Mai come in questi ultimi decenni la letteratura, di qualsiasi nazionalità ed epoca, ha mostrato con tale vigore la complessità delle stratificazioni concettuali che geneticamente la percorrono da sfuggire di mano ai critici letterari, da secoli depositari privilegiati della sua codificazione e interpretazione. Sempre più smarriti di fronte all’agguerrito e sofisticato corredo di strumenti esegetici posseduti da filosofi, studiosi di estetica e di media, sociologi e psicoanalisti – tutti da tempo rivolti a scavare nei testi letterari per mettere in luce le collisioni semantiche da cui traggono origine i loro intrinseci, quanto preziosi, esiti aporetici – i critici di professione hanno serrato le fila, decisi a rilanciare l’aura tradizionalmente posseduta dalla letteratura.

Quest’aura, però, fuori dal retaggio di un sapere umanistico che si alimenta esclusivamente della propria autoreferenzialità, si è completamente dissolta. Ma non significa certo che i valori puramente “estetici” conferiti alla letteratura abbiano goduto di un’affermazione incontrastata. Tutt’altro. Basti solo pensare alla riflessione straordinaria – per rigore e spregiudicatezza – che percorre ogni pagina degli sterminati Quaderni di Valéry, il quale, per esempio, lungo il 1924, non dimostra alcuna remora nell’annotare che «la letteratura, – mi interessa soltanto come esempio o tentativo di dire quel che è difficile dire. L’arte di esprimere, molto più di quella di divertire, di incantare, di commuovere» (Valéry 1985, p. 279). Di esprimere – vuole dire Valéry – le traiettorie sghembe del pensiero, i suoi fulminei cortocircuiti, i sentieri interrotti che lo costringono di continuo ad arretrare e i semi di senso che, nello stesso tempo, gli prefigurano nuove possibilità.

Joyce, agli antipodi di Valéry in ogni segmento della propria esistenza come delle proprie opere, avrebbe di sicuro avallato queste parole, pur respingendo con fermezza le suggestioni della riflessione teorica a cui rimane avvinto Valéry. Ma – ecco il problema cruciale – per mettere in luce compiutamente la densità concettuale che si annida nella scrittura di Joyce è necessario recidere una volta per tutte quel logoro filo che la lega alla dicitura di “manierismo” o di puro, ed estremo, sperimentalismo, proseguendo ad accordare la sua aura a un funambolismo linguistico assolutamente inimitabile.

Nel proposito di accantonare definitivamente questi luoghi comuni Giovanni De Renzis e Pietro Pascarelli – due noti psicoanalisti dotati di un’ampia cultura letteraria e filosofica – hanno ideato il volume a più voci Joyc’è. Dalla gaia scienza di Ulisse alla scienza nuova di HCE: un contributo che, insieme ai recenti, pionieristici, saggi e traduzioni di Enrico Terrinoni, delinea un profilo dello scrittore irlandese del tutto nuovo, finalmente emancipato dalla sterile iper-letterarietà nella quale era regalmente confinato per le sue acrobazie linguistiche e formali. 

Joyc’è, appunto: continuando a indicarci – secondo le parole dei curatori – «l’accesso alla dimensione dell’enigma e della sua necessaria accettazione». Quale enigma risulta, infatti, più arduo del nodo che congiunge la forma e l’informe? Due poli opposti solo in apparenza, come dimostra il loro ricorrente intreccio nell’intera fenomenologia letteraria e artistica. Un intreccio che Joyce trasforma in un compiuto principio estetico, ma, prima ancora, in un paradigma epistemologico dalla imprevedibile coerenza e necessità implacabile. Come testimoniano esemplarmente Gente di Dublino e il Ritratto dell’artista da giovane l’apprendistato letteraria di Joyce non possiede alcuna connotazione sperimentale, dipanandosi, con qualche isolata infrazione, lungo gli schemi collaudati dei canoni narrativi. In entrambe le opere non c’è traccia di quelle vibrazioni della parola che si espanderanno nell’Ulisse, per poi dare luogo in Finnegans Wake ai volteggi fosforescenti di una vera e propria babele linguistica. Se Joyce giunge a questi esiti estremi dipende esclusivamente dalla consistenza progressiva acquistata da modelli di percezione che non si lasciano trasporre nel linguaggio e nelle forme sintattiche ereditate dalla tradizione. Come dire, come esprimere nel lessico ordinario quell’apporto della sensorialità più elementare, la presenza via via più invadente della “materia sensibile” da cui è attirato Stephen, protagonista del Ritratto dell’artista da giovane? Questa domanda imprime il drastico cambiamento di rotta inaugurato da Joyce con l’Ulisse. Una domanda alla quale, da postazioni diverse, tentano di rispondere tutti i contributi compresi in Joyc’è.

Risulta evidente che si tratta di un interrogativo che esula dagli ambiti della storiografia e della critica letteraria. In gioco c’è ben altro. Lo potremmo definire la vita dei segni, per riprendere il titolo del recente libro di Felice Cimatti (2023) che, attraverso una straordinaria ampiezza di riferimenti, ripercorre, soprattutto a partire dal Novecento francese, proprio lo strenuo conflitto apertosi tra la vita e i segni, tra il corpo e il linguaggio. È il medesimo antagonismo intorno al quale ruotano l’Ulisse e Finnegans Wake. Gli effetti di questo scontro, tutt’altro che ludico, anzi profondamente tragico, non sfuggono a De Renzis e Pascarelli, rivolti, nell’introduzione al volume e nel successivo prolungamento di Pascarelli, ad affrancarlo da ogni estro manieristico per ricondurlo, viceversa, alla “catastrofe” che coincide, sia nell’Ulisse sia in Finnegans Wake, con l’irreparabile conflitto tra la vita e i segni. Pienamente compreso da Lacan, in particolare dall’ultimo Lacan, che dedica, tra il 1975 e il 1976, a Joyce il XXIII Seminario, osservando che «il problema […] è quello di sapere perché mai un uomo normale, cosiddetto normale, non si accorga che la parola è un parassita, una placcatura, che la parola è la forma di cancro che affligge l’essere umano. Come mai alcuni arrivano ad avvertirlo? Certo è che in Joyce sembra esservene traccia» (2006, p. 91).

Nell’opera di Joyce questa traccia della degenerazione inscritta nell’origine stessa del linguaggio assume l‘aspetto di una ferita, i cui lembi non si lasciano suturare. Ma egli non si arrende. Dall’esilio nel quale avverte di essere confinato (su cui Gabriele Frasca si sofferma con indiscutibile intelligenza ermeneutica) si dimostra pronto a rilanciare la sfida. Un’interminabile sfida. Se «la parola è la forma di cancro che affligge l’essere umano», inglobando qualsiasi “materia sensibile” in un sistema di astrazioni prestabilite che ne annullano l’irriducibile singolarità, Joyce, nell’Ulisse, forza il linguaggio fino a disintegrarlo in un pulviscolo informe di macchie, di slabbrature orientate a estendere il regime del senso oltre le codificazioni imposte dalla nomenclatura linguistica.  

Anche quando attraverso Finnegans Wake lotterà con l’imposizione sul suo stesso terreno (e Lacan se ne è accorto meglio di chiunque altro), finendo «con l’imporre al linguaggio una sorta di frantumazione, di decomposizione che fa sì che non ci sia più un’identità fonatoria» (ivi, p. 92), ma solo «un’apoteosi della parola capace di sostituirsi al mondo» – così la definisce Luciano De Fiore in un altro intervento presente nel volume – Joyce sarà ancora una volta il primo a prendere atto che il divorzio della vita dai segni non è certo superato attraverso un simile procedimento. Ma, almeno, ha resistito con ogni mezzo. Ricavandone l’unico godimento possibile. Quello che Lacan sigla con questa esclamazione lapidaria: «Che idea quella di far di sé un libro!» (2006, p. 67).

Riferimenti bibliografici
F. Cimatti, La vita dei segni. Il linguaggio e i corpi nella filosofia francese del ‘900, il melangolo, Genova 2023.
J. Lacan, Il Seminario. Libro XXIII. Il Sinthomo. 1975-1976, Astrolabio-Ubaldini, Roma 2006.
E. Terrinoni, James Joyce e la fine del romanzo, Carocci, Roma 2015.
Id., Su tutti i vivi e i morti. Joyce a Roma, Feltrinelli, Milano 2022.
P. Valéry, Quaderni, I, Adelphi, Milano 1985.

Giovanni De Renzis, Pietro Pascarelli, Joyc’è. Dalla gaia scienza di Ulisse alla scienza nuova di HCE, Cronopio, Napoli 2023. 

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