Tao Te Ching. Il libro della Via e della Virtù, a cura di J.J.L. Duyvendak, Adelphi, Milano 1994.
Shitao, Discorsi sulla pittura del monaco Zucca Amara, a cura di M. Ghliardi, Jouvence, Milano 2014.
F. Jullien, L’apparizione dell’altro. Lo scarto e l’incontro, Feltrinelli, Milano 2020.