Nel 2016, dopo una gestazione decennale, Scorsese riesce a portare a compimento Silence che, insieme alla versione giapponese del 1971 di Masahiro Shinoda, costituisce l’adattamento cinematografico più importante del romanzo di Shūsaku Endō. Nonostante la stretta collaborazione alla stesura della sceneggiatura, Endō rifiuta il finale presente nel film di Shinoda. Difatti, dopo l’apostasia, padre Rodrigues sembra cedere alla disperazione sposando una condotta irreligiosa che arriva a permeare la sua interiorità più recondita, mentre soltanto dallo sguardo spossato di padre Ferreira traspare ancora la fede. Più vicina alla sensibilità dello scrittore, la versione di Scorsese ammette la possibile continuità tra i due personaggi – al contempo prigionieri di una palude spirituale e prove viventi dell’incorruttibilità della fede – percepibile però soltanto attraverso un dialogo silente. Endō e Scorsese constatano lo scacco cui si va incontro imponendosi all’Altro cui si rifiuta di riconoscere una soggettualità propria: un corpo. Il silenzio non è altro che continuo movimento, compartecipazione di Dio alle sofferenze dei padri apostati (nonché vero e proprio completamento del flashforward “eretico” de L’ultima tentazione di Cristo, 1988), poiché la fede deve avere una progettualità che si aggrappi alla materia.
Pur non facendo riferimento esplicito al cinema, François Jullien, nel suo recente volume, assemblato a partire da alcune suggestioni sviluppate nel corso di una conferenza alla Biennale internazionale d’arte contemporanea di Taipei, aggiunge al proprio armamentario un concetto alquanto attinente al movimento e, dunque, all’universo cinematografico. La de-coincidenza, dichiara fin da subito l’autore, è quel «processo di apertura che lascia emergere – disfacendo dall’interno ogni ordine che, instaurandosi, si fissa – risorse precedentemente inimmaginabili» (Jullien 2019, p. 10). Riflettendo sulla condizione “coincidente” di Adamo ed Eva nel paradiso terrestre, l’autore osserva che, non dubitando della creazione, «vivevano “felici” (lo sapevano?) ma non esistevano» (ivi, p. 18).
Guardando ancora all’opera di Endō, si potrebbe esaminare la figura di Kichijiro, personaggio paradossale – e quindi capace di introdurre «la fecondità di un’incrinatura» (ibidem) non troppo dissimile da quella dei progenitori che mangiano mela – la cui condotta pavida appare risibile nella sua recidività che lo porta continuamente a peccare e ritornare sui propri passi, costernato e roso dal senso di colpa. Egli, nella sua pusillanimità, mette alla prova la fede di Rodrigues, ripresentandoglisi ogni volta come un “virgulto debole” al quale risulta impossible trovare nella figura divina lo sguardo dolce, comprensivo e latore di pace di una madre. Kichijiro sopravvive alle persecuzioni perché, per quanto vessato dal dubbio e dall’angoscia, è aperto all’imprevedibile: la sua esistenza trova espressione nella resistenza. Kichijiro non è; la sua vita si trova in quel “fra”, in quella zona di indiscernibilità propria dell’e-sistenza. Essenza e identità non costituiscono né punto di partenza né di approdo, ma sono concetti che stabiliscono un gioco di differenze – processo che, secondo Derrida, è un cominciamento senza cominciamento – attraverso cui la vita di dispiega.
Fotografata nel suo divenire-strumento, è la stessa idea di “concetto” a essere rimessa continuamente in discussione all’interno del cantiere filosofico di Jullien. Anziché una validità generale, esso apre uno scarto concettuale mediante il quale si percepisce il flusso inarrestabile, incapace di caratterizzazione, perché refrattario a ricorrere alla «figura mitologica di un Evento» e, altresì, «alla soluzione facile della Cesura e del grande Cominciamento» (ivi, p. 9). Nel corso dei decenni, Jullien ha avvertito la necessità di affrontare l’alterità radicale della cultura cinese, guardando a un oggetto resistente, per quanto poroso, a ogni semplificazione. Piuttosto che fermarsi a esperimenti comparatistici, agevolmente conducibili in vitro, il sinologo francese ha preferito affrontare un s/oggetto vivido e onnicangiante che ha definito «lingua-pensiero», giacché «sebbene il pensiero non sia determinato dalla lingua, tuttavia ne sfrutta le risorse» (Jullien 2016, p. 7).
Da qui la concezione strumentale dei “concetti” che, nel loro aprirsi poieticamente, generano degli scarti, delle «faglie inerenti» (Jullien 2019, p. 24) da cui può avviarsi un dialogo transculturale, un movimento tra due culture capace di rivelare l’impensato del pensiero. Nel gioco processuale di transumanza, si producono delle scorie attraverso le quali si scorgono degli aspetti antropologico-culturali inattesi. Le culture non dovrebbero mai essere frutto di definizioni avventate né prodotti di una divisione schizofrenica tra il sé e l’altro.
Se pertanto «filosofare è smarcarsi» (Jullien 2016, p. 255), il “pensare altrimenti” è da intendersi come il vivere lo spaesamento già a partire dalla propria cultura, riflettendo sulle condizioni di possibilità di questo “Altro”. Tentando di avvicinarsi all’evento sorgente, all’implicito del linguaggio, a ciò che appartiene al pre-categorizzato, Jullien si propone di «pensare in termini di de-coincidenza anziché di “disoccultamento” o “svelamento” […] di dispensarci dall’inutile mistero (ideologicamente sospetto) che il registro heideggeriano del “celato”, “velato”, “nascosto”, “accolto”, riparato conferisce all’originario» (Jullien 2019, p. 49).
De-coincidere vuol dire allora disattivare ogni idea di essenza e identità, del divenire in favore di un «avvenire […] che nulla inquadra, assoluto quanto l’Essere, e che Giovanni denominerà “vita”, zoé» (ivi, p. 47). Dio stesso è de-coincidenza originaria tramite cui «ciò che non senza rapporto entra in rapporto» (ivi, p. 46): situato nello hiatus, tutto avviene attraverso di lui, a cominciare dall’opera del figlio incarnato che, de-coincidendo dalla vita, fa sì che la vita stessa possa dispiegarsi effettivamente.
Per queste ragioni, lo studioso si è sempre rifiutato di assecondare il linguaggio istituzionalizzato della “difesa delle identità culturali” alimentato dal mito della cultura pura, a favore della tutela delle fecondità culturali. De-coincidere è «il verbo etico per eccellenza» (ivi, p. 17) perché, “desolidarizzando” dall’adeguamento – tanto nella arte quanto nell’esistenza – l’alterità si rispetta, si mantiene tale senza alienarla a sé.
Che cos’è dunque la modernità?, si chiede il filosofo. Forse il riconoscimento della «impossibilità di un sistema che pretenderebbe di far concordare tutto» (ivi, p. 104), la morte di ogni “sistema”, la «dissoluzione dell’equazione ontologica» che, tuttavia, non conduce al rifiuto della logica – avallando l’interpretazione corriva del pensiero zen – ma «fa emergere la positività (negativa) del positivo» (ivi, p. 73).
Non è più possibile affacciarsi al mistero dell’arte e dell’esistenza attraverso la «finzione di un primo inizio» (ivi, p. 9), bisogna invece ripartire da questo vuoto d’informazione che, come è inteso nella tradizione cinese e giapponese, è un vuoto creativo – «centro di gravità attivo intorno a cui tutto ruota» (ivi, p. 76) – una forma invisibile o, quantomeno, visibile soltanto attraverso le impalcature del sensibile che si dispongono attorno a esso. Il mistero dell’inizio si potrebbe associare a “ciò di cui bisogna tacere” (Wittgenstein), al silenzio – che non è nulla ma, al contrario, è un modo della presenza – capace di curare quella malattia del linguaggio che è la metafisica, la struttura quasi-assente che dà possibilità alla forma non di essere (sostanzialità), ma di e-sistere, tenersi fuori, ossia di vivere.
Riferimenti bibliografici
F. Jullien, Essere o vivere. Il pensiero occidentale e il pensiero cinese in venti contrasti, Feltrinelli, Milano 2016.
J. Rancière, La partizione del sensibile. Estetica e politica, DeriveApprodi, Roma 2016.
L. Wittgenstein, Della certezza, Einaudi, Torino 1999.
*L’immagine di anteprima dell’articolo è: Tarda primavera (Ozu, 1949).