Quando lo scorso 9 febbraio Renée Zellweger, in tutto il suo fulgore scheletrico-muscolare esaltato da uno scintillante abito monospalla Armani Privé, è salita sul palco del Dolby Theatre per ritirare la statuetta come miglior interprete – il primo Oscar lo aveva vinto da non protagonista ben 16 anni fa per un piccolo ruolo in Ritorno a Cold Mountain (Minghella, 2003) – nel suo discorso di ringraziamento ha reso omaggio alla grandezza indiscussa (artistica e umana) dell’eroina Judy Garland, rimarcando il fatto che alla protagonista de Il mago di Oz (Fleming, 1939) non fosse mai toccato l’onore di ricevere in vita lo stesso riconoscimento e che, quindi, attraverso un film come Judy si sia voluto celebrarne definitivamente il mito in un’ideale estensione della sua eredità (an extension of the celebration of her legacy).

Sul doppio Zellweger-Garland non resta molto da dire, visto e considerato che la stagione dei premi ha decretato il successo unanime di questa nuova creatura cinematografica (ancora una volta il musical-biopic, se così possiamo definirlo, si è imposto come genere di tendenza nell’universo mediale): Renée-Judy canta sul grande schermo, con la sua voce, e lo fa in maniera totalmente credibile, incorporando la sofferenza feroce del personaggio e lasciando affiorare in superficie il racconto fisiognomico della sua tragedia – siamo lontani dalla potenza vocale deflagrante di Garland, ma è apprezzabile il tatto con cui è stata portata avanti l’operazione mimetica.

I momenti più riusciti sono proprio quelli in cui si esibisce sul palcoscenico: nel finale, soprattutto, il virtuosismo rasenta la perfezione e il viso dell’interprete sembra trasfigurarsi – mentre altrove, nel recitato, l’impressione è piuttosto che a fare capolino siano certe riconoscibilissime smorfiette à la Bridget Jones. Del resto, se si volesse  approfondire il discorso puntando banalmente sul legame esistenziale tra le due interpreti e sulla loro conclamata fragilità, la strada sarebbe già bella che spianata (il biopic, da questo punto di vista, è un territorio estremamente agevole e si presta agli sconfinamenti di campo, così come più in generale tutti i fenomeni interconnessi al reame fantasmatico del divismo). Non si è parlato d’altro nelle ultime settimane: il ritorno trionfale di Zellweger – sparita per anni dalle scene, dopo la fase asfittica del successo iniziale, perché intenzionata fermamente a ritrovare se stessa (ricerca culminata con una memorabile berlina interplanetaria a seguito di un tentativo di lifting mal riuscito) – si sovrappone al ritorno di un’altra grande donna dimenticata, la divina Garland. Nessuna imita l’altra. Ok, sono la stessa cosa. Quando muore una stella, ce n’è un’altra che nasce o che rinasce. Amen.

Eppure, ascoltando Zellweger utilizzare il termine “estensione” riferendosi a Garland, può succedere che inevitabilmente qualcosa cominci davvero ad espandersi nelle nostre menti di spettatori e che per parlare di Judy si scelga di portare il discorso su un altro piano. L’idea è che questo film, che questo Oscar, dialoghino con quanto accaduto lo scorso anno intorno ad A Star Is Born (Cooper, 2018), che già per certi versi aveva rievocato la parabola garlandiana riproponendo la stessa storia raccontata nell’omonimo film di Cukor del 1954 – fermiamoci a questo riferimento specifico, anche se, come abbiamo già evidenziato in passato, ci sarebbero tutta una serie di sequel e di prequel da considerare.

In quella particolare versione di se stessa, Garland interpretava Vicky Lester, una ragazza bruttina ma dotata di un enorme talento vocale che si affida al pigmalione Norman Maine (James Mason), attore fallito con imbarazzanti problemi di alcolismo, e nelle sue sapienti mani riesce finalmente a farsi strada nel mondo dello spettacolo e ad affermarsi come star di prima grandezza. Se A Star Is Born traspone, pertanto, ancora una volta, il mito di Pigmalione e Galatea inserendolo nel contesto del cinema hollywodiano degli anni d’oro, Judy compie un salto ulteriore mostrandoci quel che succede dopo, quando il potenziale del nucleo melodrammatico originario si esaurisce e i personaggi si svincolano dal proprio destino diegetico, restando intrappolati da qualche parte dietro le quinte, oltre lo schermo, tra una pagina e l’altra.

La fine del Pigmalione è nota – muore suicida perché incapace di fare i conti con le proprie insicurezze –, ma nessuno ci ha mai raccontato di Galatea: che le è capitato? È riuscita a farcela da sola, ad autodeterminarsi, a fare i conti con le ombre della celebrità, ad alimentare la fiamma imperitura del suo culto? A restare donna in carne e ossa senza corrispondere al richiamo mortifero della pietra? Pur essendo sopravvissuta a un numero esorbitante di pigmalioni (produttori, registi, impresari, mariti, amanti), nella vita e nell’arte, come persona e come personaggio, Judy Garland non è mai stata in grado di riconoscersi al di fuori della scena: è una galatea marziale e apolide, un animale da palcoscenico addestrato a suon di privazioni (niente cibo, niente sonno, solo pillole che possano sopperire a qualsiasi tipo di stimolo).

Sa di essere diversa da tutte le sue coetanee disperse nell’anonimato della provincia americana. La sua voce è diversa: una voce capace di sgretolare la barriera dello squallore ordinario – una famiglia poco amorevole, il peso della sua scarsa avvenenza, l’essere costretta a esibirsi fin dalla più tenera età – e di farla volare lassù, over the rainbow, come le spiega, in maniera fin troppo assertiva, Louis B. Mayer durante il provino che la sedicenne sostiene per ottenere la leggendaria parte di Dorothy Gale in Il mago di Oz. Sono passati più di trent’anni da quel fatidico momento e la Judy adulta si ritrova sul viale del suo personalissimo tramonto, senza casa né denaro, perseguitata dall’ex marito, a cercare di far quadrare la sua vita “normale”, gestendo i suoi due figli più piccoli (la maggiore Liza Minnelli ha già raccolto il testimone e si appresta a percorrere per conto suo un nuovo arco stellare di autodistruzione). Per tutti questi motivi accetta di fare alcuni concerti a Londra, dove ha ancora un nome e una riconoscibilità.

Il film di Goold ci racconta proprio questa fase, l’ultima della sua breve e problematica vita – Garland muore a 47 anni per un’overdose di barbiturici, sei mesi dopo aver terminato i concerti. Anche se ormai prossima al crepuscolo, la Judy del film si presenta come una creatura aurorale, diafana, indefinita, drammaticamente incastrata a metà strada, tra un mondo e l’altro (la notte e il giorno, il passato e il presente, l’America e l’Inghilterra, il proscenio e il dietro le quinte, il cinema e la realtà), sospesa tra desiderio e terrore: desiderio di essere amata, di compiacere ancora il suo pubblico, di assaporarne il calore, di ardere nel fascio glorioso della ribalta, di apparire nell’acquario dello schermo nuotando libera e leggera senza doversi preoccupare della forma; terrore di amare, di non essere all’altezza, di non controllare l’emissione, di restare senza voce ovvero raminga nell’oscurità di un’esistenza svuotata di senso.

Il finale consolatorio non ci preserva dalla percezione della caduta imminente. Ebbene sì, Galatea ha perso (forse). Pigmalione ha avuto la sua rivincita (ma è davvero così?). Il loro bizzarro menage continua a rigenerarsi nei millenni e a produrre capitoli sempre più avvincenti e complessi, a cavallo tra la vita e la morte, la verità storica e la fiction. Da qualche parte. Oltre l’arcobaleno.

Judy. Regia: Rupert Goold; sceneggiatura: Tom Edge; fotografia: Ole Bratt Birkeland; montaggio: Melanie Oliver; interpreti: Renée Zellweger, Finn Wittrock, Rufus Sewell, Michael Gambon, Jessie Buckley; musiche: Gabriel Yared; produzione: BBC Films, Calamity Films, Pathé; distribuzione: Notorius Pictures; origine: Gran Bretagna; durata: 1118′.

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