Si sente spesso dire che un’immagine vale più di mille parole. E questo forse è vero a maggior ragione quando si tratta di fare i conti con l’eredità di un pensatore così importante per la storia della cultura occidentale quale è stato Immanuel Kant.

Immagine che contiene dipinto, vestiti, Viso umano, ritratto

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Questo dipinto a olio, realizzato nel 1791 dal pittore e incisore berlinese Gottlieb Döbler (o Doppler), è il più importante ritratto di Kant che conosciamo. Ma soprattutto, è uno dei più fedeli e attendibili, dal momento che venne eseguito dal vivo durante un lungo soggiorno a Königsberg. Kant ci viene qui mostrato all’età di sessantasette anni, al culmine della sua maturazione intellettuale – un anno prima aveva pubblicato la sua terza critica, la Critica della facoltà di giudizio (1790). Due oggetti in particolare, collocati vicino al braccio sinistro, accompagnano la figura in primo piano del filosofo: delle penne per scrivere e un globo terrestre. Se la decisione di inserire l’immagine di uno strumento per la scrittura può essere considerata di più facile lettura, quella del globo geografico potrebbe invece sorprendere qualcuno abituato a pensare a Kant unicamente come a un autore di testi filosofici. Eppure non si tratta né di un caso, né di una scelta semplicemente ornamentale. Anzi, è altamente probabile che questo allestimento venne condiviso dallo stesso Kant, il quale, come raccontano i suoi biografi, era un appassionato lettore di resoconti di viaggio. Ma non solo! Sì, perché a differenza di altri importanti filosofi della modernità (alcuni dei quali furono anche sue fonti dirette: Bacone, Locke, Hume, Leibniz) Kant è l’unico ad aver insegnato Geografia fisica all’università – 47 corsi, dal 1756 al 1796, più di qualsiasi altra materia, fatta eccezione per le lezioni di logica (54 corsi) e di metafisica (52 corsi). 

Il primo in Germania a ricoprire questo incarico, alcuni decenni prima che venisse ufficialmente istituita una cattedra di geografia presso l’università di Berlino (a prendere servizio verrà chiamato Carl Ritter). Contribuendo peraltro alla definitiva emancipazione della geografia dalla teologia e alla sua sistematizzazione come una «moderna scienza europea». Lo dimostrano in modo efficace i saggi che Kant ha dedicato ai terremoti dopo quello di Lisbona del 1755. Scritti nei quali invece di discutere di castigo e di colpa, o di invocare modelli apocalittici come il diluvio universale e la fine del mondo, l’autore parla di leggi fisiche, di condizioni geologiche, dell’urbanistica, del rischio, della responsabilità politica, civile e intellettuale. Il sisma, infatti, nella nuova ottica illuministica di cui egli si fa ambasciatore, non costituisce più un evento «sovrannaturale» da collocare fuori dall’ordine regolare della natura. Per questo i geografi ancora oggi fanno riferimento a un vero e proprio «Kantian turn» nella storia della loro disciplina. Kant, un geografo? Di più: Kant, una figura centrale nella storia della geografia? A scuola non ne abbiamo mai sentito parlare. Ma è un aspetto davvero così rilevante? Così tanto da dover essere incluso nella sua iconografia ufficiale? 

Nel corso di questi trecento anni il continuo e persistente interesse di Kant per la geografia è stato (inspiegabilmente!) trascurato dagli storici della filosofia e dagli specialisti del settore, abituati a rigettare come deprecabile ogni forma di ibridazione e contaminazione che ai loro occhi rischierebbe di mettere a “repentaglio” la presunta purezza della disciplina filosofica. Eppure, già Ernst Cassirer nella sua biografia intellettuale sosteneva che Kant, durante il periodo precritico, «da geografo empirico […] diviene “geografo della ragione” in quanto intraprende a misurare tutta l’ampiezza della sua facoltà secondo principi determinati» (Cassirer 2016, p. 52). Potremmo altresì dire che egli era passato dalla descrizione del cosmo spaziale alla descrizione del cosmo intellettuale, dalla «topografia empirica» alla «topografia trascendentale». E in effetti, è proprio a partire da Kant che si fa strada nella cultura occidentale la convinzione che anche la filosofia ha bisogno di un modello per orientarsi, che il pensiero possiede una geografia ancor prima di una storia, che esso traccia dimensioni prima di costruire sistemi. Una prospettiva che rimane valida ancora oggi, come dimostrano le numerose pubblicazioni che, nel solco dell’ecologia-politica di Bruno Latour, ci invitano a reimmaginare il nostro rapporto con la terra e a dare un senso tutto nuovo al prefisso geo-.

Da questo punto di vista, l’opera di Kant può essere considerata a tutti gli effetti un caso di scuola. Non meno importante, essa costituisce una rilevante smentita alla tesi secondo cui la modernità sarebbe stata preoccupata dal tempo e dalle “grandi narrazioni”, mentre la post-modernità dallo spazio e da una presunta “fine della storia”. Certo, Kant è stato un pensatore del proprio tempo. Nel senso che non solo si è posto la domanda «che cosa accade oggi?», ma si è anche interrogato su cosa la filosofia potesse fare per rispondere alle esigenze e alle sfide della propria epoca: che egli programmaticamente chiamava «l’epoca della critica». Tuttavia, anche senza considerare nel dettaglio le opere dedicate a temi e argomenti di carattere esplicitamente geografico, il progetto critico-trascendentale sarebbe diverso, e forse addirittura irriconoscibile, senza i riferimenti geografici e le metafore spaziali che lo caratterizzano. Ma si tratta davvero, e soltanto, di semplici metafore? Oppure esistono dei legami più profondi tra la geografia fisica di Kant e la sua geografia trascendentale? Che cosa aggiunge alle semplici parole l’accostamento tra la figura dello studioso, le penne e il globo geografico che vediamo nel ritratto di Döbler? 

L’impressione che lascia il breve scritto Che cosa significa orientarsi nel pensiero?, insieme alle reinterpretazioni che ne sono state date in tempi più recenti (Martin Heidegger, Gilles Deleuze, Bernard Stiegler), è che sia possibile rintracciare più di una connessione tra le metafore spaziali utilizzate da Kant e le tecniche di rappresentazione dello spazio che caratterizzavano la coscienza planetaria e l’immaginazione cartografica dell’illuminismo. A tal proposito, è bene tenere a mente che la «rivoluzione copernicana», tratto caratteristico della nuova impostazione filosofica kantiana, non è in contraddizione con i modelli della spazialità geografica. Anzi! Da copernicano coerente qual è, Kant sa benissimo distinguere la messa in prospettiva della terra dalla sua relazione all’esperienza effettiva. E come osservano Deleuze e Guattari in un bellissimo capitolo di Che cos’è la filosofia?, è stata proprio l’idea di rivoluzione copernicana a mettere il suo pensiero «direttamente in rapporto con la terra» (Deleuze, Guattari 2002, p. 77). Anche la sua conoscenza, infatti, è legata a quello che Kant chiama il «punto di vista umano sullo spazio»; cioè il punto di vista di una creatura dotata di un corpo, in base al quale si muove e in virtù del quale orienta le sue forme di spazializzazione.

Lo «spazio del pensiero» che Kant descrive nella sua opera non è uno spazio astratto, neutrale, una superficie liscia senza vettori o direzioni; ma è uno spazio vissuto, concreto, variegato, con coni d’ombra e zone luminose, vuoti e pieni, dislivelli e asperità. È lo spazio di un mondo «già sempre in uso», di cui il pensiero si appropria per mezzo di specifici strumenti e in virtù di specifiche tecniche. In questo senso, intendere il progetto filosofico kantiano sotto la specie della sua forma spaziale comporta, né più né meno, che un nuovo modo di leggere la storicità

A cominciare dalla più nota di tutte le metafore geografiche di Kant, la bella immagine dell’isola della verità, che ci fornisce la chiave geografica dell’intera filosofia kantiana. Si tratta di un’immagine stratificata, un amalgama perfetto dei principali protagonisti dell’epoca delle scoperte. Kant la assembla attingendo da differenti risorse testuali e iconografiche. Forse pensa alla mappa dell’isola di Utopia, situata in una parte imprecisata del Nuovo Mondo. Probabilmente fa riferimento alla filosofia di Locke e di Tetens. Quasi sicuramente ha in mente Bacone, in particolare la Nuova Atlantide e il Parto maschio del tempo. Ma non raccoglie solo da filosofi. Tra le fonti di Kant ci sono anche i grandi viaggiatori del suo tempo, in particolare quelli che hanno preso parte alle missioni oceaniche di James Cook. Anzitutto Forster, che raccontava di quanto apparisse ingannevole, a chi si trova a navigare per i mari, la forma dei ghiacciai. Ma anche William Hodges, disegnatore di bordo nella seconda spedizione di Cook, che delle ice islands aveva rappresentato il profilo.

La geografia della ragione di Kant ci mostra la superficie di un piano, ma questo piano sottende sedimentazioni, stratificazione e dislivelli che di questa “mappa della ragione” sono la genealogia e l’archeologia. Tale archeologia – secondo la prospettiva che ho provato a sviluppare in un recente libro intitolato Mappe della ragione. Kant e la medialità dell’immaginazione cartografica (Morawski 2024) – si colloca all’incrocio tra il testuale e il visuale, l’umano e il non-umano, esplorando le forme spaziali d’ordine che Kant ha importato da altri media e ponendo l’accento sui processi di “rimediazione” – intermediali e intertestuali – che caratterizzano il suo progetto critico come una cartografia trascendentale. Trattare le metafore geografiche di Kant come fossero semplici «illustrazioni del testo», senza prendere in considerazione quali operazioni tecnico-culturali, quali regimi scopici, quali immagini epistemiche e quali dispositivi ottici siano associati alla materialità della sua geografia della ragione, significherebbe infatti ridurre la nostra capacità di analisi. Non si capirebbe, ad esempio, perché egli definisca la «ragione architettonica» come «la facoltà di descrivere la sua propria sfera». Per Kant, che nella sua carriera di professore di geografia e filosofia ha assistito alla completa mappatura del globo terraqueo, osservando quasi in diretta la costruzione empirica della sua rappresentazione cartografica, la capacità autoriflessiva di rappresentare l’unità della ragione come una sfera è il sapere architettonico nella sua forma più universale. A testimonianza di come la globalizzazione non sia (oggi come ieri) solo un avvenimento storico, il risultato di «un’avventura per marinai», ma un «evento nella storia della conoscenza»; i cui effetti si riverberano sull’intero campo dei saperi, modificandone assetti, grammatiche e linguaggi.

Riferimenti bibliografici
E. Cassirer, Vita e dottrina di Kant, Castelvecchi, Roma 2016.
G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, a cura di C. Arcuri, Einaudi, Torino 2002.
T. Morawski, Mappe della ragione. Kant e la medialità dell’immaginazione cartografica, Quodlibet, Macerata 2024.

Tags     geografia, Kant
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